Pierre Dardot, Christian Laval, La razionalità neoliberale come forma di vita

by gabriella

operaie cinesi

E’ uscita per DeriveApprodi l’edizione italiana de La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, testo che si prefigge di tratteggiare una «genealogia del presente», un tentativo di spiegare come le società contemporanee siano diventate ciò che sono. Per Dardot e Laval il neoliberismo non è solo un’ideologia o una politica economica: è innanzitutto una forma di vita, una nuova razionalità pervasiva che struttura l’identità individuale e i rapporti sociali, imponendo a tutti di vivere in un universo di competizione generalizzata, di concorrenza mercantile, di governamentalità diffusa. Le parole e le cose ha pubblicato alcune pagine del capitolo finale.

 

La fine della democrazia liberale

Quali sono gli aspetti fondamentali che caratterizzano la ragione neoliberista? Alla fine di questo studio, possiamo identificarne quattro.

Primo, al contrario di quello che affermano gli economisti classici, il mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita, che come tale richiede l’intervento attivo dello Stato e la realizzazione di un sistema di diritto specifico. In questo senso, il discorso neoliberista non è direttamente connesso con un’ontologia dell’ordine commerciale. Perché lungi dal cercare la propria legittimazione in un certo «corso naturale delle cose», esso assume deliberatamente e apertamente il proprio carattere di «progetto costruttivista»[1].

Secondo, l’essenza dell’ordine di mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza, definita essa stessa come rapporto di disparità tra unità di produzione distinte, o «imprese». Costruire il mercato implica di conseguenza la generalizzazione della concorrenza come norma delle pratiche economiche[2]. A questo proposito vanno riconosciute le conseguenze della prima lezione degli ordoliberali: la missione dello Stato, ben oltre il ruolo tradizionale di «guardiano notturno», è realizzare l’«ordine-quadro» a partire dal principio «costituente» della concorrenza, e poi «vigilare sul quadro generale»[3] e verificare che tutti gli agenti economici lo rispettino.

Terzo, e ancora più innovativo sia rispetto al primo liberalismo che al liberalismo «riformatore» degli anni 1890-1920, lo Stato non è solo un guardiano che vigila sul quadro, ma è esso stesso sottoposto nella propria azione alla norma della concorrenza. Seguendo l’ideale di una «società di diritto privato»[4], non c’è ragione per cui lo Stato dovrebbe far eccezione alle regole di diritto che deve far applicare. Al contrario, qualsiasi forma di autoesenzione o autoderoga da parte sua non può che squalificarlo dal ruolo di guardiano inflessibile di tali regole. Dal primato assoluto del diritto privato risulta uno svuotamento progressivo di tutte le categorie del diritto pubblico, disattivato a livello operativo senza essere smantellato formalmente. Lo Stato oramai è tenuto a considerarsi come un’impresa, sia nel suo funzionamento interno che nelle sue relazioni con gli altri Stati. Così lo Stato, cui è affidata la costruzione del mercato, deve al tempo stesso costruirsi secondo le norme del mercato.

Quarto, l’esigenza di universalizzazione della norma della concorrenza supera di molto le frontiere dello Stato, e tocca direttamente gli individui nel loro rapporto con se stessi. La «governamentalità imprenditoriale», che deve prevalere al livello dell’azione statale, trova un naturale prolungamento nel governo di sé dell’«individuo impresa ». Ovvero, più correttamente, lo Stato imprenditoriale, come gli attori privati della governance, deve condurre indirettamente gli individui a gestire se stessi come imprenditori. La modalità governamentale propria del neoliberismo comprende dunque

«l’insieme delle tecniche di governo che oltrepassano l’azione statale in senso stretto, e organizzano il modo di gestire se stessi degli individui »[5].

L’impresa è promossa al rango di modello di soggettivazione: siamo tutti imprese da gestire e capitali da far fruttare. […]

 

Un dispositivo di natura strategica

Il fatto essenziale è che il neoliberismo è divenuto oggi la razionalità dominante. Della democrazia liberale non è rimasto che un involucro vuoto, condannato a sopravviversi sotto la forma degradata di una retorica talvolta «commemorativa», talvolta «marziale». In quanto razionalità, il neoliberismo ha preso corpo in un insieme di dispositivi tanto discorsivi quanto istituzionali, politici, giuridici, economici, che formano una rete complessa e volubile, soggetta a riprese e aggiustamenti dovuti all’insorgere di effetti indesiderati a volte in completa contraddizione con gli scopi iniziali. Si può parlare in questo senso di dispositivo globale, che, come tutti i dispositivi, ha natura essenzialmente «strategica», per riprendere uno dei termini più cari a Foucault[6]. Ciò vuol dire che il dispositivo è il risultato di un intervento concertato che mira, dati una situazione di rapporti di forza, a modificarla in una certa direzione in funzione di un «obiettivo strategico»[7]. L’obiettivo non dipende da uno stratagemma, dalle trame di un soggetto collettivo esperto di manipolazione, ma si impone agli attori stessi e produce così il suo proprio soggetto. Come abbiamo visto più sopra, è proprio quello che è successo negli anni Settanta-Ottanta con l’innesto di un progetto politico su una dinamica endogena di regolazione, combinazione di due logiche che arriva a imporre l’obiettivo strategico della concorrenza generalizzata. Dunque non esiste un progetto cosciente di passaggio dal modello fordista di regolazione a un altro modello, che avrebbe dovuto essere concepito intellettualmente prima di essere realizzato seguendo un piano in una fase successiva.

Attribuire un carattere strategico al dispositivo richiede di tener conto delle situazioni storiche che ne permettono lo sviluppo, e spiegano la serie di aggiustamenti a cui va soggetto nel tempo e la varietà di forme che assume nello spazio. Solo a questa condizione si può comprendere la «svolta» imposta ai dirigenti dei paesi capitalisti dominanti dall’ampiezza della crisi finanziaria. Come abbiamo visto, essa apre una crisi della governamentalità neoliberista.

Oggi, al di là delle prime «riparazioni» d’urgenza (nuove norme di contabilità, un minimo controllo dei paradisi fiscali, riforma delle agenzie di rating), ci troviamo probabilmente di fronte a un aggiustamento d’insieme del dispositivo Stato/mercato. Non c’è nulla di strano nel fatto che alcuni economisti prendano in considerazione un nuovo «regime di accumulazione del capitale» da sostituire al regime finanziario fondato sull’indebitamento perpetuo delle famiglie. Arrivare a dedurne che il nuovo regime di crescita, servendosi di meccanismi diversi dall’inflazione dei titoli immobiliari e finanziari, coinciderà spontaneamente con una revisione diretta della razionalità neoliberista, sarebbe d’altra parte assai imprudente. Ma preconizzare il prossimo avvento di un «capitalismo buono» dalle norme di funzionamento risanate, ancorato stabilmente all’«economia reale», rispettoso dell’ambiente, attento ai bisogni delle popolazioni e, perché no, preoccupato del bene comune dell’umanità, tutto questo, se non un racconto edificante, è almeno un’illusione altrettanto nociva che l’utopia del mercato autoregolato. La prospettiva realistica è che si entri in una nuova fase del neoliberismo. È anche possibile che questa nuova fase sia accompagnata, sul piano ideologico, da una patina di «ritorno alle origini».

Dopotutto, l’appello alla «rifondazione del capitalismo regolato» non ricorda forse i toni dei rifondatori degli anni Trenta, che opponevano il buon «codice stradale» delle regole di diritto alla cieca «legge naturale» dei vecchi laissez-fairisti? Assisteremo forse, grazie a uno di quegli spostamenti di equilibrio il cui segreto sta nell’ideologia, a un ritorno della variante specificamente ordoliberale? Non possiamo escluderlo, tanto più che questa è stata a lungo relegata in subordine dalla sua concorrente austroamericana, quando non completamente ignorata[8].

Il carattere strategico del dispositivo neoliberista sarebbe altrettanto misconosciuto se lo si mettesse in rapporto con il Gestell dell’Heidegger più tardo o con l’oikonomía della teologia cristiana del II secolo, come suggerisce indirettamente Agamben in Che cos’è un dispositivo?[9]. Parlare, come fa lui, di una «genealogia teologica» dei «dispositivi» foucaultiani, vuol dire trascurare che anche se i dispositivi non hanno effettivamente «alcun fondamento nell’essere» e sono di conseguenza votati a «produrre il loro soggetto», non per questo ripetono la «cesura che separa in Dio essere e azione, ontologia e prassi»[10]: a differenza del governo degli uomini da parte di Dio, che rinvia al problema teologico dell’Incarnazione, essi si costituiscono sempre a partire da condizioni storiche singolari e contingenti, e dunque hanno un carattere esclusivamente «strategico», e non «destinale» o «epocale».

A questo proposito è bene ricordare l’appunto di Foucault sulla specificità della nuova problematizzazione del governo che vede la luce tra il 1580 e il 1660: se l’azione del governo dà luogo a tematizzazione, è perché non trova «modelli ricavabili da Dio o dalla natura»[11]. In altri termini, non è il «retaggio teologico» del governo degli uomini e del mondo da parte di Dio che spiega come il governo degli uomini da parte degli uomini sia un problema, ma la crisi del modello del «governo pastorale» del mondo da parte di Dio che libera la riflessione sull’arte di governare gli uomini. Ciò che è vero per l’emergere del problema generale del governo è vero anche per la costituzione della forma specificamente neoliberista della governamentalità. Quest’ultima non è né la conseguenza necessaria del regime di accumulazione del capitale, né una delle metamorfosi della logica generale dell’Incarnazione, né un misterioso «invio dell’Essere», e tanto meno una semplice dottrina intellettuale o una forma effimera di «falsa coscienza».

Resta il fatto che la razionalità neoliberista può entrare in contatto con ideologie estranee alla pura logica commerciale, senza per questo cessare di essere la razionalità dominante. Come scrive giustamente la Brown,

«il neoliberismo può imporsi come governamentalità anche senza costituire l’ideologia dominante»[12].

Certo, ciò non si verifica mai senza tensioni o contraddizioni. L’esempio americano è particolarmente istruttivo a questo riguardo. Il neoconservatorismo si è imposto come ideologia di riferimento della nuova destra, anche se l’«alto tasso di moralismo» di tale ideologia sembrerebbe incompatibile con il carattere «amorale» della razionalità neoliberista[13]. Un’analisi superficiale potrebbe far pensare a un «doppio gioco». In realtà, tra neoliberismo e neoconservatorismo esiste una corrispondenza che non è per nulla fortuita: se la razionalità neoliberista eleva l’impresa al rango di modello della soggettivazione, è proprio perché la forma-impresa è la «forma cellulare» di moralizzazione dell’individuo lavoratore, proprio come la famiglia è la «forma cellulare di moralizzazione del bambino[14]. Di qui l’elogio incessante dell’individuo calcolatore e responsabile (presentato il più delle volte come un padre di famiglia lavoratore, economo e previdente) che accompagna lo smantellamento dei sistemi pensionistici, istruzione pubblica e sanità. Molto più che una semplice «zona di contatto», il collegamento di impresa e famiglia costituisce il punto di convergenza o sovrapposizione tra normatività neo479 liberista e moralismo neoconservatore. Ragion per cui è sempre pericoloso criticare il conservatorismo morale e culturale attaccandosi al presunto «liberismo» dei suoi partigiani in campo economico: cercando di smascherare l’«incoerenza» di questi ultimi, si rivelerebbe soprattutto la propria scarsa comprensione della differenza tra neoliberismo e laissez-faire, e per di più si rischierebbe di dover assumere una sorta di laissez-fairismo integrale e sistematico per salvare la coerenza della propria critica.

Ma la temporanea alleanza di neoconservatorismo e neoliberismo non vuol dire che un nuovo amalgama ideologico, una combinazione di ingredienti di provenienze diverse, non possa prendere il posto di una corrente di pensiero oggi piuttosto anemica. La sinistra di ispirazione blairista ha già mostrato in passato che la celebrazione lirica della modernità sotto tutti i suoi aspetti, compresa la liberazione dei costumi, poteva collegarsi benissimo con la razionalità neoliberista. Non è escluso che su un altro piano, quello della politica economica, alcuni elementi della dottrina keynesiana non vengano a rinsaldare la pratica del governo imprenditoriale: rilancio temporaneo di una politica di spesa pubblica, sospensione dei criteri di stabilità monetaria, misure per tenere a freno le speculazioni dei mercati, ecc., tutti elementi che non arrivano mai a toccare la ripartizione fondamentale dei profitti tra capitale e lavoro, e dunque a rinnovare un compromesso salariale comparabile a quello del dopo guerra. Questo concorso puramente circostanziale e «pragmatico» non è di per sé in grado di intaccare la logica normativa del neoliberismo, che potrebbe essere sconfitta soltanto da sollevazioni estremamente ampie.

 


[1] Cfr. W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, in W. Brown, Edgework. Critical essays on knowledge and politics, Princeton University Press, Princeton 2005, p. 40.

[2] Tale norma non esclude affatto strategie di «alleanza» messe in atto dalle imprese per potenziare i loro «vantaggi competitivi», anzi le rende necessarie. Da cui la fortuna nel vocabolario del management del termine «coopetizione», che evidenzia il ricorso a una combinazione morbida di cooperazione e concorrenza. Tuttavia le relazioni informali tramite le quali avviene lo «scambio di saperi» tra aziende concorrenti non si possono ricondurre, non più della «cooperazione volontaria» vantata da Spencer sotto la forma del contratto, a una vera cooperazione nel senso di una condivisione non transazionale.

[3] Sul senso di queste espressioni si veda il capitolo 7 per la prima, il capitolo 10 per la seconda.

[4] Su questa espressione di Böhm si veda il capitolo 7, sulla ripresa e approfondimento di Hayek il capitolo 9.

[5] W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, cit., p. 43.

[6] Sul concetto allargato di «dispositivo» in quanto rete di elementi eterogenei che dipendono tanto dal discorsivo quanto dal «sociale non discorsivo», vedi M. Foucault, Le jeu de Michel Foucault, in Dits et Écrits, cit. vol. II, pp. 299-301.

[7] Ibid.

[8] Quest’indifferenza, che può arrivare fino alla pura e semplice negazione (l’ordoliberalismo non è neoliberismo), è certamente uno dei motivi per cui il neoliberismo è così spesso ridotto all’ideologia del libero mercato. L’altro motivo è l’inversione del nesso di causalità tra globalizzazione della finanza e ragione neoliberista di cui abbiamo accennato più sopra (supra, capitolo 12). Una doppia identificazione ha avuto così fortuna duratura: il neoliberismo non è altro che il mercato autoregolato generato dalla finanza. Da cui la conclusione affrettata che la crisi finanziaria segni la fine del neoliberismo.

[9] G. Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma 2006, pp. 15-18. Il termine Gestell indica un ordinamento in cui l’uomo è costretto a svelare il reale «sul modo dell’ordinare», il che definisce per Heidegger l’essenza della tecnica moderna. Quanto all’oikonomía dei teologi, essa permette di concepire il governo degli uomini e del mondo come affidato da Dio a suo Figlio. È significativo che Agamben dia al concetto di «dispositivo » un’estensione difficilmente compatibile con la preoccupazione di Foucault per la singolarità storica (Ivi, pp. 19-20).

[10] Ivi, p. 17. L’idea è ripresa e approfondita ne Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer, II, 2, Neri Pozza, Vicenza 2007, cap. 3, pp. 69-80.

[11] M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005., p. 173.

[12] L’autrice aggiunge subito dopo che «la prima fa riferimento all’esercizio del potere, mentre la seconda a un ordine di credenze popolari che può corrispondere perfettamente alla prima o meno, e che può addirittura costituire un punto di resistenza alla governamentalità», W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, cit., p. 49

[13] Ivi, p. 143, nota 5 [«the high moral tone»]. Va osservato che l’autrice parla nella stessa nota del neoconservatorismo come di un’«ideologia»: «Neoliberalism and neoconservatism are quite different, not least because the former functions as a political rationality while the latter remains an ideology». Mentre in un altro recente saggio, intitolato American Nightmare: Neoliberalism, Neoconservatism, and De-Democratization («Political Theory», XXXIV, n. 6, 2006, pp. 690-714), la Brown parla del neoliberismo e del neoconservatorismo come di due «razionalità politiche». Per quanto ci riguarda, crediamo che nessuna simmetria tra razionalità neoliberista e ideologia neoconservatrice sia possibile.

 

[14] L’impresa costituisce lo «zoccolo etico-politico» del neoliberismo. In effetti già in Röpke, agli albori del pensiero neoliberista, la forma-impresa è concepita come forma di «moralizzazione-responsabilizzazione» dell’individuo (cfr. capitolo 7).

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