Pierre Bourdieu, La fabbrica dei dibattiti pubblici

by gabriella

Nel gennaio di quest’anno sono stati pubblicati in Francia due corsi inediti sulla formazione dei dibattiti pubblici e del «discorso dominante», tenuti da Pierre Bourdieu al Collège de France. Di seguito la traduzione dell’articolo dedicato al testo da Le Monde Diplomatique.

La fabbrica dei dibattiti pubblici

Da un lato, una situazione economica e sociale eccezionale. Dall’altro, un dibattito pubblico mutilato, ridotto all’alternativa tra austerità di destra e rigore di sinitra. Come si delimita lo spazio dei discorsi ufficiali, per mezzo di quale prodigio l’opinione di una minoranza si trasforma in «opinione pubblica»? E’ ciò che spiega Pierre Bourdieu in questo corso sullo stato, tenuto al Collège de France nel 1990 e pubblicato questo mese (gennaio 2012, NDR.)

Un uomo pubblico è un ventriloquo che parla a nome dello stato: prende una postura ufficiale – bisognerebbe descrivere la messa in scena dell’ufficialità -, parla in nome e per conto del gruppo sociale a cui si rivolge, parla per e al posto di tutti, e parla come rappresentante dell’universale.

Si arriva qui alla nozione moderna di opinione pubblica. Che cos’è questa opinione pubblica invocata di creatori del diritto delle società moderne, delle società in cui esiste il diritto? E’ tacitamente l’opinione di tutti, della maggioranza o di quelli che contano, quelli che sono degni di aver un’opinione. Penso che la definizione patente di una società che si pretende democratica, vale a dire che l’opinione ufficiale è quella di tutti, nasconde una definizone latente, cioè che l’opinione pubblica è l’opinione di quelli che sono degni di avere un’opinione. C’è una sorta di definizione censitaria dell’opinione pubblica come opinione illuminata, come opinione degna di questo nome.

La logica delle commissioni ufficiali è quella di creare un gruppo, costituito in modo da dare tutti i segnali esteriori, socialmente riconosciuti e riconoscibili, della sua capacità di esprimere l’opinione degna di essere espressa, e nelle sue forme adeguate. Uno dei criteri taciti più importanti nella selezione dei membri della commissione, in particolare del suo presidente, è l’intuizione, da parte delle persone incaricate di comporre la commissione, che la persona considerata conosca le regole tacite dell’universo burocratico e le riconosca: in altre parole, qualcuno che sappia giocare il gioco della commissione in modo legittimo, nella maniera che va al di là delle regole del gioco, che legittima il gioco stesso. Non si è mai tanto addentro nel gioco quanto lo si è stando al di là del gioco stesso. In ogni gioco ci sono regole e fair play. A proposito del mondo intellettuale, avevo usato questa formula: l’eccellenza, nella maggior parte delle società, è l’arte di giocare con le regole del gioco, facendo di questo gioco giocato con le regole del gioco un omaggio supremo al gioco stesso. Il trasgressore controllato si oppone del tutto all’eretico.

Il gruppo dominante coopta i membri su indici minimi di comportamento che sono l’arte di rispettare la regola del gioco, finanche nelle trasgressioni, regolate, della regola stessa del gioco: la buona creanza, il conservatorismo. È la celebre frase di Chamfort: «Il vicario di Curia può sorridere di un commento contro la religione, il vescovo riderne del tutto, il cardinale aggiungervi il suo motto [irridente] (1)». Più si sale nella gerarchia delle eccellenze, più si può giocare con la regola del gioco, ma ex officio, partendo da una posizione tale che non vi siano dubbi. L’umorismo anticlericale del cardinale è supremamente clericale.

L’opinione pubblica è sempre una sorta di realtà doppia. È ciò che non si può non invocare quando si vuole legiferare su terreni non riconosciuti. Quando si dice «c’è un vuoto giuridico» (straordinaria espressione) a proposito dell’eutanasia o dei bambini-provetta, si convocano persone che lavoreranno con piena autorità. Dominique Memmi (2) descrive un comitato di etica [sulla procreazione artificiale], la sua composizione con persone disparate – psicologi, sociologi, donne, femministe, arcivescovi, rabbini, eruditi, ecc. – che hanno come scopo quello di trasformare una somma di idioletti [ndt.: Zingarelli: l’insieme degli usi di una lingua caratteristico di un dato individuo, in un determinato momento] (3) etici in un discorso universale che riempie un vuoto giuridico, vale a dire che dà una soluzione ufficiale a un problema difficile che scombussola la società – la legalizzazione delle madri in affitto, per esempio. Se si lavora in questi tipi di situazione si deve invocare un’opinione pubblica. In questo contesto la funzione attribuita ai sondaggi si comprende molto bene. Dire «i sondaggi sono dalla nostra parte» equivale a dire «Dio è con noi» in un altro contesto.

Ma i sondaggi sono fastidiosi, perché talora l’opinione illuminata è contro la pena di morte, mentre i sondaggi sono piuttosto per. Che fare? Si crea una commissione. La commissione costituisce un’opinione pubblica illuminata che istituirà l’opinione illuminata come opinione legittima nel nome dell’opinione pubblica – che d’altra parte dice il contrario o non ha opinioni (e questo è il caso in molti argomenti). Una delle proprietà dei sondaggi consiste nel porre alle persone problemi che esse non si pongono, nel fare infilare risposte a problemi che essi non hanno posto, quindi a imporre risposte. Non è una questione di sotterfugi nella costituzione dei campionari delle domane [dei sondaggi], è il fatto di imporre a tutti domande che si pongono all’opinione illuminata e, per questo, di produrre risposte di tutti su problemi che si pongono a qualcuno, quindi di dare risposte illuminate prodotte dalla domanda: si sono fatte esistere per le persone domande che per loro non esistevano, mentre ciò che costituiva per le persone una domanda è la domanda stessa.

Traduco man mano un testo di Alexander Mackinnon del 1828, tratto da un libro di Peel su Herbert Spencer (4). Mackinnon definisce l’opinione pubblica dando la definizione che sarebbe ufficiale se non fosse inconfessabile in una società democratica. Quando si parla d’opinione pubblica si fa sempre un doppio gioco fra la definizione confessabile (l’opinione di tutti) e l’opinione autorizzata ed efficiente, che è ottenuta come sottoinsieme ristretto dell’opinione pubblica definita democraticamente.

«Essa è quel parere su un soggetto qualsiasi che è mantenuto e prodotto dalle persone meglio informate, più intelligenti e più moralmente qualificate della comunità. Questa opinione è gradualmente diffusa e adottata da tutte le persone con un po’ di educazione e di sentimenti convenienti a uno Stato civilizzato». La verità dei dominanti diviene quella di tutti.

Mettere in scena l’autorità che autorizza a parlare

Negli anni 1880 si diceva apertamente all’Assemblea nazionale ciò che la sociologia ha dovuto riscoprire, vale a dire che il sistema scolastico doveva eliminare i figli degli strati sociali più sfavoriti. All’inizio si poneva il problema che in seguito è stato completamente rimosso, poiché il sistema scolastico si è messo a fare, senza che glielo si chiedesse, quello che ci si aspettava da esso. Quindi, nessuna necessità di parlarne. L’interesse del ritornare sulla genesi è molto importante, perché vi sono, all’inizio, dibattiti dove si dicono a chiare lettere cose che, in seguito, appaiono come rivelazioni provocatorie dei sociologi.

Il riproduttore della versione ufficiale sa produrre – nel senso etimologico del termine: producere significa «portare alla luce» -, facendola divenire protagonista, qualcosa che non esiste (nel senso di sensibile, di visibile) e in nome della quale egli parla. Deve produrre ciò in nome di quello che egli ha diritto di produrre. Non può non renderla protagonista, non darle una forma, non fare miracoli. Il miracolo più ordinario, per un creatore verbale, è il miracolo verbale, la riuscita retorica; deve produrre la messa in scena di ciò che autorizza il suo dire, ovvero dell’autorità in nome della quale egli è autorizzato a parlare.

Ritrovo qui la definizione della prosopopea che cercavo poco fa: «Figura retorica mediante la quale si fa parlare e agire una persona che si vuole evocare, un assente, un morto, un animale, una cosa personificata». E nel dizionario, sempre un formidabile strumento, si trova questa frase di Baudelaire che parla della poesia: «Saper usare sapientemente una lingua equivale a praticare una specie di stregoneria evocatoria». Gli esperti in materia, coloro che manipolano una lingua erudita, come i giuristi e i poeti, devono mettere in scena l’immaginario referente nel nome del quale parlano e che essi realizzano nella sua forma parlandone; devono fare esistere ciò che essi esprimono e questo nel nome di che essi esprimono. Devono nello stesso tempo produrre un discorso e produrre la credenza nell’universalità del loro discorso, con la produzione sensibile (nel senso di evocazione degli spiriti, dei fantasmi – lo Stato è un fantasma…) di quella cosa che garantirà ciò che essi fanno: «la nazione», «i lavoratori», «il popolo», «il segreto di Stato», «la sicurezza nazionale», «la domanda sociale», ecc.

Percy Schramm ha dimostrato come le cerimonie di incoronazione erano il transfert, nell’ordine della politica, delle cerimonie religiose (5). Se il cerimoniale religioso può trasferirsi tanto facilmente nelle cerimonie politiche, attraverso le cerimonie dell’incoronazione, è perché si tratta, nei due casi, di fare credere che vi è un fondamento del discorso, che non appare come auto-fondatore, legittimo, universale, se non perché vi è teatralizzazione – nel senso di evocazione magica, di stregoneria – del gruppo unito e consenziente al discorso che l’unisce. Da qui il cerimoniale giuridico. Lo storico inglese E. P. Thompson ha insistito sul ruolo della teatralizzazione giuridica nel XVIII secolo inglese – che non si può comprendere completamente se non si vede ch’essa non è semplice apparato che si aggiunge: essa è costitutiva dell’atto giuridico (6). Dire di diritto vestiti modestamente è azzardato: si rischia di perdere la pompa del discorso. Si parla sempre di riformare il linguaggio giuridico senza mai farlo, perché è l’ultimo vestito: i re nudi non sono più carismatici.

L’autorità, o la malafede collettiva

Una delle dimensioni molto importanti della teatralizzazione è la teatralizzazione dell’interesse per l’interesse generale; è la teatralizzazione del convincimento dell’interesse per l’universale, del disinteresse dell’uomo politico – teatralizzazione della credenza del prete, della convinzione dell’uomo politico, della sua fede in ciò che fa. Se la teatralizzazione del convincimento fa parte delle condizioni tacite per l’esercizio della professione di esperto – se un professore di filosofia deve avere l’aria di credere alla filosofia –, si tratta dell’essenziale omaggio dell’autorità-uomo all’autorità; è ciò che occorre accordare all’autorità per essere un’autorità: occorre accordare il disinteresse, la fede nell’autorità, per essere una vera autorità. Il disinteresse non è una virtù secondaria: è la virtù politica di tutti i mandatari. Le scappatelle da curati, gli scandali politici sono il crollo di questa specie di credenza politica nella quale tutti sono in malafede, essendo questa credenza una sorta di malafede collettiva, nel senso sartriano: un gioco nel quale tutti mentono a sé stessi e mentono ad altri, sapendo che si mentono. È questo, l’autorità…

(1) Nicolas de Chamfort, Maximes et pensées, Paris, 1795.
(2) Dominique Memmi, « Savants et maîtres à penser. La fabrication d’une morale de la procréation artificielle », Actes de la recherche en sciences sociales, n°76-77, Paris, 1989, p. 82-103.
(3) Du grec idios, «particulier» : discours particulier.
(4) John David Yeadon Peel, Herbert Spencer. The Evolution of a Sociologist, Heinemann, Londres, 1971. William Alexander Mackinnon (1789-1870) eut une longue carrière de membre du Parlement britannique.
(5) Percy Ernst Schramm, Der König von Frankreich. Das Wesen der Monarchie von 9. zum 16. Jahrhundert. Ein Kapital aus der Geschichte des abendländischen Staates (deux volumes), H. Böhlaus Nachfolger, Weimar, 1939.
(6) Edward Palmer Thompson, «Patrician society, plebeian culture», Journal of Social History, vol. 7, n°4, Berkeley (Californie), 1974, p. 382-405.

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