Pietro Piro, Tre film su lavoro, alienazione, solidarietà

by gabriella

Tratto da Academia. edu la bella analisi di Pietro Piro su Riff Raff, Bubble e Non è ancora domani. Questi film , come scrive sempre Piro nel finale, possono essere utili per tracciare una mappa del processo di disumanizzazione radicale che attraversa il nostro tempo informandolo e modellandolo alla luce di un’alienazione sempre più realizzata e completa.

In una società a rischio, caratterizzata da biografie di questo
tipo, la possibilità di scivolare e cadere sono sempre in
agguato, nonostante la sicurezza e il benessere apparenti. Di
qui derivano l’ansia e il timore che pervadono anche i ceti
sociali più elevati, tendenzialmente benestanti.
U. Beck, Costruire la propria vita

La povertà è una anomalia per i ricchi. È difficile capire
perché la gente che vuole mangiare non suona la campanella
per far portare la cena.
Walter Bagehot

Nel 1991 Kean Loach vinceva con il film Riff Raff (1991) il premio della critica internazionale al festival di Cannes. Un film duro, essenziale, impegnato. Il tema del film è arcinoto. Un ex galeotto dal fisico minuto e nervoso, approda in un cantiere edile dove i cosiddetti diritti dei lavoratori sono 2 sistematicamente calpestati.

Le condizioni di lavorative sono pessime e la qualità delle relazioni tra datore di lavoro e operai brutali. Tra gli operai – tutti personaggi marginali di un’Inghilterra devota al neoliberismo – si crea una solidarietà istintiva, animalesca, guerreggiante. Costretti a vivere al limite della sopportazione fisica e mentale non si fanno nessuno scrupolo a occupare abusivamente un appartamento e a rubare la corrente e il gas. Uno di loro incita i compagni con ragionamenti “politici” e cerca di farli riflettere sulla loro condizione di emarginati sociali, vittime di un sistema che esclude e marginalizza con precisione millimetrica. Cerca addirittura di costruire una cellula di opposizione sindacale ma il giorno dopo essersi fatto portatore delle rivendicazioni del suo gruppo – tutte dirette a migliorare la qualità del lavoro – sarà licenziato in tronco.

Il protagonista s’innamora di una ragazza sbandata, una cantante che cerca di tirare avanti con espedienti e che fa uso di eroina. La loro storia d’amore sembra mitigare le durezze della loro vita randagia ma la storia non regge di fronte alle tensioni di una quotidianità vissuta senza nessun idealismo.

Il protagonista sogna di gestire un commercio di mutande e calzini. Gli altri suoi compagni non hanno sogni particolari da realizzare e sopportano appena i discorsi sul sindacato e la politica della signora Margaret Thatcher.

Sopravvivere ancora un giorno sembra essere l’obiettivo più ambito. Forse solo un ragazzo di colore sogna di andare in Africa per conoscere le sue radici. Sarà proprio lui a volare giù da un’impalcatura. Perderà la vita e i sogni nella caduta mortale. L’evento funesto causerà una profonda rabbia negli operai che lavorano nel cantiere e il protagonista – insieme a un altro compagno – appiccheranno il fuoco al cantiere dove lavorano contemplando – come nel romanzo Il padiglione d’oro di Yukio Mishima – le fiamme che divorano ogni cosa e che sembrano purificare il mondo marcio e corrotto che riducono in cenere.

Film duro, lo abbiamo detto. Tuttavia ancora carico di umanità, di solidarietà operaia, di comunione degli oppressi. Si percepisce ancora un margine di movimento, uno spazio vuoto che è possibile da riempire attraverso il lavoro politico.

Gli operai non hanno niente da perdere “che le loro catene”. Sono in una fase della loro vita in cui raggiungere un minimo di stabilità nelle condizioni di vita materiale rappresenterebbe già un successo e una speranza (si veda la scena della tana dei topi scoperta nella cucina dell’appartamento occupato come simbolo di degrado e di confusione nella distinzione uomo-animale).

La condizione degli operai protagonisti del film di Steven Sodemberg Bubble (2005) è diversa. Martha possiede una casa dignitosa, un’auto, accudisce con amorevoli cure il padre anziano. Anche Kyle vive in una casa comoda ed è riuscito ad 3 accumulare un po’ di denaro che tiene nascosto in un cassetto nella sua camera. La fabbrica di bambole in cui lavorano è pulita e ben organizzata. Il padrone è un tipo bonario, quasi affettuoso, conciliante.

Nella loro vita materiale nulla lascia pensare alla privazione. Tuttavia, la loro condizione è terribile. Martha è una donna sola, obesa, senza interessi, senza amiche. Kyle lavora giorno e notte, sua madre è eternamente appollaiata nel divano di casa a fissare la tv, la sua stanza è quasi vuota e anche lui non sembra avere relazioni profonde. Martha e Kyle sono amici, si fanno dei favori, condividono la pausa pranzo insieme.

Il loro equilibrio si spezza con l’arrivo di Rose, una ragazza madre, malinconica e sfuggente. Rose è una ladra e un’approfittatrice (sia lei che un operaio in Riff Raff approfitteranno dell’occasione per fare un bagno caldo in una vasca idromassaggio in casa di estranei). Il suo ex compagno un artista sbandato, confuso e violento. Dopo poche settimane Kyle e Rose decidono di uscire insieme. Rose chiede a Martha di accudire la figlia durante la sua assenza. Tuttavia la scoperta della relazione tra i due la sconvolge, la turba fino alla radice. Quando Rose rientra dalla serata con Kyle – dopo averlo derubato del suo denaro accumulato – offende Martha che in un momento di completa estraniazione la strangola nell’ingresso di casa.

Dopo l’omicidio Martha perde completamente memoria dell’accaduto e il suo primo passo sarà rifugiarsi in un ristorante a divorare del pollo fritto. Solo in seguito alle indagini, alle prove schiaccianti contro di Lei e dopo essere stata rinchiusa in cella, prenderà coscienza dei suoi gesti, ma solo come allucinazioni, lampi di memoria di un delitto tanto irragionevole quanto banale. Se in Riff Raff la condizione dei lavoratori è ai limiti dell’animalità – tuttavia lasciando ancora spazio per un ragionamento politico e organizzativo – in Bubble l’alienazione dei personaggi è totale, realizzata, perfetta.

Il crimine matura in un ambiente in cui ogni forma di organizzazione politica e sindacale diventa impossibile. I personaggi sono vuoti, spogliati di ogni vitalità di ogni energia positiva e creativa. Sono gonfi di cibo spazzatura, di bevande zuccherate, di programmi televisivi scadenti, di alcol e di droghe legali e illegali. La povertà dell’ambiente in cui consumano le loro vite è soprattutto spirituale. Non c’è elettrodomestico che manchi e tuttavia, non c’è un solo accenno di vita, di speranza. Non è la marginalità che crea necessariamente l’assenza di speranza.

La marginalità diventa totale e realizzata quando la dimensione della cura, l’orizzonte del senso e del progetto sono demoliti sino alla radice. Lo dimostra il film di Tizza Covi e Ranier Frimmel del 2010, Non è ancora domani (la pivellina). Film iper-realista, scarno, sincero sino all’eccesso.

Patrizia, una donna cinquantenne dai capelli rossi fluorescenti (anche Martha si tinge i capelli di rosso) vive con il suo compagno in un camper alla periferia di Roma. Di mestiere sono circensi e si guadagnano la vita onestamente organizzando spettacoli per bambini. La loro vita è nomade, marginale, periferica.

Un pomeriggio Patrizia trova una bambina che la madre ha abbandonato sull’altalena nel parco di fronte al suo camper. Ispirata da un istinto materno profondo e sincero, comincia a prendersi cura della bambina, incurante delle complicazioni che un gesto del genere può portare – e che il compagno continuamente le ricorda. Il legame che si crea è incentrato sulla cura, sull’ascolto dei bisogni della bambina, sul rispetto per il suo piccolo mondo.

Quest’orizzonte di senso e di affetto è vissuto nel parcheggio di un circo con tutte le difficoltà e le miserie che una vita nomade comporta. Tuttavia, anche grazie all’aiuto di un dolcissimo e premuroso tredicenne di nome Tairo e del burbero ma affettuoso compagno Walter, la vita di questi marginali si riempie di gesti premurosi e amorevoli che fanno dimenticare allo spettatore la situazione in cui i fatti della narrazione filmica si sviluppano – una Roma marginale e sconosciuta all’occhio del turista – e mettono in luce la potenza dei sentimenti e la forza sovversiva della solidarietà tra gli uomini. Qui non facciamo del sentimentalismo di facciata.

È chiaro che in tutti i casi da noi analizzati, le condizioni materiali sono pessime e un miglioramento delle stesse è necessario e urgente. Tuttavia, quello che emerge prepotentemente da queste pellicole – tutte da vedere a nostro avviso – è che anche nelle condizioni materiali più disagiate e marginali, la forza della solidarietà, la speranza data dalla condivisione degli affetti, la prospettiva offerta dall’aiuto e dal prendersi cura, aprono orizzonti di senso che sono essenziali per innescare quei cambiamenti positivi nella direzione anche di un miglioramento materiale.

Quando l’alienazione è realizzata e perfetta, la dimensione della cura è annientata e i meccanismi di solidarietà sono ridotti al grado zero. È per questo motivo che spesso osserviamo il dispiegarsi di distruttività nichiliste e prive di senso – in realtà il senso è proprio nella realizzazione di una perfetta alienazione – anche dove apparentemente i bisogni materiali sono soddisfatti.

I lavoratori oggi hanno perso innanzitutto il senso della loro condizione collettiva, quella coscienza di classe che tanto spaventa i benpensanti, quella dimensione di appartenenza a una comunità di destino che innesca i meccanismi di solidarietà e di fiducia reciproca (come sono ancora evidenti in Riff Raff, mentre sono assenti in Bubble). I film che abbiamo preso in considerazioni sono stati girati in un intervallo che va dal 1995 al 2010. In questi anni sono cambiate le condizioni lavorative e le rappresentazioni del disagio e della marginalità.

Questi film possono essere utili per tracciare una mappa del processo di disumanizzazione radicale che attraversa il nostro tempo informandolo e modellandolo alla luce di un’alienazione sempre più realizzata e completa.

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