Quello ch’egli diceva ai suoi compagni, nessuno può dire con certezza, perché serbavano su questo grande segreto. Ma le sue opinioni più conosciute sono queste. Diceva che l’anima è immortale, poi ch’essa passa anche in esseri animati d’altra specie, poi che quello ch’è stato si ripete ad intervalli regolari e che nulla c’è di veramente nuovo, infine che bisogna considerare come appartenenti allo stesso genere tutti gli esseri animati. Fu infatti Pitagora il primo che portò queste opinioni in Grecia.
Porfirio, Vita di Pitagora
La filosofia di Pitagora di Samo e dei pitagorici, pur originaria delle colonie ioniche, come quella dei milesi, si sviluppò soprattutto nelle colonie italiche della Magna Grecia (Crotone) e di qui, nel V secolo, si diffuse in un secondo tempo nella Grecia continentale.
La filosofia pitagorica emerge dal contatto fra tradizioni differenti e, pur mantenendo una certa continuità con le tematiche della filosofia ionica, affronta problemi e introduce concetti del tutto originali.
Il sapere dei milesi era infatti un sapere naturalistico, legato alle scienze e alle tecniche, volto alla ricerca di spiegazioni razionali dei fenomeni della natura.
Con Pitagora e i suoi discepoli invece, la figura del filosofo si sovrappone e si confonde con quella del sacerdote e dell’oracolo, dell’educatore e dell’uomo politico.
Con il pitagorismo, siamo inoltre di fronte a una dottrina sviluppata e praticata non da un singolo pensatore, ma da una vera e propria comunità di ricerca, aspetto che rende difficile distinguere la dottrina originaria di Pitagora da quella dei suoi discepoli.
1. La scuola pitagorica
Le testimonianze in nostro possesso presentano la scuola pitagorica come una comunità religiosa e politica, dai forti interessi filosofici e scientifici. Essa era aperta a tutti, anche alle donne e agli stranieri. Imponeva tuttavia un duro periodo di noviziato, durante il quale, prima di essere ammessi ai segreti della setta, si era sottoposti a prove rigorose e a riti purificatori.
Occorreva in particolare rispettare la regola del silenzio e non si era ammessi alla presenza del maestro che parlava ai novizi nascosto dietro a una tenda.
Gli appartenenti alla setta dovevano attenersi a una sorta di catechismo che regolava la loro vita pubblica e privata: essi dovevano rispettare gli dèi, essere fedeli agli amici, compiere ogni sera un esame di coscienza sulla giornata trascorsa e ogni mattina un programma per il giorno che iniziava. Dovevano astenersi dal mangiare carne e fave, non spezzare il pane o attizzare il fuoco col metallo, non potevano indossare panni di lana o anelli, non dovevano raccogliere ciò che era caduto.
Pare che praticassero anche il celibato e la comunione dei beni. Gli insegnamenti venivano tramandati oralmente e su di essi era necessario mantenere il segreto, il che spiega il fatto che già presso gli antichi il pensiero pitagorico fosse conosciuto in maniera poco precisa.
La divulgazione dei segreti al di fuori della cerchia degli iniziati poteva costare anche la morte.
L’insegnamento di Pitagora non era soggetto a discussione, ma era trasmesso e appreso come una rivelazione divina, in forma dogmatica, come attesta la formula rituale in uso nella setta autòs èpha (ipse dixit), cioè «lo ha detto lui».
Già forse ai tempi di Pitagora, i discepoli erano divisi in acusmatici (dal verbo greco akoùein, ascoltare), o ascoltatori, ai quali era imposto il silenzio, e matematici (da manthànein, apprendere), che potevano fare domande, avere accesso ai segreti più importanti e soprattutto potevano sviluppare opinioni personali.
Questa distinzione potrebbe tuttavia avere avuto anche un significato differente e indicare la divisione che si produsse a un certo punto nella scuola tra uomini di fede, dediti ad approfondire l’indirizzo religioso e mistico della dottrina (gli acusmatici), e gli uomini di scienza (i matematici), che preferivano coltivare gli studi teorici, cercando così di dare una giustificazione razionale alla dottrina pitagorica.
2. La dottrina pitagorica
Aristotele dice che per i pitagorici archè era il numero. Una delle massime diffuse all’interno della scuola recitava:
che cosa c’è di più saggio? il numero. Che cosa c’è di più bello? l’armonia.
Ma, quale concezione di numero avevano i pitagorici? E quale significato filosofico aveva porre il numero come principio di tutte le cose?
I pitagorici non consideravano il numero un’entità astratta bensì concreta. I numeri venivano considerati grandezze spaziali, aventi estensione e forma, erano infatti rappresentati geometricamente, mediante configurazioni ordinate di punti. L’unità veniva designata con un punto, i numeri successivi attraverso figure geometriche costituite da insiemi di punti e indicate simbolicamente attraverso l’uso di sassolini.
I numeri sono dunque, per i pitagorici, cose reali. Per questo, la scuola pitagorica potè scorgere in essi, piuttosto che nell’acqua o nell’aria, gli elementi fondamentali di cui tutte le cose rimanenti sono costituite. Dai numeri quindi derivano tutte le cose, nel senso che tutte le cose e tutte le relazioni tra cose sono esprimibili attraverso determinazioni numeriche. Non conosciamo con precisione il modo attraverso cui i pitagorici giunsero ad attribuire al numero la funzione di archè.
E probabile che il loro interesse per i numeri si sia sviluppato a partire dallo studio della musica e dei rapporti armonici di cui essa è il risultato.
Constatando come questi ultimi fossero risultanti da determinati rapporti numerici, essi giunsero forse a supporre che i numeri potessero essere i principi di tutta la natura. Da qui conclusero che gli elementi e le proprietà dei numeri fossero gli elementi costitutivi e le proprietà fondamentali delle cose e che l’universo intero fosse, sul modello della musica, numero e armonia.
Non estranea a queste considerazioni fu probabilmente anche la rilevazione dell’importanza dei numeri nella determinazione dei fenomeni dell’universo: le stagioni e gli anni, i mesi e le ore, i cicli dello sviluppo biologico seguono infatti un tempo che è regolato da numeri.
Aristotele dice che i pitagorici ritenevano che tra i numeri e le cose vi fossero molteplici “somiglianze”. Altre testimonianze raccontano che i pitagorici pensavano che i numeri esprimessero la “sostanza” delle cose e che a ogni cosa corrispondesse un numero.
Sulla base delle notizie in nostro possesso, è difficile trarre da queste testimonianze un senso teorico univoco. Non bisogna d’altra parte dimenticare l’ispirazione religiosa e morale che era alla base del pitagorismo.
Quest’ultimo intendeva la scienza matematica in primo luogo come un mezzo di purificazione dell’anima, e conferiva quindi al numero un significato mistico che andava al di là di quello più direttamente scientifico.
Certo è che i pitagorici videro nella scienza del numero la via per la conoscenza della natura più profonda delle cose: il numero rende intelligibile (cioè comprensibile) la realtà delle cose, in quanto ne rivela la struttura quantitativa, geometrica. Affermare che le cose sono costituite da numeri e che il numero è la componente fondamentale di tutta la realtà significa dunque ritenere che la vera natura dell’universo è ordinabile e misurabile attraverso la matematica.
Se la natura delle cose si modella su quella dei numeri, allora tutte le opposizioni tra le cose vanno ricondotte a opposizioni tra numeri.
L’opposizione numerica fondamentale, per i pitagorici, è quella tra pari e dispari: pari è quel numero che può essere diviso in due parti uguali, entrambe pari o entrambe dispari; una volta diviso un numero dispari, invece, se una sua parte è pari, l’altra è obbligatoriamente dispari.
Si sottrae a questa distinzione solo l’Uno, che i pitagorici chiamavano parimpari perché se è sommato a un numero pari lo fa diventare dispari e se è sommato a un numero dispari lo fa diventare pari.
Questo non potrebbe accadere se l’Uno non avesse in sé sia la natura del pari, sia quella del dispari. I pitagorici collegavano la distinzione tra pari e dispari a un’altra coppia di contrari di grande importanza, quella di limite (pèras) e illimitato (àpeiron).
Tutti i numeri sono per i pitagorici costituiti da questi due elementi. Nei numeri pari domina l’illimitato: per questo essi sono imperfetti; in quelli dispari domina il limite: per questo essi sono perfetti.
Infatti, se immaginiamo i numeri come un insieme di punti geometricamente disposti, quando il numero dispari viene diviso in due parti, rimane sempre interposta tra esse una unità che pone un limite alla divisione(e non può essere a sua volta divisa perché non sarebbe un intero). Il numero dispari è dunque sempre delimitato, compiuto.
Al contrario, quando viene diviso in due parti il pari, rimane un campo vuoto, senza limite. La figura risultante in questo caso è aperta, non determinata e quindi difettosa, imperfetta.
Per studiare le proprietà dei numeri, i pitagorici usavano rappresentarli disponendoli “a squadra”, in modo da formare un angolo retto. E possibile generare tutti i numeri dispari partendo dall’unità e applicando ripetutamente la squadra.
Nel caso dei numeri pari invece, se i punti vengono disposti in parti uguali lungo i lati, viene a mancare il vertice della squadra, cioè, come si è già detto, l’elemento divisore.
I numeri pari erano considerati “numeri rettangolari”, quelli dispari “numeri quadrati”. Infatti, se disponiamo a squadra attorno al numero uno le unità costituenti i numeri dispari (.3. 5, 7 ecc.), otterremo sempre un quadrato. Viceversa, se inquadriamo le unità costituenti i numeri pari (2, 4, 6 ecc.), la figura che ne risulterà sarà sempre rettangolare.
A ogni numero corrisponde una figura spazialmente determinata: l’uno è i punto, il due la linea, il tre il triangolo (per i pitagorici «figura piani primissima»), il quattro il tetraedro («figura solida primissima»). Si può quindi comprendere come i pitagorici potessero pensare di aver trovato nei numeri e nelle loro proprietà analogie sostanziali con le cose esistenti in natura. Dice una massima di Filolao
Invero tutto quel che si conosce ha un numero: senza il numero non sarebbe possibile ne pensare, né conoscere alcunché (DKfr. B4).
Su questa base, i pitagorici furono spinti a trovare corrispondenze magico-religiose tra alcuni numeri e i fenomeni più diversi della vita: il numero uno esprime l’intelligenza, immobile e identica a se stessa; il due esprime la mobile opinione, che oscilla incerta verso direzioni opposte; il quattro o il nove (il quadrato del primo numero pari o di quello dispari) rappresentano la giustizia; il cinque il matrimonio, perché unione del primo pari e del primo dispari; il sette è il tempo critico (kairòs), in riferimento a certi periodi cruciali della vita umana (parto settimino, cambio dei denti a sette anni, pubertà a quattordici, maturità a ventuno).
Il dieci è infine il numero perfetto. Raffigurato come un “numero triangolare”, esso rappresenta la mistica decade (tetractys): formato dai primi quattro numeri, contiene egualmente il pari (quattro numeri pari: 2, 4, 6, 8) e il dispari (quattro numeri dispari: 3, 5, 7, 9). Visivamente la tetractys, su cui i pitagorici erano soliti giurare, era rappresentata con la figura di un triangolo equilatero, avente quattro punti per ogni lato.
Dieci erano anche i corpi celesti e dieci erano le opposizioni fondamentali: limitato-illimitato, dispari-pari, uno-molti, destra-sinistra, maschio-femmina, luce-tenebra, buono-cattivo, immobile-mobile, retta-curva, quadrato-rettangolo.
I pitagorici costruivano così una tavola dei contrari fondamentali, attraverso cui la realtà veniva divisa in due campi opposti. Dalla parte del dispari (numero limitato, perfetto) stavano tutte le determinazioni positive; da quella del pari (numero illimitato, imperfetto) tutte quelle negative.
Da queste opposizioni scaturisce l’armonia universale esistente tra tutte le cose, armonia che i pitagorici pongono come legge dell’universo e che trova la sua espressione più sublime nella musica, che i pitagorici vedevano come modello di tutte le armonie deH’universo. Tutto è numero e armonia, come testimoniano i rapporti musicali. Dice Filolao:
L’armonia è infatti unificazione di molti termini mescolati e consenso di cose dissenzienti (DK fr. 1310).
3. Il cosmo, la scoperta dell’incommensurabile, la metempsicosi
Tramandano le testimonianze che, per l’armonia e l’ordine che egli vedeva in tutte le cose, Pitagora fu il primo a chiamare l’universo “cosmo”, parola che in greco significa originariamente appunto “ordine”. Il numero esprime dunque ordine e razionalità, rendendo conoscibili tutte le cose e le loro relazioni. Con i pitagorici, l’universo non veniva così più visto come ricettacolo di forze oscure e inaccessibili, ma diventava comprensibile al pensiero e alla conoscenza.
La tradizione antica attribuisce ai pitagorici la scoperta dell‘incommensurabile: essi avrebbero scoperto l’esistenza di grandezze che non hanno una misura comune, per quanto piccola, e il cui rapporto (per esempio, quello tra il lato e la diagonale del quadrato) non poteva essere espresso sotto forma di una frazione con numeratore e denominatore interi.Ciò costituiva una “scandalosa eccezione” alla teoria del numero come archè delle cose, in grado di minare alle fondamenta la dottrina dei pitagorici.
Infatti, l’esistenza degli incommensurabili confutava la teoria pitagorica che il rapporto tra grandezze potesse sempre essere espresso mediante numeri interi.
Non a caso, a proposito di queste grandezze, i pitagorici parlarono non solo di “incommensurabile” (asymmetron), ma anche di “irrazionale” (àlogon): esse infatti sfuggivano al criterio pitagorico di razionalità. Le testimonianze antiche raccontano dello scandalo suscitato dalla divulgazione di questa scoperta, divulgazione opera forse di Ippaso di Metaponto, il quale, per questo, fu cacciato dalla comunità, o forse anche, secondo altre versioni, ucciso.
Tutte le fonti in nostro possesso concordano nell’attribuire al pitagorismo la dottrina della metempsicosi (dal greco metempsychosis,“passaggio delle anime”). Influenzata forse dall’orfismo, forse anche dalle religioni orientali, essa sosteneva la trasmigrazione o reincarnazione delle anime: l’anima, di origine divina, per potersi liberare dalla prigionia del corpo in cui è stata obbligata a incarnarsi, a causa di una colpa originaria, e in cui si trova come in una tomba, deve passare attraverso molte vite, deve cioè trasmigrare in corpi successivi, sia animali, sia umani, fino a giungere alla purificazione finale (catarsi), dopo la quale potrà tornare alla patria celeste da cui è venuta. Giustificato da questa teoria era forse il divieto in vigore tra i pitagorici di cibarsi della carne di quegli animali in cui poteva trovarsi incarnata un’anima.
L’analogia tra questa dottrina e quella sostenuta dall’orfismo ha fatto pensare che il pitagorismo non fosse altro che una variante dei culti orfici. In realtà, le due dottrine differiscono in modo sostanziale, relativamente all’idea stessa di purificazione che è alla base della metempsicosi.
Per l’orfismo, a quel che sappiamo, la purificazione era concepita come una progressiva apertura mistica alla rivelazione divina; a essa si perveniva attraverso pratiche misteriche e iniziatiche. Il pitagorismo giungeva invece alla purificazione dell’anima attraverso il sapere, attraverso cioè un cammino di conoscenza e di studio, in primo luogo della matematica, dell’astronomia, della musica.
La scienza del numero diventava, in questa visione, mezzo di purificazione e di scioglimento dai vincoli del corpo. Incarnazione suprema, lungo il cammino di purificazione percorso dall’anima, era infatti, per i pitagorici, la vita del sapiente. L’ispirazione religiosa e morale della setta si univa in questo modo strettamente allo studio delle scienze dell’epoca: sapiente è, per i seguaci di Pitagora, colui che conduce una esistenza terrena esente da impurità, vivendo in modo ascetico e coltivando il sapere e la conoscenza.
Nel Fedone, Platone attribuisce ai pitagorici, in particolare a Filolao, una dottrina dell’anima differente da quella della metempsicosi e influenzata non dall’orfismo, quanto piuttosto dalle teorie mediche della scuola di Alcmeone. Secondo questa dottrina, anima e corpo non sono opposti, come risultava dalla concezione della reincarnazione.
Al contrario, come l’armonia musicale risulta dall’accordo degli elementi che compongono lo strumento musicale, così l’anima umana è una sorta di armonia del corpo, e cioè l’armonia risultante dalla mescolanza e dalla temperanza degli elementi che compongono il corpo. Essa nasce quando questi sono opportunamente mescolati, muore quando si rompe l’equilibrio fisiologico del corpo e si infrange l’armonia precedentemente stabilita. L’anima così intesa non è dunque immortale: essa anzi muore prima ancora dei singoli elementi di cui era costituita, mostrandosi più facilmente corruttibile del corpo stesso.
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