Piero Bianucci, Il bosone di Higgs

by gabriella

La storia della particella di Dio e del suo “avvistamento” (al Cern nel 2012), nel giorno dell’assegnazione del nobel per la fisica allo stesso Higgs e ad Englert, i ricercatori che nel 1964 accertarono per vie diverse la stessa tesi sull’esistenza della materia. Un’illustrazione della teoria di Mauro Poggi.

Alla fine il bosone di Higgs, folcloristicamente soprannominato «particella di Dio», ha fatto la sua comparsa in due colossali esperimenti del Cern di Ginevra. È il punto di arrivo di un cammino iniziato negli Anni 60 del secolo scorso. L’ultimo tassello di un puzzle che i fisici hanno messo insieme pazientemente in mezzo secolo di lavoro costruendo macchine sempre più grandi, potenti e costose.

Si chiamano bosoni, dal nome del fisico indiano Bose che con Fermi ne descrisse le proprietà, le particelle che trasportano una forza. Sono bosoni, per esempio i fotoni, cioè le particelle che costituiscono la luce, e i gluoni, la «colla» che tiene insieme i nuclei degli atomi. Il bosone di Higgs è speciale: è la particella che conferisce una massa a tutte le altre particelle, e quindi in qualche modo dà ad esse l’esistenza in quanto oggetti materiali. Questa è la sua potenza «divina».

Da ieri, dunque, conosciamo il segreto della massa delle particelle subnucleari, e quindi sappiamo come è fatto l’universo visibile (purtroppo stiamo parlando solo del 4 per cento di quanto esiste, il 96% ci sfugge perché è sotto forma di materia ed energia invisibili). Fatto non irrilevante, sappiamo inoltre perché si sono spesi sette miliardi di euro nel Large Hadron Collider, Lhc, un anello di magneti lungo 27 chilometri nel quale due fasci di protoni si scontrano a energie mai raggiunte prima.

Certo, gli scienziati preferiscono essere prudenti, tutto deve essere meglio verificato. Solo a fine luglio una pubblicazione metterà nero su bianco i risultati preliminari presentati ieri mattina nell’auditorium del Cern da Joe Incandela per l’esperimento Cms e da Fabiola Gianotti per l’esperimento Atlas. Altre misure saranno necessarie almeno fino alla fine di quest’anno. L’identikit è quello della particella tanto attesa: una massa di 125,3 GeV. Se non fosse il bosone di Higgs sarebbe davvero qualcosa di strano e, per certi versi, di ancora più interessante. Ma i margini dell’incertezza statistica dichiarati da Incandela e Gianotti sono minimi.

Incominciò Murray Gell-Mann nel 1964 immaginando l’esistenza dei quark, particelle più elementari dei protoni e dei neutroni fino ad allora ritenuti i mattoni ultimi dei nuclei atomici. Fu l’inizio del Modello Standard, il paradigma della fisica moderna, al quale subito Peter Higgs contribuì con l’idea del suo bosone, poi battezzato «particella di Dio» dal fisco Leon Lederman, premio Nobel nel 1988.

L’universo così come ora lo osserviamo è fatto essenzialmente di due tipi di quark: Up e Down. La teoria però ne prevede sei, che si manifestano a energie crescenti. Uno per volta, i fisici li hanno scoperti. Il sesto, chiamato Top perché è un po’ come il tetto che sta sopra l’edificio degli altri, fu preda del Fermilab di Chicago nel 1995. Il modello prevedeva anche sei leptoni. Di essi alcuni erano già noti (elettrone, muone, neutrino elettronico), gli altri sono stati via via scoperti: ultimo arrivato il neutrino Tau, stanato nel 2000 al Fermilab.

Erano presenti all’appello anche alcune particelle che scambiano le forze fondamentali della natura, i bosoni, appunto: il «vecchio» fotone per la forza elettromagnetica (risale a Einstein), il gluone per l’interazione forte, W e Z per l’interazione debole, queste ultime scoperte da Carlo Rubbia, premio Nobel nel 1984. Era latitante invece il bosone di Higgs, e questo era un problema, perché senza di esso il Modello Standard entrerebbe in crisi. Ecco perché ieri al seminario del Cern i fisici hanno tirato un respiro di sollievo.

Ieri è stata posata una pietra miliare. La strada però rimane lunga. Una teoria molto accreditata prevede l’esistenza di particelle simmetriche a quelle già note e altre ancora. Questo mondo di Alice riflesso nello specchio potrebbe risolvere l’enigma della materia oscura di cui gli astronomi vedono nell’universo segni indiretti. Ma restando nel Modello Standard, sarebbe importante anche osservare sperimentalmente le onde gravitazionali, e quindi i gravitoni.

Per finire, qualche numero su LHC. La macchina che ha stanato la «particella di Dio» si avvale di 9600 magneti. Di questi 1746 sono superconduttori raffreddati con 190 tonnellate di elio a 1,9 Kelvin. Poiché l’universo ha una temperatura di 2,7 Kelvin, l’acceleratore del Cern è l’oggetto più freddo che esista nel cosmo. Ed è anche il più vuoto: i tubetti percorsi dai protoni contengono meno materia dello spazio interstellare.

Sull’energia raggiunta dentro LHC, invece, bisogna intendersi. Tutti i protoni accelerati in un giorno pesano appena 2 miliardesimi di grammo. Ci vorrebbe un milione di anni per accelerare un solo grammo di materia. Inoltre l’energia di ciascun protone è paragonabile a quella di una mosca in volo e quella totale dei fasci corrisponde a un battito delle mani. Le collisioni sono enormemente energetiche solo perché l’energia è concentrata nello spazio piccolissimo di un protone: un conto è battere le mani tra loro, un altro battere una mano contro la punta di uno spillo. Ecco perché le collisioni ottenute in LHC con nuclei di atomi pesanti riescono a riprodurre le condizioni del Big Bang portandoci indietro nel tempo fino a 13,7 miliardi di anni fa.

Mauro Poggi, The Goddamn Particle

E così, il premio Nobel per la fisica è andato a Peter Higgs e François Englert, teorizzatori – cinquant’anni fa – di quel bosone la cui esistenza ha potuto essere dimostrato solo l’anno scorso.

Ho provato a farmi una sia pur grossolana idea della questione, ma la mia conclamata ignoranza non mi ha permesso di capirne granché. Come si dice? Non ho le basi. La spiegazione più divulgativa che ho potuto trovare è quella di un ricercatore di fisica teorica spagnolo, autore del blog  Principia Marsupia.
Declinando ogni responsabilità provo a riassumere, con l’aggiunta di altre spigolature rimediate in rete:

20130531_Lungomare-Cogoleto-Varazze_011La materia è formata da atomi, composti da un nucleo (protone e neutrone) attorno a cui girano uno o più elettroni.

Protoni e neutroni sono composti da sei tipi di particelle – tre a testa, dette quark (1964, Gell-Man e Zweig: rispettivamente quark sopra, quark sotto, quark seducente, quark bizzarro, quark cima, quark fondo – a conferma del fatto che anche gli scienziati a volte non controllano la qualità dell’erba che fumano).

Gli elettroni invece, come i quark,  non sono ulteriormente scomponibili.

Ma pur essendo entrambi particelle elementari, quark ed elettroni hanno masse estremamente differenti: un quark è 350.000 volte più grande di un elettrone. E’ la stessa differenza di peso che passa fra una balena e una sardina, ma mentre in questo caso i fisici nucleari se ne sono fatta da sempre una ragione, nel caso delle particelle sembra che la cosa non li lasciasse dormire.
Si mormora infatti che la mancanza di simmetria confliggesse con il Modello Standard, “la teoria fisica che descrive tre delle quattro forze fondamentali”, e che fosse necessario introdurvi un qualche meccanismo che ne desse giustificazione. Fu così che nel 1964 Higgs ipotizzò che l’Universo è interamente immerso in una sorta di brodo (il campo di Higgs) composto da quanti (i bosoni di Higgs) che interagiscono con tutte le particelle elementari conferendo loro masse specifiche a seconda dell’intensità dell’interazione. Più l’interazione è forte, più grande è la massa: l’interazione di un quark è 350.000 volte più forte di quella di un elettrone, perciò un quark ha una massa 350.000 volte superiore.

Se la spiegazione vi soddisfa, allora vi accontentate di poco. Sicuramente sotto ci dev’essere qualcosa di più convincente, ma rinuncio a sapere.

Piuttosto trovo divertente l’aneddoto – non so quanto vero –  del modo in cui il bosone di Higgs, da particella quantica, assurse a Particella di Dio:

Correva l’anno 1993 e il fisico Leon Lederman, premio Nobel 1988, pubblicò un ponderoso libro divulgativo sull’argomento. Il titolo, nelle intenzioni dell’autore, sarebbe dovuto essere “The Goddamn Particle”, che in italiano suonerebbe “la dannata particella”, e ciò in relazione all’elusività del soggetto che rifiutava ostinatamente di farsi individuare. Fu l’editore a imporre il titolo “The God Particle”, ritenendolo più evocativo. I fatti gli hanno dato ragione.

Quello che non è stato cambiato, fortunatamente, è il sottotitolo, che trovo estremamente appropriato:

If the Universe is the Answer, What is the Question?

Ecco, appunto. A noi profani, spesso sembra che certe risposte non rispondano ad alcuna domanda.

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