Indice
1. Il mito di Edipo nell’Edipo re di Sofocle
2. L’interpretazione di Freud: Edipo e la formazione dell’Io e dell’identità di genere
3. La crisi edipica
4. Il mito di Narciso nelle Metamorfosi di Ovidio.
5. Il narcisismo
6. L’adolescenza e i tratti narcisistici di personalità
7. Il mito di Narciso e l’omosessualità
1. Il mito di Edipo nell’Edipo re di Sofocle
La tragedia inizia con Edipo, sovrano di Tebe, invocato dal suo popolo perché termini la terribile pestilenza che opprime la città. Consultato l’oracolo di Delfi, il responso dice che gli dèi sono irati perché la città è contaminata dall’uccisione impunita del precedente re Laio, una volta identificato e cacciato il colpevole, tornerà la serenità.
Viene interpellato Creonte, fratello della regina Giocasta, moglie di Edipo. Creonte racconta che Laio venne assassinato, quando la città viveva l’incubo della Sfinge, da alcuni briganti mentre stava andando a Delfi. Il caso venne a poco a poco dimenticato e non si scoprì mai il colpevole.
Viene anche chiamato al cospetto di Edipo l’indovino Tiresia, che inizialmente rifiuta di parlare per evitare altre sciagure. Costretto dal re, l’indovino lo accusa personalmente dell’omicidio di Laio, oltre che della sua vita scandalosa ed incestuosa. Edipo, infuriato, inizia così ad accusare Tiresia e Creonte. Creonte dice di consultare lui stesso l’oracolo a Delfi, ma Giocasta lo esorta a non farlo: allo stesso Laio venne profetizzata una morte per mano del figlio e ciò non si avverò. L’unico suo figlio, infatti, venne fatto morire appena nato, esposto sul monte Citerone. Laio venne invece ucciso da dei banditi, in un punto dove si incontrano tre strade. Edipo chiede a Giocasta di chiamare subito a Tebe il testimone dell’omicidio. Giocasta accetta ma domanda ad Edipo il motivo del suo turbamento.Edipo racconta così il suo passato come principe di Corinto, dove visse fino al giorno in cui l’oracolo di Delfi non gli profetizzò che avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. Edipo racconta poi che, sulla strada tra Delfi e Tebe, incontrò un uomo ad un crocevia dove si uniscono tre strade e che, dopo un acceso dibattito, lo uccise. Se quell’uomo fosse stato proprio Laio? Se fosse proprio Edipo l’essere impuro? Giocasta lo rassicura: i racconti parlano di briganti, mentre lui era da solo.
Uno straniero giunge nel cortile del palazzo, annunciando la morte di Polibo, sovrano di Corinto: ora il trono spetta ad Edipo. Il re, risollevatosi dalla notizia, chiede notizie anche della madre, dopo aver raccontato al messaggero la sua storia. Lo straniero lo rassicura: Polibo e Merope non erano i suoi genitori naturali, ma era stato adottato. Giocasta indietreggia con gli occhi sbarrati, lo straniero continua dicendo che Edipo gli era stato consegnato da un pastore che aveva ricevuto l’ordine di abbandonare il piccolo sulla montagna. Edipo chiede chi fosse il pastore e scopre che è il testimone che stanno aspettando. Giocasta gli intima di non continuare la sua affannosa ricerca nel passato, ma Edipo insiste. Arriva finalmente l’uomo tanto atteso e Edipo gli chiede di raccontare che fine fece il bambino che gli era stato affidato. Il pastore risponde di aver disobbedito agli ordini e di non avere abbandonato il figlio di Laio e di Giocasta.
Edipo, disperato, corre nel palazzo, mentre il silenzio gela tutti i presenti. All’improvviso, un grido: un’ancella, pallida di terrore, annuncia che Edipo si è trafitto gli occhi con due fibbie, mentre Giocasta si è strangolata con un laccio. Appare di nuovo Edipo, barcollante, quasi a cercare di divincolarsi nelle fitte tenebre in cui è sprofondato. Tutti fuggono, solo il capo degli anziani si avvicina e lo conforta: Edipo si commuove.
Arriva poi Creonte, straziato dal suicidio della sorella Giocasta, che chiede alle guardie di riportare il re nel palazzo, quasi a voler oscurare al mondo il dramma che lì si è consumato. Edipo chiede a Creonte il permesso di lasciare la città, lo prega di rendere a Giocasta le giuste onoranze funebri e lo supplica di vegliare sulle figlie Antigone e Ismene. Edipo viene ricondotto nel palazzo. Creonte, ora re di Tebe, lo segue. Gli anziani, immobili, guardano chiudersi le porte del palazzo.
2. L’interpretazione di Freud: Edipo e la formazione dell’io e dell’identità di genere
Freud ha usato il mito di Edipo per spiegare la natura conflittuale dello sviluppo della personalità e dell’identità di genere.
Secondo Freud, la conquista della maturità psicologica e dell’identità sessuale richiedono un duro lavoro che caratterizza l’età infantile, durante la quale lo sviluppo della personalità procede parallelamente allo spostamento dell’area del piacere sessuale da un’area erogena ad un’altra.
Ciò avverrebbe perché l’energia psichica, che Freud chiama libido, tende a scaricarsi su zone erogene il cui valore altamente simbolico rappresenta proprio il grado di equilibrio psichico o maturità dell’Io conquistato dal bambino ad ogni tappa del proprio sviluppo.
La psicanalisi spiega dunque che durante l’infanzia, l’area del piacere sessuale si sposta secondo una sequenza determinata biologicamente, dando luogo a cinque fasi di sviluppo: la fase orale, da zero a 2 anni, in cui la libido è concentrata nel cavo orale e il bambino prova piacere nella suzione o in altre stimolazioni orali che sono, al contempo, la fonte primaria della sua esperienza e conoscenza del mondo; la fase anale, dai 2 ai 3 anni, nella quale il piacere si sposta sulle attività sfinteriche. E’ questo il momento in cui il bambino, compresa la sua separatezza dalla madre, inizia con lei un gioco di potere incentrato sul controllo e l’autonomia dal quale il bambino apprende il potere del trattenere e non dare, e l’esperienza piacevole del controllare gli altri e se stesso; la fase fallica nella quale, intorno ai 3 anni, il piacere sessuale si sposta sui genitali e il bambino compie la fondamentale esperienza edipica.
Dopo un periodo di latenza che va dai 6 anni circa all’adolescenza, durante il quale la libido perde di intensità, consentendo all’io una tregua per consolidare ciò che è stato acquisito, si apre la possibilità di fare esperienze di genitalità, cioè nel linguaggio freudiano, di maturità psico-sessuale. Il culmine dello sviluppo psicosessuale è, infatti, la fase genitale alla quale si perviene dopo l’adolescenza, la cui caratteristica più importante è la comparsa dell’interesse per una relazione reciprocamente gratificante con gli altri.
L’aspetto qui rilevante è che la fase genitale non viene conseguita automaticamente, ma rappresenta il compimento di uno sviluppo armonico della personalità che può essere mancato. In questo modo, il padre della psicanalisi sottolinea (kantianamente) che lo stato di immaturità cognitiva ed emotiva può non essere superato e l’autonomia (etico-morale) può non essere raggiunta dall’individuo.
3. La crisi edipica
Il momento più critico dello sviluppo infantile si situa dunque proprio nella fase fallica e nel tentativo infantile del suo oltrepassamento per approdare alla fase genitale. E’ durante la fase fallica, infatti, che il bambino vive un passaggio edipico che, se irrisolto, si fissa in un vero e proprio complesso di Edipo (nella bambina in un complesso di Elettra che ha però caratteristiche diverse).
La fase edipica è caratterizzata dall’attrazione sessuale del bambino per la madre e dal timore della riprovazione del padre che il maschio vive come ansia di castrazione.
Ne L’interpretazione dei sogni, Freud scrive:
Il caso più semplice si struttura, per il bambino di sesso maschile, nel modo seguente: egli sviluppa assai precocemente un investimento oggettuale per la madre, investimento che prende origine dal seno materno e prefigura il modello di una scelta oggettuale del tipo “per appoggio”; del padre il maschietto si impossessa mediante identificazione. Le due relazioni per un certo periodo procedono parallelamente, fino a quando, per il rafforzarsi dei desideri sessuali riferiti alla madre e per la constatazione che il padre costituisce un impedimento alla loro realizzazione, si genera il complesso edipico. L’identificazione col padre assume ora una coloritura ostile, si orienta verso il desiderio di toglierlo di mezzo per sostituirsi a lui presso la madre. Da questo momento in poi il comportamento verso il padre è ambivalente; sembra quasi che l’ambivalenza, già contenuta nell’identificazione fin da principio, si faccia manifesta. L’impostazione ambivalente verso il padre e l’aspirazione oggettuale esclusivamente affettuosa riferita alla madre costituiscono per il maschietto il contenuto del complesso edipico nella sua forma semplice e positiva.
Secondo Freud, il principio di realtà (l’Io) in via di formazione permette al bambino di rendersi conto che il desiderio sessuale che egli prova per la propria madre è irrealizzabile a causa del padre che vanta i propri diritti su di lei.
Il bambino si darebbe allora una serie di spiegazioni magico-simboliche (tipiche dell’attività psichica primitiva) della propria impossibilità di competere col padre, osservando che il proprio potere-fallo è molto più piccolo del suo.
Nella visione freudiana, il bambino associa il pene al potere grazie all’osservazione della propria supremazia domestica su sorelline e cuginette che, come sperimenta rapidamente, sono considerate molto meno importanti di lui perchè non hanno il pene. Il bambino dunque teme che insistendo nella propria opposizione al padre per la conquista della madre, egli sarà punito dal genitore con la privazione del pene, cioè con la riduzione allo stato di impotenza femminile.
E’ proprio per tenere sotto controllo queste pericolose pulsioni che il bambino finisce per vivere mediatamente, cioè attraverso il padre, la gratificazione sessuale ricercata con la madre, identificandosi con il genitore del proprio sesso di cui interiorizza gran parte dei valori, dando forma al superIo.
Come si vede, la posta in gioco della fase edipica è la costruzione complessiva della personalità e non solo dell’identità di genere (che ne è una componente).
L’ingresso del padre nel gioco edipico con la madre rappresenta infatti la prima fondamentale frustrazione dell’egotismo infantile e l’esperienza fondamentale della necessità di confrontarsi con gli altri, in un mondo non più guardato dalla prospettiva autistica dell’onnipotenza infantile, ma da quello triangolare, doloroso e frustrante, della realtà sociale.
4. Il mito di Narciso nelle Metamorfosi di Ovidio
Nel racconto narrato da Ovidio, probabilmente basato sulla versione di Partenio, ma modificata al fine di aumentarne il pathos, Eco, una ninfa dei monti, si innamorò di un giovane vanitoso di nome Narciso, figlio di Cefiso, una divinità fluviale, e della ninfa Liriope. Cefiso aveva circondato Liriope con i suoi corsi d’acqua e, così intrappolata, aveva sedotto la ninfa che diede alla luce un bambino di eccezionale bellezza. Preoccupata per il futuro del bimbo, Liriope consultò il veggente Tiresia il quale predisse che Narciso avrebbe raggiunto la vecchiaia, «se non avesse mai conosciuto se stesso».
Quando Narciso raggiunse il sedicesimo anno di età, era un giovane di tale bellezza che ogni abitante della città, uomo o donna, giovane o vecchio, si innamorava di lui, ma Narciso, orgogliosamente, li respingeva tutti. Un giorno, mentre era a caccia di cervi, la ninfa Eco furtivamente seguì il bel giovane tra i boschi desiderosa di rivolgergli la parola, ma incapace di parlare per prima perché costretta a ripetere sempre le ultime parole di ciò che le veniva detto; era stata infatti punita da Giunone perché l’aveva distratta con dei lunghi racconti mentre le altre ninfe, amanti di Giove, si nascondevano.
Narciso, quando sentì dei passi e gridò: “Chi è là?”, Eco rispose: “Chi è là?” e così continuò, finché Eco non si mostrò e corse ad abbracciare il bel giovane. Narciso, però, allontanò immediatamente in malo modo la ninfa dicendole di lasciarlo solo. Eco, con il cuore infranto, trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, gemendo per il suo amore non corrisposto, finché di lei rimase solo la voce.
Nemesi, ascoltando questi lamenti, decise di punire il crudele Narciso. Il ragazzo, mentre era nel bosco, si imbatté in una pozza profonda e si accovacciò per bere. Non appena vide per la prima volta nella sua vita la sua immagine riflessa, si innamorò perdutamente del bel ragazzo che stava fissando, senza rendersi conto che era lui stesso.
Solo dopo un po’ si accorse che l’immagine riflessa apparteneva a lui e, comprendendo che non avrebbe mai potuto ottenere quell’amore, si lasciò morire struggendosi inutilmente; si compiva così la profezia di Tiresia. Quando le Naiadi e le Driadi vollero prendere il suo corpo per collocarlo sul rogo funebre, al suo posto trovarono un fiore a cui fu dato il nome narciso. Si narra che Narciso, quando attraversò lo Stige, il fiume dei morti, per entrare nell’Oltretomba, si affacciò sulle acque limacciose del fiume, sperando di poter ammirare ancora una volta il suo riflesso.
5. Il narcisismo
Il disturbo narcisistico di personalità è un disturbo della personalità il cui sintomo principale è un deficit nella capacità di provare empatia verso altri individui.
Questa patologia è caratterizzata da una particolare percezione di sé del soggetto, definita “Sé grandioso”, che comporta un sentimento esagerato della propria importanza, l’idealizzazione del proprio sé e difficoltà di coinvolgimento affettivo.
La persona manifesta una forma di egoismo profondo di cui non è di solito consapevole (in quanto psicotico), e le cui conseguenze sono tali da produrre nel soggetto sofferenza, disagio sociale o significative difficoltà relazionali e affettive.
La nozione di disturbo narcisistico di personalità è stata formulata da Heinz Kohut nel 1971 e introdotta in quell’anno nel manuale Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM III).
E’ stata poi modificata nel DSM IV. Il quadro clinico che descrive è una particolare forma di disturbo della personalità caratterizzata da una struttura psicologica, che Kohut chiama “Sé grandioso” – un “Falso Io” o “Falso Sé” – che conserva alcune delle caratteristiche primitive dell’Io infantile, cioè un’immagine interiore eccessivamente idealizzata ed “onnipotente” che l’individuo percepisce come il vero “Io”.
I soggetti affetti sono spesso caratterizzati dal bisogno di essere ammirati in misura superiore al normale o che appare inappropriato ai contesti. Alcune persone possono ritenere in qualche modo di essere “speciali” o superiori, esprimere in modi diversi aspettative di soddisfacimento di una idea di sé irrealistica e tendenzialmente onnipotente.
La diffusione di questa patologia non sembra ubiquitaria, bensì fortemente influenzata – perlomeno nel modo di manifestarsi – dai contesti culturali. Secondo alcuni osservatori, essa è diffusa (con queste caratteristiche) quasi esclusivamente nei paesi capitalistici occidentali e anche la sua distribuzione nei due sessi vede il disturbo prevalere nei maschi. Parlando in generale degli psicopatici Umberto Galimberti ha osservato:
Lo psicopatico è colui che è capace di compiere gesti anche terribili senza che il suo sentimento ne registri il minimo sussulto emotivo. Il cuore non è in sintonia con il pensiero e il pensiero con il gesto. Ma non se ne accorge nessuno di questa sindrome? Tendenzialmente no. Una buona educazione, soprattutto quella borghese, che insegna a tenere a bada gli eccessi emotivi, confeziona su ciascuno di noi un abito di buone maniere, di stereotipi linguistici, di controllo dei sentimenti che, come una corazza, ci rendono impenetrabili e scarsamente leggibili a chi ci sta intorno.Alla base c’è una mancata crescita emotiva, che ha reso il sentimento atrofico, inespressivo, non reattivo, per cui gli eventi della vita ci passano accanto senza una nostra vera partecipazione, senza un’adeguata risposta di sentimento a quanto intorno accade.
6. L’adolescenza e i tratti narcisistici di personalità
Alcuni tratti narcisistici appaiono nel corso dello sviluppo dell’individuo ed entro un certo grado devono essere considerati normali. Sono infatti molto diffusi tra gli adolescenti senza che, necessariamente, diano luogo ad una personalità patologica in età adulta.
Ciononostante, suggerisce Galimberti, bisogna guardarsi dal far reagire il naturale egocentrismo adolescenziale con una diseducazione culturale propria dell’epoca i cui viviamo e che può dar luogo a tragedie proprio quando i protagonisti sono soggetti ancora in formazione:
Gli psicopatici sono un caso limite dell’umano, ma la psicopatia come tonalità dell’anima a bassa emotività e a scarso sentimento è qualcosa che si va diffondendo tra i giovani d’oggi che, nella loro crescita, acquisiscono valori d’intelligenza, prestazione, efficienza, arrivismo, quando non addirittura cinismo, nel silenzio del cuore… [è necessario] evitare che l’intelligenza si sviluppi disancorata dal sentimento e diventi intelligenza lucida, fredda, cinica, e potenzialmente distruttiva.
7. Il mito di Narciso e l’omosessualità
La psicologia ha fatto usi diversi del mito di Narciso. Prima che l’omosessualità venisse cancellata dal DSM, il Manuale statistico dei disturbi psichiatrici, nel 1973, e riconosciuta come una forma minoritaria, non patologica, di orientamento sessuale, il mito di Narciso descriveva il ripiegamento erotico del soggetto incapace di amare nient’altro che (il simile a) sé.
In termini generali – direi quindi più culturali che psicologici e indipendentemente dal riconoscimento del disturbo di personalità che, come si è visto implica distacco dalla realtà e grave incapacità di valutare oggettivamente una situazione – Narciso – come la fissazione alla fase fallica – resta il simbolo dell’incapacità di crescere, accedendo a una dimensione superiore a quella strettamente individualistica che impedisce di identificarsi empaticamente con gli altri e di misurarsi con la diversità, uscendo dall’ambito angusto di ciò che è noto e familiare.
Per questo Narciso identifica le paure e le chiusure adolescenziali e appare culturalmente affine al tipo umano più comune in società individualistiche e (dunque) deresponsabilizzate nei confronti dell’ambiente relazionale circostante.
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