Traggo da The Pensive Image, la traduzione italiana dell’appassionante seminario che Quentin Meillassoux (Sorbonne) ha tenuto alla Middlesex University l’8 maggio 2008 su Après la finitude. Essai sur la nécessité de la contingence, il saggio che lo ha imposto all’attenzione del dibattito filosofico mondiale. Di seguito, la playlist di una sua conferenza sulla critica della necessità delle leggi di natura e l’intervista di Rick Dolphijn e Iris Van der Tuin pubblicata dal Rasoio di Occam.
La réalité qui le préoccupe n’implique pas tant les choses telles qu’elles sont, que la possibilité qu’elles puissent toujours être autrement.
Alain Badiou, Prefazione a Après la finitesse
Sono materialista perché non credo nella realtà.
Michel Foucault
Nella sua critica del correlazionismo, Quentin Meillassoux individua due principi costituenti l’argomento centrale della filosofia di Kant: il primo è il principio di correlazione, il quale pretenderebbe che il soggetto pensante possa conoscere solo il correlato di pensiero ed essere, in altre parole, ciò che sta al di fuori della correlazione è inconoscibile. Il secondo è chiamato da Meillasoux il principio di fattualità, che sostiene che le cose potrebbero essere diverse da come sono. Tale principio è sostenuto da Kant nella sua difesa della cosa-in-sé quale immaginabile sebbene inconoscibile: possiamo immaginare la realtà in modo radicalmente differente anche se non conosciamo tale realtà.
Secondo Meillassoux, la difesa di entrambi i principi dà come risultato un correlazionismo debole (come quello di Kant e Husserl), mentre il rifiuto della cosa-in-sé porta ad un correlazionismo forte come quello di Hegel, Wittgenstein e Heidegger. Per i correlazionisti forti non ha senso supporre che ci sia qualcosa fuori dal correlato di pensiero ed essere, così il principio di fattualità viene eliminato in favore di un principio di correlazione rafforzato.
Meillasoux segue la tattica opposta nel rigettare il principio di correlazione a vantaggio del principio di fattualità sostenuto nel suo post-kantiano ritorno a Hume. Argomentando in favore di tale principio, Meillassoux è portato a rigettare non solo le leggi di natura, ma anche tutte quelle della logica fatta eccezione per il Principio di Non-Contraddizione – in quanto l’eliminazione del principio di non contraddizione metterebbe a repentaglio il principio di fattualità che rivendica che le cose possono sempre essere diverse da come sono. Rigettando il Principio di Ragion Sufficiente non può esserci giustificazione per la necessità delle leggi fisiche, cioè che mentre l’universo può essere ordinato in un determinato modo, non c’è ragione per cui non debba esserlo diversamente.
Meillasoux respinge l’apriori kantiano in favore di un apriori humiano rivendicando che la lezione da imparare da Hume sul tema della causalità è che
“la stessa causa potrebbe realmente dar luogo ‘cento differenti eventi’ (e persino molti di più)”.
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Vorrei dire innanzi tutto che sono molto felice di avere l’opportunità di discutere il mio lavoro qui alla Middlesex University e vorrei porgere i miei ringraziamenti agli organizzatori di di questo seminario, specialmente a Peter Hallward e Ray Brassier [a lui si deve la trascrizione in inglese dell’intervento. NDR]
Andrò ad enunciare e spiegare le tesi fondamentali di After Finitude, specie a riguardo le due fondamentali nozioni di questo libro: quella di correlazionismo e quella del principio di fattualità.
1. Correlazionismo
Chiamo correlazionismo il contemporaneo opposto di qualsiasi realismo.
Il correlazionismo assume molte forme contemporanee, ma particolarmente quelle della filosofia trascendentale, le varianti della fenomenologia, e il post-modernismo. Ma, sebbene queste correnti siano estremamente varie in se stesse, tutte condividono, secondo me, il più o meno esplicito giudizio che non ci sono oggetti, eventi, leggi, esseri che non siano sempre-già correlati con un punto di vista, con un accesso soggettivo. Chiunque sostenesse il contrario – ad esempio, che sia possibile ottenere qualcosa come una realtà in sé, esistente in maniera assolutamente indipendente dal proprio punto di vista, dalle proprie categorie, dalla propria epoca, dalla propria cultura, dal proprio linguaggio, ecc. – costui sarebbe un ingenuo esemplare, o se preferite: un realista, un metafisico, un filosofo dogmatico d’altri tempi.
Col termine correlazionismo, volevo esporre l’argomento di base di queste filosofie dell’accesso – per usare un’espressione di Graham Harman – ma anche – e insisto su questo punto – l’eccezionale forza della loro argomentazione antirealista che è chiaramente così disperatamente implacabile. Il correlazionismo riposa su un argomento tanto semplice quanto potente che può essere formulato come segue: non può esserci nessun X senza una datità di X, e nessuna teoria di X senza una presupposizione di X. Se siete in grado di parlare di qualcosa, dirà il correlazionista, state parlando di qualcosa che è vi dato e che presupponete. L’argomento di questa tesi è tanto semplice da formulare quanto difficile da rigettare: si può chiamarlo l’argomento circolare, e consiste nel rimarcare il fatto che ogni obiezione contro il correlazionismo è un’obiezione prodotta dal vostro pensare e pertanto dipendente da voi. Quando parlate contro la correlazione, dimenticate che siete voi a parlare contro la correlazione – e pertanto dal punto di vista della vostra mente, cultura, epoca, ecc. Circolo significa che c’è un circolo vizioso in ogni realismo ingenuo, una contraddizione performativa attraverso la quale rifiutate ciò che dite o pensate attraverso lo stesso atto di dirlo o pensarlo.
Penso ci siano due versioni principali del correlazionismo: quella trascendentale, che rivendica l’esistenza di alcune forme universali della conoscenza soggettiva delle cose, e quella post-moderna, che nega l’esistenza di qualsiasi siffatta universalità soggettiva. Ma in entrambi i casi c’è una negazione della conoscenza assoluta della cosa in sé indipendentemente dal nostro soggettivo accesso ad essa.
Conseguentemente, per i correlazionisti, la proposizione “X è“ significa “X è il correlato del pensiero” – pensiero in senso cartesiano, cioè: X è il correlato di un’affezione, o di una percezione, o di una concezione o di qualunque altro atto soggettivo o intersoggettivo. Essere è essere un correlato, il termine di una correlazione. E quando sostenete di pensare qualsiasi specifico X, dovete presupporre questo X, che non potete separare da questo specifico atto di presupporre.
Questo è perché è impossibile concepire un X assoluto, cioè un X che possa essere separato da un soggetto. Noi non possiamo conoscere cos’è la realtà in se stessa poiché non possiamo distinguere tra quelle proprietà che dovrebbero appartenere all’oggetto e quelle proprietà che appartengono all’accesso soggettivo all’oggetto. Naturalmente i correlazionismi concreti sono molto più complessi del mio modello: ma io sostengo che questo modello sia il giudizio minimo di ogni anti-realismo. E, in quanto questo è proprio il giudizio che intendo contestare, non ho bisogno di entrare nei dettagli di specifiche filosofie storiche.
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Naturalmente ci vorrebbe troppo tempo per esaminare in questa sede le precise relazioni tra correlazionismo, considerato come il modello contemporaneo di anti-realismo, e la complessa storia dei critici del dogmatismo nella filosofia moderna. Ma possiamo dire che l’argomento circolare significa non solo che la cosa in sé sia inconoscibile, come per Kant, ma che l’in sé è radicalmente impensabile. Kant, com’è noto, disse che era impossibile conoscere la cosa in sé, ma concesse alla ragione teoretica – lasciando la ragion pratica da parte in questo caso – la capacità di accedere a quattro determinazioni della cosa in sé. Secondo Kant io so:
1) che la cosa in sé esiste fuori dalla coscienza (non ci sono solo fenomeni);
2) che essa influenza la nostra sensibilità e produce in noi le rappresentazioni (questa è la ragione per cui la nostra sensibilità è passiva, finita e non spontanea);
3) che la cosa in sé non è contraddittoria – il principio di non-contraddizione è un principio assoluto, non semplicemente relativo alla nostra coscienza; e in ultimo,
4) che la cosa in sé non può essere spazio-temporale perché spazio e tempo possono solo essere forme della sensibilità soggettiva e non proprietà dell’in sé. In altre parole, non sappiamo cosa sia la cosa in sé, sappiamo con assoluta certezza cosa non è.
Così, come si può vedere, Kant è di fatto piuttosto “loquace” riguardo la cosa in sé, e come sapete, la speculazione post-kantiana distrusse queste asserzioni negando perfino la possibilità di un in sé fuori dal sé. Ma il correlazionismo contemporaneo non è un idealismo speculativo: esso non dice dogmaticamente che non c’è un in sé, ma solo che non possiamo dire niente di esso, neppure che esso esista – e questo è esattamente il perché, secondo me, il termine “in-sé” è sparito da quei discorsi. Il pensiero ha solo a che fare con un mondo che è correlato con esso e con l’inconcepibile fatto dell’essere di tale correlazione. Che ci sia una correlazione pensiero-mondo è l’enigma supremo che fornisce per contrasto una possibilità completamente differente. Il Tractatus Logico-Philosophicus è un buon esempio di tale discorso laddove esso definisce “mistico” il semplice fatto che c’è un mondo coerente; un mondo logico, non-contraddittorio.
2. Il problema dell’arché-fossile [arche-fossil]
Il mio obiettivo è molto semplice: tentare di confutare ogni forma di correlazionismo – il che sarebbe a dire che io tento di dimostrare che il pensare, in certe speciali condizioni, può accedere alla realtà così com’è in se stessa, indipendentemente da ogni atto della soggettività. In altre parole, io sostengo che un assoluto – cioè una realtà assolutamente separata dal soggetto – può essere pensato dal soggetto. Questa è visibilmente una contraddizione, e, a prima vista, ciò che un realista ingenuo sosterrebbe. La mia sfida è dimostrare che essa può essere una proposizione non-contraddittoria, e non ingenua, ma speculativa.
Pertanto devo spiegare due cose a proposito di questa asserzione: primo, perché ritengo imperativo che si rompa con il correlazionismo? Al fine di spiegare questo punto, partirò con un problema specifico che io chiamo il problema dell’ancestralità.
Secondo, devo spiegare come faccio a confutare l’apparentemente implacabile del circolo correlazionale. A questo proposito, esporrò un principio speculativo che io chiamo principio di fattualità (concetto con cui Meillassoux rende non solo la fattualità, ma la sua necessità, NDR).
Cominciamo con il primo punto. Il correlazionismo, secondo me, incorre in un serio problema che io chiamo il problema dell’arché-fossile, o problema dell’ancestralità.
Un fossile è un materiale che mantiene tracce di vita preistorica: ma quello che io chiamo un arché-fossile è un materiale che indica tracce di un fenomeno ancestrale anteriore persino alla comparsa della vita. Io chiamo ancestrale una realtà – una cosa o evento – che esisteva prima della vita sulla terra. La scienza è oggi in grado di produrre asserti (diciamo: “asserti ancestrali”), che descrivono realtà ancestrali, grazie all’isotopo radioattivo il cui tasso di decadimento fornisce l’indicazione dell’età di un campione di roccia, o grazie alla luce stellare che fornisce l’età di stelle distanti. La scienza può in questo modo produrre asserti come quello che l’universo è grosso modo vecchio 14 miliardi di anni, o che la terra si è formata approssimativamente 4,5 miliardi di anni fa.
Pertanto la mia domanda è molto diretta. Mi chiedo semplicemente: quali sono le condizioni della possibilità degli asserti ancestrali? Questa è una domanda formulata in uno stile trascendentale – essa ha un fascino, per così dire, trascendentale – ma il mio punto è che è impossibile rispondere a questa domanda per mezzo della filosofia critica.
La mia domanda, in verità, è più precisa: mi chiedo se il correlazionismo – in ogni sua versione – sia in grado di dare senso o significato agli asserti ancestrali. E quello che cerco di mostrare che è impossibile per il correlazionismo, nonostante tutte le varie forme di argomentazione sia capace di inventare – è impossibile, sostengo, per il correlazionismo dare senso alla capacità delle scienze naturali di produrre asserti ancestrali grazie all’arché-fossile (isotopo radioattivo, luce stellare).
Come si può dar senso all’idea di un tempo che preceda il soggetto, o la coscienza o il Dasein; un tempo entro il quale la soggettività o l’essere-nel-mondo stesso siano emersi – e forse scompariranno insieme con l’umanità e la vita terrestre – se si fa del tempo e dello spazio e del mondo visibile, lo stretto correlato di questa soggettività?
Se il tempo è un correlato del soggetto, allora niente può veramente precedere il soggetto – in quanto individuo o più radicalmente in quanto specie umana – entro il tempo. Poiché ciò che esisteva prima del soggetto esisteva prima del soggetto per il soggetto. Gli appelli all’intersoggettività non contano qui in quanto il tempo in questione non è il tempo che precede questo o quell’individuo – questo tempo è ancora sociale, fatto della soggettiva temporalità degli antenati – bensì un tempo che precede ogni vita, e pertanto ogni comunità umana. Io sostengo che vi sono un’infinità di modi in cui le differenti versioni del correlazionismo provano a negare o mascherare questa aporia, e provo a decostruire alcune di esse in Après la finitesse. Ma questa negazione proviene da una certezza: quella che non può esserci una soluzione realista o materialista al problema dell’ancestralità. Io sostengo però che tale soluzione esiste: per questo sono in grado di vedere ed affermare ciò che è ovvio: il correlazionismo non può dare senso agli asserti ancestrali, e conseguentemente ad una scienza che è in grado di produrre tali asserti. La scienza è ridotta ad una spiegazione del mondo dato-ad-un-soggetto. Naturalmente so anche che la filosofia trascendentale o la fenomenologia sono sempre state considerate essenzialmente distinte dal crudo idealismo di marca berkeliana. Ma quello che provo a dimostrare in Après la finitesse è che ogni correlazionismo collassa entro questo crudo idealismo quando prova a pensare il significato dell’ancestralità.
Perché ho scelto il termine “correlazionismo” piuttosto che un ben noto termine come “idealismo” per designare il mio avversario intellettuale? Perché volevo interdire la solita replica usata dalla filosofia trascendentale e dalla fenomenologia contro l’accusa di idealismo – intendo dire risposte tipo: “La critica kantiana non è un idealismo soggettivo in quanto nella Critica della Ragion Pura è presente una confutazione dell’idealismo”; oppure “La fenomenologia non è un idealismo dogmatico, in quanto l’intenzionalità è orientata verso una realtà esterna, e non è un solipsismo, in quanto la datità dell’oggetto implica, secondo Husserl, il riferimento ad una comunità intersoggettiva”. E lo stesso potrebbe dirsi del Dasein come originario “essere-nel-mondo”. Sebbene queste posizioni rivendichino di non essere idealismi soggettivi, non possono negare, pena l’auto-confutazione, che l’esteriorità che elaborano è essenzialmente relativa: relativa ad una coscienza, ad un linguaggio, ad un Dasein, ecc.
Conseguentemente, tutto quello che il correlazionismo può dire dell’ancestralità è che essa è una rappresentazione di un tale passato – ma che questo passato potrebbe non essere veramente esistito in se stesso con tutti i suoi oggetti ed eventi. Il correlazionismo sosterrà generalmente – poiché è sottile – che gli asserti ancestrali sono veri in qualche modo – cioè come asserti universali, aventi relazione con esperienze presenti di specifici materiali (luce stellare, isotopo). Ma se è coerente, il correlazionismo dovrà negare che i referenti di questi asserti siano esistiti realmente come descritti prima di ogni specie umana o vivente. Per il correlazionista, l’ancestralità non può essere una realtà che precede il soggetto – essa può essere solo una realtà che è detta e pensata dal soggetto come precedente al soggetto. È un passato che per l’umanità non ha più l’efficacia di quella di un passato dell’umanità che sia strettamente correlato con gli esseri umani veri.
Ma questa asserzione è naturalmente una catastrofe, poiché distrugge il senso degli asserti scientifici, i quali, insisto, significano solo quello che significano: un asserto ancestrale e scientifico non dice che qualcosa è esistito prima della soggettività per la soggettività, ma che qualcosa è esistito e basta: l’asserto ancestrale o ha un significato realistico o non ha alcun significato. Poiché dire che qualcosa è esistito prima di voi solo per voi – solo a condizione che voi esistiate per essere consci del passato – è come dire che niente è esistito prima di voi. È come dire il contrario di ciò che l’ancestralità significa: che Il vostro passato è il vostro passato solo se è stato un presente senza di voi, non solo un presente pensato al presente come passato – un passato del genere non è un passato, qualsiasi cosa possiate dire, ma un’illusione prodotta da una sorta di retroiezione – un passato prodotto ora come un passato assolutamente precedente il presente.
Come sapete, Kant, seguendo Diderot, considerava uno scandalo per la filosofia che la prova dell’esistenza delle cose fuori dal soggetto non fosse stata stabilita. Non potrei essere accusato di resuscitare questo problema che generalmente è considerato sorpassato? Heidegger in Sein und Zeit notoriamente inverte la proposizione kantiana, dicendo che lo scandalo era piuttosto che questo genere di prova era ancora tentata e attesa. Questa asserzione è spiegata dalla stessa struttura della soggettività fenomenologica: nell’intenzionalità husserliana, o nell’essere-nel-mondo del Dasein heideggeriano, o ancora nella coscienza sartriana nell’”esplosione” della coscienza verso la “cosa in sé”, l’esterno, lontano dall’essere l’elemento superfluamente aggiunto ad un intrinseco soggetto solipsistico, è una struttura originaria del soggetto, che rende obsoleto e piuttosto ridicolo ogni tentativo di dar prova della realtà esterna.
Eppure, io dico, la questione persiste, persino dopo la fenomenologia, e persino oltre la fenomenologia. Perché, sebbene i fenomenologi possano dire che la coscienza è originariamente correlata e aperta al mondo, cosa possono dire circa la realtà pre-umana e pre-animale – circa l’ancestralità, questo dominio della non-correlazione, in quanto mancante di ogni soggetto? Come fa la scienza a parlare con tanta precisione di questo dominio, se questo dominio non è altro che una illusione retrospettiva? Come sarebbe la natura senza di noi? Cosa rimarrebbe in essa se noi non ci fossimo più? Questa domanda è tanto lontana dall’essere obsoleta per la fenomenologia da diventare la grande questione per Heidegger stesso negli anni Trenta. Egli scrisse ad Elisabeth Blochmann l’11 Ottobre 1931:
Spesso mi chiedo – questa è stata per lungo tempo una domanda fondamentale per me – cosa sarebbe la natura senza l’Uomo – non deve risuonare attraverso di lui (hindurschwingen) allo scopo di conseguire la sua propria potenza?
In questa lettera scopriamo allo stesso tempo che Heidegger stesso è incapace di rinunciare a questa domanda e che il suo stesso tentativo di rispondere è allo stesso tempo enigmatico e probabilmente ispirato alla metafisica schellinghiana come suggerito dal termine “potenza”. Qui vediamo come Heidegger fu ben lontano dal dequalificare o risolvere la questione dell’ancestralità: cos’è la natura senza l’Uomo, e come possiamo pensare il tempo in cui la natura ha prodotto il soggetto, il Dasein?
[Riferimenti: Diderot, Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient, Garnier, 1964, p. 115. Kant, CRP, préface à la seconde édition, B XXXIX; Etre et temps, §43]
Ma dovete capire l’esatto significato di questo problema dell’ancestralità nella mia strategia.
Ciò che è veramente molto importante per me è che io non ho la presunzione di confutare il correlazionismo per mezzo dell’ancestralità: il problema dell’ancestralità non è – non è per niente – inteso come una confutazione del correlazionismo. Infatti nel primo capitolo di Après la finitesse io tento semplicemente di spiegare un’aporia, più che una confutazione, cioè, da un lato sembra impossibile pensare attraverso il correlazionismo alla capacità delle scienze naturali di produrre asserti ancestrali; ma dall’altro sembra impossibile confutare la posizione correlazionista, poiché sembra impossibile sostenere che saremmo in grado di conoscere ciò che che c’è quando non ci siamo. Come potremmo immaginare l’esistenza di un colore senza un occhio che lo vede; l’esistenza di un suono senza un orecchio che lo sente? Come possiamo pensare il significato del tempo o dello spazio senza un soggetto che sia cosciente di un passato, un presente e un futuro, o di essere cosciente della differenza tra destra e sinistra? E innanzitutto, come potremmo sapere questo dato che non siamo in grado di vedere come appare il mondo quando non c’è nessuno che lo percepisce?
Da una parte sembra impossibile confutare l’argomento del circolo correlazionale – dimenticare che quando pensiamo qualcosa, siamo noi che pensiamo qualcosa – ma da un’altra parte sembra impossibile avere una comprensione correlazionista delle scienze naturali.
Attraverso questo visibilmente semplice e davvero persino ingenuo problema, di fatto io pongo la questione dell’ingenuità filosofica: cioè la questione di cosa esattamente significa “essere ingenuo” in filosofia. Ingenuità in filosofia assume oggigiorno una forma privilegiata: la credenza nella possibile corrispondenza tra pensiero ed essere – ma un essere che è presupposto precisamente come indipendente dal pensiero. L’intero sforzo della filosofia moderna fu quello di fare a meno del concetto di verità, o, secondo me in maniera molto più interessante, di ridefinire fondamentalmente questo concetto, rimpiazzando la verità in quanto adeguamento con la verità considerata come legalità (Kant), intersoggettività (Husserl), o interpretazione (ermeneutica). Ma ciò che provo a mostrare in Après la finitesse è che nell’ancestralità c’è una strana resistenza ad ogni modello di anti-adeguamento. Eppure questa resistenza non riguarda direttamente la verità delle teorie scientifiche, ma piuttosto il loro significato.
Lasciatemi spiegare questo punto. Possiamo certamente non credere che una teoria scientifica – intendo nel campo delle scienze naturali – possa essere qualcosa come “vera”. Non a causa di qualche scetticismo radicale verso la scienza, quanto piuttosto in virtù dello stesso processo della scienza. Nel corso della sua storia questo processo ha dimostrato una straordinaria inventiva nell’incessante distruzione delle sue stesse teorie, incluse le più fondamentali, sostituendole con paradigmi la cui novità fu così estrema che nessuno poté anticipare l’inizio della sua configurazione. Lo stesso naturalmente vale per le correnti teorie, e specialmente quelle cosmologiche: non possiamo semplicemente dire quali saranno le future teorie della cosmologia, le future teorie dell’ancestralità – il passato, come si dice, è imprevedibile. Ma sebbene non possiamo asserire positivamente se una teoria dell’ancestralità sia vera, dobbiamo affermare, insisto, che potrebbe essere vera: non possiamo sapere se queste teorie manterranno la loro verità nel futuro, ma è una possibilità che non possiamo escludere, poiché è una condizione del significato di tali teorie. La verità – verità considerata come una corrispondenza con la realtà – è la condizione del significato delle teorie quali ipotesi che si possono preferire ad altre. Se si prova a fare a meno della nozione di verità e corrispondenza nel tentativo di comprendere queste teorie, si finisce rapidamente per prendere in considerazione delle assurdità. Per esempio, se dite che la verità ancestrale dev’essere definita dall’intersoggettività piuttosto che dalla reintegrazione di una realtà pre-umana, starete dicendo: non è mai esistito niente come un Universo precedente l’umanità con tali e tali determinazioni che potremmo conoscere – questa è solo un’assurdità – ma solo un accordo tra scienziati che legittimano la teoria in questione. Si afferma nella stessa proposizione che gli scienziati hanno solide ragioni per accettare una teoria, e che questa teoria descrive un oggetto – il campo della vita pre-terrestre – che non può esistere come descritto perché è un’assurdità.
Abbiamo qui una sorta di lacaniano ritorno del Reale: l’impossibile per il filosofo contemporaneo è il realismo, o la corrispondenza. Ma il realismo sembra essere la condizione del senso della teorie ancestrali (di fatto, io credo che sia la condizione di ogni teoria scientifica, ma non posso dimostrarlo in questa sede). Questa è il perché l’idea di ingenuità è cambiata: non possiamo più essere sicuri che la destituzione della corrispondenza non sia essa stessa una nozione ingenua. Il dogmatismo dell’anti-adeguamento è diventato problematico come il vecchio dogmatismo pre-kantiano.
Ma la reale difficoltà è che è impossibile anche, secondo me, tornare indietro al vecchio concetto metafisico di adeguamento, o al realismo ingenuo che la filosofia analitica sembra talvolta perpetuare. Abbiamo bisogno di ridefinire la corrispondenza, di trovare un concetto di adeguamento molto differente, se siamo seri nel respingere il correlazionismo in tutto il suo potere. Poiché, come tutti vedremo, quello che scopriremo fuori dalla correlazione è molto differente dal concetto ingenuo delle cose, delle proprietà e delle relazioni. È una realtà differente dalla realtà data. Questa è la ragion per cui, alla fine, preferisco descrivere la mia filosofia come materialismo speculativo, piuttosto che realismo: poiché ricordo una frase di Foucault che una volta disse: “Sono materialista perché non credo nella realtà”.
Così ciò che abbiamo qui, secondo me, è una potente aporia: l’aporia della correlazione contro l’arché-fossile. Questa è l’aporia che tento di risolvere in Après la finitesse e la mia strategia per risolverla consiste effettivamente nel confutare il correlazionismo ed elaborare un nuovo tipo di materialismo scientifico fondato su un principio che chiamo principio di fattualità.
Vediamo adesso quindi cosa significa questo principio e perché è in grado di fare quello che il correlazionismo dice essere impossibile: conoscere cosa c’è quando noi non ci siamo.
3. Il principio di fattualità
Il problema principale che provo ad affrontare in Après la Finitesse consiste precisamente nello sviluppare un materialismo in grado di confutare decisamente il circolo correlazionale nella sua forma più semplice, che è anche la forma più difficile da respingere – cioè: l’argomentazione dimostra che non possiamo parlare contro la correlazione se non dall’interno della correlazione.
Questa è la mia strategia: la debolezza del correlazionismo consiste nella dualità di ciò che oppone. A rigor di termini: il correlazionismo così come io lo definisco non è un anti-realismo ma un anti-assolutismo. Il correlazionismo è la maniera moderna di rigettare tutta la conoscenza possibile di un assoluto: è la rivendicazione che siamo bloccati nelle nostre rappresentazioni – consapevoli, linguistiche, storiche – senza nessun accesso certo ad una realtà indipendente dal nostro specifico punto di vista.
Ma ci sono due principali forme di assoluto: quella realista, che è quella di una realtà non-pensata indipendente dal nostro accesso ad essa, e quella idealista, che consiste, al contrario, nella assolutizzazione della correlazione stessa. Pertanto il correlazionismo deve anche rifiutare l’idealismo speculativo – o ogni altra forma di vitalismo o panpsichismo – se intende rigettare tutte le modalità dell’assoluto. Ma per questa seconda confutazione l’argomento del circolo è inutile, poiché idealismo e vitalismo consistono esattamente nella rivendicazione che è il circolo soggettivo stesso ad essere l’assoluto.
Esaminiamo brevemente queste argomentazioni idealiste e vitaliste. Chiamo metafisica soggettivista ogni assolutizzazione di un determinato accesso umano al mondo – e chiamo “soggettivista” (per brevità) il sostenitore di qualsiasi forma di soggettivismo metafisico. La correlazione tra pensiero ed essere prende molte forme differenti: il soggettivista pretende che qualcuna di queste relazioni – o di fatto tutte – sono determinazioni non solo degli esseri umani o dei viventi, ma dell’Essere stesso. Il soggettivista proietta una correlazione nelle cose stesse, e questa può prendere la forma di percezione, intellezione, volizione, ecc. – e si trasforma in assoluto. Naturalmente questo processo è molto più elaborato di quello che posso mostrare qui, specialmente con Hegel. Ma il principio di base del soggettivismo è sempre uguale: esso consiste nel confutare realismo e correlazionismo attraverso il seguente ragionamento: poiché non possiamo concepire un essere che non sia costituito dalla nostra relazione col mondo – l’interezza di di queste relazioni, o una parte eminente di quest’interezza, rappresenta la vera essenza di ogni realtà. Secondo il soggettivista, è assurdo supporre, come fa il correlazionista, che può esserci un in-sé differente da ogni umana correlazione con il mondo. Il soggettivista perciò gira l’argomento del circolo contro il correlazionista stesso: in quanto non possiamo pensare nessuna realtà indipendente dalla correlazione umana, questo significa, secondo lui, che la supposizione di tale realtà esistente fuori dal circolo è un’assurdità. Pertanto l’assoluto è il circolo stesso – o almeno una parte di esso: l’assoluto è il pensare, o il percepire, o il volere, ecc.: idea, logos, Geist (Spirito), Wille zur Macht (Volontà di Potenza), l’intuizione bergsoniana della durata, ecc.
Questa seconda forma di assolutismo rivela perché è necessario per il correlazionismo produrre un secondo argomento in grado di rispondere all’idealista assoluto. Questa necessità di un secondo argomento è estremamente importante in quanto, come vedremo, diventerà il punto debole nel circolo-fortezza. Questo secondo argomento è quello che in Après la finitesse descrivo come l’argomento dalla fatticità, e adesso devo spiegare cosa significa più precisamente.
Chiamo “fatticità” l’assenza di ragione per ogni realtà; in altre parole, l’impossibilità di fornire una base ultima per l’esistenza di ogni essere. Possiamo solo ottenere necessità condizionali, mai necessità assolute. Se cause definite e leggi fisiche vengono poste, allora possiamo pretendere che un determinato effetto debba conseguire. Ma non potremo mai trovare un fondamento per queste leggi e cause, eccetto alla fine altre cause e leggi infondate: non c’è causa ultima, né legge ultima, che sia per dire, una causa o legge che includa il fondamento per la sua propria esistenza. Ma questa fatticità è propria anche del pensiero. Il Cogito cartesiano mostra chiaramente questo punto: ciò che è necessario nel Cogito è una necessità condizionale: se io penso, allora devo essere. Ma non è un’assoluta necessità: non è necessario che io debba pensare. Dall’interno della correlazione soggettiva io accedo alla mia propria fatticità, e così alla fatticità del mondo correlato col mio accesso soggettivo ad esso. Lo faccio raggiungendo la mancanza di una ragione finale, di una causa sui, in grado di fondare la mia esistenza.
La fatticità così definita è, secondo me, la risposta fondamentale ad ogni assolutizzazione della correlazione: poiché se la correlazione è fattuale, non possiamo più sostenere, come fa il soggettivista, che è una componente necessaria di ogni realtà. Naturalmente un idealista potrebbe obiettare che ogni tentativo di concepire il non-essere di una correlazione soggettiva risulti in una contraddizione performativa – in quanto la stessa concezione di esso prova che noi esistiamo effettivamente come soggetti. Ma il correlazionista replica che non può esserci nessuna prova dogmatica che la correlazione debba esistere invece che no – ne segue che quest’assenza di necessità è sufficiente a rigettare la pretesa idealista della sua assoluta necessità. E il fatto che io non possa immaginare la non-esistenza della soggettività – in quanto immaginare è esistere come soggetto – non prova che essa sia impossibile: non posso immaginare come possa essere l’essere morti, poiché immaginarlo significa che sono ancora vivo, ma, sfortunatamente questo fatto non prova che la morte sia impossibile. I limiti della mia immaginazione non sono l’indice della mia immortalità. Ma dobbiamo essere cauti: il correlazionista non pretende che la soggettività debba perire: forse è eterna come un assoluto – cioè come Geist o Wille – se non come un individuo. Il correlazionista semplicemente rivendica che non possiamo decidere per un modo o per l’altro di quest’ipotesi: non possiamo pervenire a nessuna verità eterna – né realistica né idealistica. Non sappiamo niente dell’esterno del circolo, neppure se ce n’è uno – contro il realismo – così come non sappiamo se il circolo stesso sia necessario o contingente – contro il soggettivismo.
Il correlazionismo è pertanto composto di due argomenti: l’argomento dal circolo della correlazione, contro il realismo ingenuo (usiamo questo termine per definire ogni realismo che non sia in grado di confutare il circolo); e l’argomento dalla fatticità, contro l’idealismo speculativo. Il soggettivista pretendeva erroneamente di poter sconfiggere il correlazionista assolutizzando la correlazione; io credo che possiamo sconfiggerla solo assolutizzando la fatticità. Vediamo il perché.
Il correlazionista deve sostenere, contro il soggettivista, che noi possiamo concepire la contingenza della correlazione – sarebbe a dire la sua possibile sparizione – come ad esempio con l’estinzione dell’umanità.
Ma facendo questo – e questo è il punto essenziale – il correlazionista deve ammettere che noi possiamo pensare positivamente ad una possibilità che sia essenzialmente indipendente dalla correlazione, in quanto questa è precisamente la condizione della non-correlazione. Per comprendere questo punto, dobbiamo ancora una volta considerare l’analogia con la morte: pensare a me stesso come mortale, devo ammettere, non dipende dal mio pensare alla morte. Altrimenti io sarei in grado di scomparire solo ad una condizione: che io rimanga vivo per pensare alla mia sparizione, e trasformi quest’evento in un correlato del mio accesso ad esso. In altre parole, potrei stare morendo a tempo indeterminato, ma non potrei mai trapassare. Se la fatticità della correlazione può essere concepita, se essa è una nozione che dobbiamo effettivamente concepire – e, come si vede, questo dev‘essere il caso per il correlazionista se vuole confutare il soggettivista – allora è questa la nozione che possiamo pensare come un assoluto: l’assoluta assenza di ragione per ogni realtà – o, in altre parole, la capacità effettiva per ogni determinata entità – sia che si tratti di un evento, una cosa, o una legge – di apparire e sparire senza nessuna ragione per il suo essere o non-essere. La mancanza di ragione diventa l’attributo di un tempo assoluto in grado di distruggere o creare qualsiasi determinata entità senza nessuna ragione per la sua creazione o distruzione.
Attraverso questa tesi io provo a rivelare le condizioni per la pensabilità della fondamentale opposizione nel correlazionismo, anche quando questa opposizione non sia mai stata né affermata ne’ negata: tale è l’opposizione tra l’in-sé e il per-noi. La tesi del correlazionista – esplicita o meno – è che non sappiamo cosa sarebbe la realtà senza di me. Secondo lui, se io rimuovessi me stesso dal mondo, non potrei conoscerne il residuo. Ma questo ragionamento implica che noi godiamo di un positivo accesso ad una assoluta possibilità: la possibilità che l’in-sé possa essere differente dal per-noi. E questa assoluta possibilità è fondata a sua volta sull’assoluta fatticità della correlazione. È in quanto io posso concepire il non-essere della correlazione che posso concepire la possibilità di un essere in-sé essenzialmente differente dal mondo correlato con la soggettività umana. È in quanto posso concepire l’assoluta fatticità di tutte le cose, che posso essere scettico verso ogni altro tipo di assoluto.
Conseguentemente, secondo me, è possibile confutare la confutazione correlazionista del realismo, che è basata sopra l’accusa di contraddizione performativa: poiché io scopro una contraddizione performativa nel ragionamento del correlazionista: le sue fondamentali nozioni – per-noi e in-sé – sono fondate su un’implicita assolutizzazione: l’assolutizzazione della fattualità. Tutto può essere concepito come contingente, a seconda dell’umano tropismo: tutto eccetto la contingenza stessa. La contingenza – e solo la contingenza – è assolutamente necessaria: la fattualità – e solo la fattualità – non è fattuale ma eterna. La fattualità non è un fatto – non è un fatto in più nel mondo. E questo si basa sopra un preciso argomento: non posso essere scettico nei confronti dell’operatore di ogni scetticismo.
Questa necessità della fattualità, io la chiamo in francese “factualité”. La fattualità non è fatticità, ma la necessità della fatticità. E il principio che afferma la fattualità, lo chiamo semplicemente “principio di fattualità”. Per finire, chiamo “spéculazione factuale”, la speculazione basata sul principio di fattualità.
Attraverso il principio di fattualità io sostengo di poter ottenere un materialismo speculativo che chiaramente confuta il correlazionismo. Io posso pensare un X indipendente da ogni pensare: e questo lo so grazie al correlazionismo e alla sua lotta contro l’assoluto. Il principio di fattualità svela la verità ontologica nascosta sotto lo scetticismo radicale della filosofia moderna: essere non è essere un correlato, ma essere un fatto: essere è essere fattuale – e questo non è un fatto.
4. Il principio di contraddizione
Adesso cosa possiamo dire di questo assoluto identificato con la fatticità? Cos’è la fatticità una volta considerata un assoluto piuttosto che un limite?
La risposta è tempo – la fatticità come assoluto dev’essere considerata come tempo, un tempo molto speciale però, che in After Finitude io chiamo “Iper-caos”. Cosa intendo con questo termine? Dire che l’assoluto sia il tempo, o il caos, sembra molto risaputo, molto banale. Ma il tempo che scopriamo qui, come ho detto, è un tempo molto speciale: non un tempo fisico, non un caos ordinario. L’Iper-caos è molto differente da ciò che normalmente chiamiamo “caos”. Con caos di solito intendiamo disordine, casualità, l’eterno cominciare di tutto. Ma queste proprietà non sono proprietà dell’Iper-caos: la sua contingenza è così radicale che persino il divenire, il disordine o la casualità possono essere distrutti da esso e rimpiazzati da ordine, determinismo e fissità. Nell’Iper-caos le cose sono così contingenti che il tempo è in grado di distruggere persino il divenire delle cose. Se la fatticità è l’assoluto, la contingenza non significa più la necessità della distruzione o del disordine, quanto piuttosto la pari contingenza di ordine e disordine, di divenire e di perpetuità. Questa è la ragione per cui ora preferisco usare il termine surcontingence, supercontingenza, piuttosto che contingenza. Bisogna capire che questa tesi sul tempo è molto differente dalla filosofia eraclitea: Eraclito, secondo me, è un tremendo seguace della fissità. Il suo divenire deve divenire, e persistere eternamente come divenire. Perché? Perché il divenire è solo un fatto – come la fissità – così entrambi devono avere l’eterna possibilità di apparire o sparire. Ma il divenire eracliteo è anche, come tutto il tempo fisico, governato d specifiche leggi – leggi della trasformazione che non cambiano mai. Ma non c’è ragione perché una legge fisica duri, o persista, un giorno in più, un minuto in più. Perché queste leggi sono solo fatti – Hume ha dimostrato questo punto molto chiaramente. Questa impossibilità di dimostrare la necessità delle leggi fisiche non è però, secondo me, dovuto ad un limite della ragione, come credeva Hume, ma piuttosto al semplice fatto che è falsa. Io sono un razionalista, e la ragione chiaramente dimostra che non potete dimostrare la necessità delle leggi: quindi dobbiamo solo credere nella ragione e accettare questo punto: le leggi non sono necessarie – sono fatti, e i fatti sono contingenti – cambiano senza ragione. Il tempo non è governato da leggi fisiche perché sono le leggi stesse ad essere governate da un tempo folle.
Qui vorrei enfatizzare il tipo di rottura che cerco di introdurre riguardo entrambe le due modalità della metafisica: intendo – molto brevemente – “la metafisica della sostanza” e “la metafisica del divenire”. Io credo che l’opposizione tra essere (concepito come sostrato) e divenire sia incluso nel principio della ragione che è l’operatore di ogni metafisica. Questo è il senso dell’opposizione iniziale tra i Presocratici tra Talete – pensatore dell’arché come substrato – cioè, acqua – e Anassimandro pensatore dell’archè come apeiron, che sarebbe a dire, il necessario divenire e distruzione di ogni ente. I pensatori del divenire – come Eraclito, Nietzsche o Deleuze – sono spesso considerati antimetafisici – essendo i metafisici considerati i filosofi dei principi fissi, cioè sostanza e idee. Ma la metafisica è di fatto definita dal proprio credo nella determinata necessità degli enti o dei processi: le cose devono essere come sono, o divenire quello che divengono – poiché c’è una ragione per questo (L’Idea o la Creatività dell’Universo). Questa è la ragione per cui la metafisica del divenire crede in due necessità: la necessità del divenire, invece che quella della fissità; e la necessità di un certo divenire, piuttosto che un altro ugualmente pensabile.
Al contrario, la nozione di Iper-caos è l’idea di un tempo talmente liberato dalla necessità metafisica da non essere obbligato da nulla: né dal divenire né dal sostrato. Questo tempo iper-caotico è in grado di creare e distruggere persino il divenire, producendo, senza ragione, fissità e movimento, ripetizione o creazione. Questo è il perché penso che la materia ultima della filosofia non sia l’essere o il divenire, rappresentazione o realtà, ma una possibilità molto speciale che non è un possibile formale, ma un reale e compatto possibile, quello che io chiamo il “peut-être”- il ‘può-essere’. In francese direi: L’affaire de la philosophie n’est pas l’être, mais le peut-être. [La questione della filosofia non è l’essere ma il possibile]. Anche se questo peut-être, io credo, ma sarebbe troppo complesso dimostrarlo qui, è molto simile al finale peut-être di Un Coup de dés di Mallarmé.
Se la fatticità è l’assoluto, allora la fatticità dev’essere pensata come Iper-caos, un caos razionalista che è paradossalmente più caotico di ogni caos anti-razionalista. Ma anche se accettiamo questo punto, sembra che abbiamo un problema serio: come possiamo sperare di risolvere il problema dell’ancestralità con tale nozione? Questo problema, di fatto, consisteva nello scoprire un assoluto in grado di fondare la legittimità di una conoscenza scientifica della realtà stessa. Adesso qui abbiamo un assoluto che è, io credo, in condizioni di resistere al correlazionismo, ma quest’assoluto sembra essere il contrario di una struttura razionale dell’essere: esso è la distruzione del principio della ragione, attraverso il quale tentiamo di spiegare la ragione dei fatti. Ora sembra che ci siano solo fatti e non più ragione. Come possiamo sperare di fondare la scienza con questo risultato?
Io penso ci sia un modo di risolvere questo nuovo problema. Come potrei farlo? La mia tesi è che ci sono specifiche condizioni della fatticità, che io chiamo “Figure” [Figures]: intendo dire che la fatticità è per me la sola necessità delle cose – ma essere fattuale non implica semplicemente essere qualsiasi cosa. Essere fattuale non è semplicemente dato in ogni genere di cosa. Alcune cose, se esistessero, non obbedirebbero alle rigorose e necessarie condizioni per essere un ente fattuale. Questo è il perché queste cose non possono esistere: non possono esistere perché se esistessero sarebbero necessarie, ed essere necessarie, secondo il principio di fattualità, è impossibile.
Facciamo un altro esempio. In Après la finitesse provo a mostrare che la non-contraddizione è una condizione della contingenza in quanto una realtà contraddittoria non potrebbe cambiare poiché sarebbe già ciò che non è. Più precisamente: immaginate o, piuttosto, provate a concepire un essere in grado di sostenere tutte le contraddizioni che siano: esso ha la proprietà a, e allo stesso tempo e nelle stesse esatte condizioni, la proprietà non-a. L’oggetto è solo rosso, e non solo rosso ma anche non-rosso. Ed è lo stesso per ogni altra proprietà possiate concepire: b e non-b, c e non-c, ecc. Adesso provate a concepire il fatto che questa entità debba cambiare – diventare qualcosa che non è – sarebbe concepibile? Naturalmente no, essa è già tutto e il contrario di tutto. Un essere contraddittorio è perfettamente necessario. Questo è il perché il Dio dei cristiani è allo stesso tempo ciò che è – il Padre, infinito, eterno – e ciò che non è – il Figlio, umano e mortale. Se volete pensare a qualcosa di necessario dovete pensarlo come contraddittorio – senza nessuna alterità, con niente fuori dall’assoluto che l’assoluto possa diventare. Questo è il perché alla fine l’assoluto hegeliano è effettivamente contraddittorio: perché Hegel intende che un essere che è veramente necessario, come un assoluto, debba essere ciò che è e ciò che non è – debba avere dentro di sé ciò é che fuori di esso. Tale assoluto non avrebbe alterità, e pertanto sarebbe eterno (ma naturalmente sarebbe un’eternità contraddittoria la quale non ha un divenire fuori da se stessa – tale da aver dentro se stessa un eterno divenire eternamente passante nell’eternità).
Al contrario, io sostengo che la contraddizione sia impossibile – questo è il perché sono un razionalista – ma la ritengo impossibile perché la non-contraddizione è la condizione del Caos radicale, cioè dell’Iper-caos. Notate che io non pretendo che l’essere contraddittorio sia impossibile perché assurdo o perché sia una stupidaggine. Al contrario, io non credo che un essere contraddittorio sia senza significato: potete definirlo rigorosamente e ragionare su di esso. Potete razionalmente dimostrare che una contraddizione reale è impossibile poiché sarebbe un essere necessario. In altre parole, poiché il principio metafisico di ragione è assolutamente falso, il principio logico di non-contraddizione è assolutamente vero. La perfetta “logicità” di tutto e’ una condizione rigorosa dell’assoluta assenza di ragione per qualsiasi cosa.
Questo è il perché non credo nella metafisica in generale: poiché la metafisica crede sempre, in un modo o nell’altro, nel principio della ragione: un metafisico è un filosofo che crede sia possibile spiegare perché le cose debbano essere nel modo in cui sono, o perché le cose debbano cambiare nel modo in cui cambiano. Io credo al contrario che la ragione debba spiegare perché le cose e perché il divenire stesso possono sempre diventare quello che non sono – e perché non c’è ragione ultima per questo gioco. In questa maniera, la “speculazione fattuale” è ancora un razionalismo, ma paradossale: è un razionalismo che spiega perché le cose debbano essere senza ragione, e come precisamente possano essere senza ragione. Le Figure sono queste modalità necessarie della fatticità – e la non-contraddizione è la prima Figura che deduco dal principio di fattualità. Ciò dimostra che si può ragionare sull’assenza di ragione – se la stessa idea di ragione viene assoggettata ad una profonda trasformazione, se diventa una ragione liberata dal principio di ragione – più esattamente: se è una ragione che ci libera dal principio di ragione.
Ora, il mio progetto consiste in un problema che non risolvo in Après la finitude, ma che spero di risolvere in futuro: è un problema molto difficile, che non posso rigorosamente esporre qui, ma che posso riassumere in questa semplice domanda: sarebbe possibile derivare, ricavare dal principio di fattualità, la capacità delle scienze naturali di conoscere, per mezzo del discorso matematico, la realtà in sé, con cui io intendo il nostro mondo, il mondo fattuale così com’è prodotto dall’Iper-caos, e che esiste indipendentemente dalla nostra soggettività? Rispondere a questo difficilissimo problema è la condizione per una reale soluzione del problema dell’ancestralità, e ciò costituisce la finalità teoretica del mio lavoro attuale.
Grazie per la vostra attenzione [e qui applausi, ma davvero tanti, da parte mia. NDR]
Science fiction et fiction hors de science (sulla necessità delle leggi di natura)
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Rick Dolphijn, Iris Van der Tuin, Realismo speculativo: intervista a Quentin Meillassoux
dal Rasoio di Occam
Negli ultimi anni si è venuta imponendo all’attenzione del pubblico filosofico internazionale una nuova tendenza di pensiero, che è stata definita “realismo speculativo”. Uno dei suoi più importanti esponenti è Quentin Meillassoux, filosofo francese, dell’università di Paris-1 (Sorbonne). Qui pubblichiamo una recente intervista con lui, in cui sono ben riassunte le sue tesi.
Il suo libro d’esordio Après la finitude (2006) [tradotto in italiano per Mimesis nel 2012 con il titolo Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza] è considerato da molti come uno dei più violenti attacchi alla storia del pensiero moderno: una critica al suo umanesimo, la sua metafisica immanentista, il suo antimaterialismo. Lei sviluppa rigorosamente quello che chiama un ‘materialismo speculativo’ attraverso una riscrittura di questa storia, o, come afferma, attraverso una riscrittura del correlazionismo. Questo termine è concettualizzato nel suo libro e ha certamente spinto diversi studiosi – talvolta inquadrabili come realisti speculativi (Bryant et al., 2011) – a sviluppare una nuova filosofia della scienza e un nuovo punto di vista oltre il kantismo. Il correlazionismo, cui lei si riferisce come “l’idea secondo la quale noi abbiamo sempre e solo accesso alla correlazione fra pensiero ed essere, e mai a ciascun termine considerato separatamente dall’altro” (Meillassoux 2006, 5 [i riferimenti di pagina sono all’edizione del libro in inglese]), è fortemente criticato da altri studiosi che usano il medesimo termine. Per lei, in ogni caso, l’ipotesi correlazionista merita un grande rispetto, essendo non soltanto oggetto della sua critica, ma piuttosto una prospettiva che si propone di “radicalizzare da dentro: un vero e proprio ‘lavoro interno’”, come dice Harman (2011, 25). In questo libro [New Materialism, Open Humanities Press 2012], in cui si fa una mappatura di quello che noi abbiamo chiamato un ‘nuovo materialismo’, non abbiamo sentito alcun bisogno di includere o escludere particolari studiosi, e così non vediamo alcun motivo per annoverare anche lei dentro o fuori questa corrente. Ciò che intendiamo porre in evidenza è la vicinanza del suo percorso a questa corrente, nonostante gli indirizzi in essa compresi si siano sviluppati in modi molto differenti. Può darci un’idea essenziale della strada da lei intrapresa, soffermandosi in particolare su questo complesso concetto di “correlazionismo”?
Nel mio libro metto a confronto due posizioni: a) un “correlazionismo forte” che, a mio avviso, è la forma più rigorosa di anti-assolutismo e quindi della posizione anti-metafisica contemporanea, e b) una metafisica da me chiamata “soggettivista”, che, al contrario, è oggi la più diffusa filosofia dell’assoluto, quella che consiste nel porre questo o quel particolare del soggetto come essenzialmente necessario: vale a dire, il suo status come parte di un correlato.
Chiarisco meglio questa distinzione. Nel primo capitolo di Dopo la finitudine definisco il correlazionismo in generale come una tesi anti-assolutista: quella che usa il correlato “soggetto-oggetto” (definito in maniera larga) come uno strumento per rigettare ogni metafisica che sostenga la possibilità di accedere a una modalità dell’in-sé. Al contrario, per il correlazionismo noi non possiamo accedere ad alcuna forma dell’in-sé, dal momento che siamo irrimediabilmente confinati alla nostra relazione-col-mondo, senza alcun mezzo per verificare se la realtà che ci è data corrisponda alla realtà in sé, indipendentemente dal nostro legame soggettivo con essa. Per me, vi sono due forme principali di correlazionismo: debole e forte (cfr. il secondo capitolo, p. 42 per l’annuncio di questa differenza e p. 48 e sgg. per la sua spiegazione). Il correlazionismo debole è identificato con la filosofia trascendentale di Kant: è “debole” nel senso che concede ancora troppo alla pretesa speculativa del pensiero. Infatti Kant sostiene che noi conosciamo l’esistenza di un in sé che è pensabile (non contraddittorio). Il correlazionismo “forte”, di contro, nega ogni possibilità di conoscenza dell’in-sé e anche che possa essere pensabile, essendo profondamente limitati nel nostro pensiero, senza la possibilità di conoscere l’in-sé, né tantomeno il suo aver luogo o la sua logicità. Infine definisco l’avversario contemporaneo più rigoroso del correlazionismo: il metafisico soggettivista. Colui che crede, diversamente dal correlazionista forte (chiamiamolo semplicemente “il correlazionista” d’ora in poi), che noi possiamo davvero accedere all’assoluto: quello del correlato. Invece di dire, come il correlazionista, che noi non possiamo conoscere l’in-sé, essendo confinati al correlato, il metafisico soggettivista (chiamiamolo da adesso soltanto “il soggettivista”) asserisce che l’in-sé è il correlato stesso.
In questo modo la tesi “soggettivista”, secondo le sue varie istanze, assolutizza vari aspetti della soggettività. Lo abbiamo visto a partire dall’idealismo speculativo di Hegel, che assolutizza la Ragione, fino alle diverse variazioni del vitalismo (lungo l’asse dominante da Nietzsche a Deleuze), che assolutizzano volontà, percezione, sensazione ecc. Per me Deleuze è un metafisico soggettivista che ha assolutizzato un insieme di forme della soggettività, ipostatizzate come Vita (o “una Vita”), e le ha poste come radicalmente indipendenti dalle nostre relazioni umane e individuali con il mondo.
Questa distinzione fra correlazionismo forte e metafisica soggettivista costituisce il nucleo centrale del libro. Dal terzo capitolo in poi presento la mia ipotesi vera e propria. Il terzo capitolo ruota interamente attorno al conflitto fra correlazionismo e soggettivismo, ed è questo confronto che mi permette di stabilire l’assoluta necessità della fatticità: un punto di vista da cui devono leggersi tutte le mie posizioni successive.
A suo avviso Deleuze, che ha dato contributi significativi a quello che abbiamo indicato come ‘nuovo materialismo’, non è materialista dal momento che il primato assoluto dell’inseparato (“niente può essere se non in qualche forma di relazione col mondo”) nella sua metafisica non contempla la possibilità dell’atomo epicureo “che non ha né intelligenza, né volontà, né vita” (Meillassoux 2006, 37). Ciò nonostante, aggiunge, Deleuze (con e senza Guattari) è importante per il suo pensiero e richiede ancora un maggiore approfondimento (Meillassoux 2010). Lei evidenzia che scienza e matematica hanno posto domande alla filosofia (e questioni che riguardano i principi ancestrali) che richiedono un materialismo speculativo liberato dal primato dell’inseparato. Ma allora in che modo può, allo stesso tempo, pretendere di superare una conclusione trascendentalista come “ciò che è asoggettivo non può essere” e insieme sposare un approccio simile a quello kantiano relativo alla scienza e alla matematica?
Per essere ancora una volta precisi, la conclusione “ciò che è asoggettivo non può essere” è il solo “punto in comune” tra correlazionismo anti-metafisico e metafisica soggettivista. Ma dobbiamo comprendere in che modo e in che misura. Per il correlazionista, ciò significa che io non posso mai pensare l’oggetto cercando di fare a meno del mio punto di vista soggettivo. Tale conclusione significa quindi: “l’asoggettivo” è impensabile per noi (“non può essere” significa in questo caso: “non può essere pensabile”). Per il soggettivista, al contrario, tale affermazione significa che l’asoggettivo è del tutto impossibile: “non può essere” equivale a “non può esistere in sé stesso”. La metafisica della Vita o dello Spirito, la filosofia trascendentale o il correlazionismo forte, tutti convergono nella denuncia del “realismo ingenuo”, proprio di un materialismo epicureo che affermi l’esistenza di alcune entità non soggettive (l’atomo e il vuoto) e conoscibili. Io intendo davvero prendere le distanze da questo consenso anti-realista, in particolare da ogni forma di trascendentalismo, senza però tornare all’epicureismo, che nel suo genere rimane ancora una metafisica (non soggettiva, ma realistica), perché sostiene il bisogno reale di atomi e vuoto.
Ma questo certamente non mi impedisce di porre la questione di una chiarificazione delle condizioni di pensabilità della scienza. Una simile questione, infatti, non ha nulla di trascendentale in sé: è propria di ogni filosofia che si interroghi di cosa si stia parlando quando viene usato il termine “scienza”. La mia tesi è che noi ancora non comprendiamo cosa significhi, perché non riusciamo a risolvere l’aporia dell’arche-fossile: che le scienze matematizzate della natura sono pensabili soltanto a condizione di assicurare un ambito assoluto alle sue proposizioni: pretesa che tutte le filosofie anti-metafisiche di ogni epoca hanno messo in dubbio. Le metafisiche soggettiviste possono, con diritto, dire di avere assicurato un fine assoluto al pensiero e che, perciò, non ricadono entro il problema dell’arche-fossile: in ogni caso, io mostro che queste metafisiche sono a tutti gli effetti confutate dal correlazionismo forte e che di conseguenza non sono in grado di risolvere questa aporia.
Forse potremmo discutere sulle ragioni di una riscrittura della storia del pensiero. Diversi autori interessati a sviluppare una filosofia materialista o realista sono oggi desiderosi di rigettare l’umanesimo per via delle sue (implicite) teorizzazioni rappresentazionalistiche o linguistiche, affermando che attraverso questa preminenza attribuita alla copia o al linguaggio si sia insinuato un riduzionismo letale (in filosofia e nelle scienze umane più in generale, ma allo stesso modo in tutte le scienze). Lei, d’altra parte, intende forzare il pensiero correlazionista così da aprire di nuovo le porte all’Assoluto. Molti saranno d’accordo con lei che l’Assoluto è stato escluso dal pensiero, sempre di più, fin dall’arrivo della modernità (dall’affermazione del correlazionismo di ispirazione kantiana, per usare i suoi termini). Infatti, mentre Nietzsche ha pronunciato la sua famosa sentenza sulla morte di Dio per mano del pensiero critico alla fine del diciannovesimo secolo (in Così parlò Zarathustra, 1883-85), lei afferma l’esatto opposto: è stato a causa del correlazionismo che l’Assoluto è divenuto impensabile. Criticando Kant attraverso Descartes e Hume, in particolare rispetto all’idea di causalità, lei intende spingere il correlazionismo all’estremo, rivelando ciò che lei chiama il Principio di Fatticità: una concettualizzazione radicalmente differente della natura (natura come contingente) e della sua relazione col pensiero. Una radicalizzazione del correlazionismo (debole) ci mostra che, come lei scrive, “ogni mondo è senza ragione ed è perciò in grado di trasformarsi in tutt’altro, senza alcuna ragione” (Meillassoux 2006, 53, corsivo dell’autore).
Provo a chiarire nuovamente questo punto in poche parole. Il soggettivista asserisce che il correlazionista ha scoperto, al suo posto, il vero assoluto: non una realtà al di fuori del correlato, ma il correlato in quanto tale. Infatti il correlazionista ha dimostrato che noi non possiamo pretendere di pensare una realtà indipendente dalla correlazione senza contraddirci immediatamente: pensare l’in-sé significa pensarlo, facendo così di esso un correlato dell’attività soggettiva del pensiero, invece di farne un assoluto indipendente da noi. Ma ciò, d’accordo con i soggettivisti, dimostra che questo assoluto non è nient’altro che la correlazione in sé stessa. Questo perché, per confessione dello stesso correlazionista, io non posso concepire la sparizione del correlato, o l’essere-altro, senza immediatamente ricondurlo nelle sue proprie strutture, il che significa che in realtà io non posso pensare la correlazione in altro modo se non come necessaria. Questa conclusione contraddice la tesi anti-assolutista del correlazionista. Il soggettivista trae questa conclusione dell’argomento correlazionista, rivolgendo così il correlazionismo contro se stesso: il correlato, strumento di de-assolutizzazione della metafisica realista, viene ricondotto a un assoluto anti-realista. Ma il correlazionismo forte non ha ancora deposto le armi: nel terzo capitolo mostro che nelle sue forme più contemporanee (Heidegger o Wittgenstein) esso tenta di rigettare la risposta soggettivista opponendo l’irriducibile fatticità all’assolutizzazione della correlazione. Dovrei farle rileggere come descrivo questa risposta: la conclusione da me tratta è che il correlazionismo forte non può essere respinto dall’assolutizzazione della correlazione, come credono i soggettivisti, quanto piuttosto dall’assolutizzazione della fatticità (entro cui risiede il significato del principio di fatticità).
Sebbene lei affermi più volte che il materialismo speculativo è alla ricerca di un approccio diacronico, il suo uso di alcuni concetti ci riporta indietro a un tempo (e spazio) passato (come l’idea di arche-fossile, ad esempio). Anche quando dice che “… vi è un più profondo livello di temporalità, con cui ciò che è venuto prima della relazione-col-mondo è in se stesso nient’altro che una modalità di quella relazione-col-mondo” (ibid., 123), questa profondità, che ritorna diverse volte nel capitolo conclusivo, deve essere cercata in ciò che è anteriore al pensiero. Questo ci ricorda ancora una volta un approccio heideggeriano che intende riportarci alle cose in sé. Ora, come abbiamo visto prima, lei è di fatto piuttosto critico nei confronti di Heidegger (non soltanto nella sua risposta di sopra, ma anche, ad esempio, in ibid. 41-2 , dove lo accusa, insieme a Wittgenstein, di aver dato vita a un correlazionismo forte che ha dominato la filosofia del ventesimo secolo). Nonostante lei citi prevalentemente la sua opera tarda, la sua critica di Heidegger si concentra primariamente sulle questioni dell’essere che erano più centrali nei suoi primi lavori. Nel suo Die Frage nach Technik (1954) ed anche nel Der Ursprung des Kunstwerkes (1960), possiamo facilmente leggere un materialismo che si avvicina al suo nella misura in cui anch’esso interroga la relazionalità ed è alla ricerca di un più completo e profondo significato delle cose (e dei tempi) che può trovarsi solo prima che questa relazionalità abbia avuto luogo.
Tenendo da parte a livello speculativo la dimensione idealistica e talvolta umanista del pensiero heideggeriano, potremmo dire che la nozione fenomenologica di ritorno alle cose stesse, e allo stesso modo l’interesse alla riscrittura, come Lyotard (1988) avrebbe detto, del pensiero greco antico (penso anche al suo ultimo capitolo, intitolato “La vendetta di Tolomeo”) siano anche di suo interesse? O condividerebbe almeno l’idea non tanto di riscrivere una filosofia pre-umana, ma piuttosto pre-moderna o classica?
Rispetto ad Heidegger, ho voluto mostrare che anche lui non si è mai sottratto al correlazionismo, nella sua tarda opera come nella prima. Ecco perché cito il suo Identità e differenza (cap. I, p. 41-2), in cui riporta il concetto di Ereignis – centrale dopo la “svolta” nel pensiero heideggeriano – a un chiara struttura correlazionale. Il “ritorno alle cose stesse”, che è stato lo slogan della fenomenologia di Husserl prima di quella del giovane Heidegger, non corrisponde in alcun modo alla mia idea di filosofia, dal momento che consiste, in questo senso, in un ritorno alle cose in quanto correlati della coscienza, del Dasein, del fenomeno, dell’essere o dell’Essere. Se il dato fosse la cosa in sé, allora l’oggetto sarebbe intrinsecamente qualcosa di “dato-a”: ma, secondo la mia tesi, ciò non è possibile. Non vi è quindi alcun ritorno alle “cose in se stesse”, ma piuttosto all’in-sè considerato come indifferente a ciò che ci è dato, in quanto indifferente al nostro aprire-il-mondo.
Non sono impegnato in un ritorno ai greci o in una loro riscrittura: una simile impresa non ha alcun interesse preciso secondo il mio approccio.
Michel Foucault è stato il primo ad annunciare la fine dell’uomo o la seconda rivoluzione copernicana in Les Mots et les Choses (1966). Il suo nuovo modo di scrivere la storia può non avere escluso la mente umana, ma certamente esso intende almeno non partire da quest’ultima. La sua idea di “discorso”, ad esempio, non prende le mosse dal linguaggio, ma da forme materiali (come la forma-prigione) che procedono insieme a forme espressive come la delinquenza (che non è intesa come significante, ma come parte di una serie di enunciati che presuppongono reciprocamente la forma materiale della prigione). Spingendo questa tesi un po’ oltre, non sembra troppo difficile riformulare questo argomento senza che la mente giochi necessariamente un ruolo minore. Penso, ad esempio, a come funziona il processo di sedimentazione, dove i ciottoli vengono sospinti dalle correnti acquatiche e si accumulano in strati uniformi dando vita a una nuova entità come la roccia sedimentaria: un processo non-lineare dovuto alle spinte tettoniche, le condizioni climatiche e altri più complicati processi di trasformazione che infine generano movimenti molto simili a quelli che Foucault individua rispetto ai mutamenti nella visione della delinquenza lungo il diciannovesimo secolo. In che modo il suo punto di vista differisce da quello foucaultiano? Oppure: in cosa l’arche-fossile è diverso e meno dipendente dalla mente umana rispetto ai ciottoli dell’esempio di sopra?
Per quel che riguarda Foucault risponderò semplicemente così: le sue ricerche si concentrano sui dispositivi di conoscenza-potere del passato e infine sui dispositivi a lui contemporanei. Ma non può dirci nulla rispetto alla critica del correlazionismo forte, visto che tale critica è situata a un livello che la sua indagine non affronta, ma piuttosto presuppone. Io esamino come il correlazionismo, dal suo punto di partenza nel Cogito, ha finito per dominare tutto il pensiero moderno, incluso il più risoluto tra gli anti-cartesiani: il “grande internamento” non è stato quello dei folli nei manicomi, ma quello dei filosofi nel Correlato. E questo vale anche per Foucault. Infatti Foucault non dice nulla che possa mettere in imbarazzo un correlazionista, visto che tutti i suoi studi possono essere considerati come un discorso-correlato-al-punto-di-vista-del-nostro-tempo, e quindi rigorosamente dipendenti da questo. E’ una tipica tesi di un certo relativismo correlazionista: noi siamo intrappolati nel nostro tempo, non in termini hegeliani, ma piuttosto alla maniera heiddegeriana, cioè nella modalità della conoscenza-potere che ci domina sempre e ancora. La sua tesi sulla “scomparsa dell’uomo” riguarda l’uomo inteso come un oggetto delle “scienze umane”, non in quanto correlato come lo concepisco io.
Non sono per nulla ostile alla tesi di Foucault, anche se a mio avviso la sua riflessione si colloca entro un’ontologia storicista che resta impensata nella sua profonda natura, anche nel suo splendido corso intitolato “Defendre la Societé” (2003).
La domanda centrale del suo libro era: in che modo il pensiero è in grado di pensare cosa può esservi quando non c’è il pensiero? (Meillassoux 2006, 36). Numerosi studiosi nelle scienze umane, anche se sottoscrivono la sua rilettura di Kant e di Hume, potrebbero non vedere l’urgenza di una simile questione. Il femminismo, ad esempio, potrebbe essere interessato a pensare al di fuori della dicotomia maschio-femmina e la teoria femminista contemporanea prende le mosse della sua analisi dalla mente umana (femminile), ma l’urgenza di pensare un luogo senza pensiero sarebbe probabilmente considerata la domanda insensata per eccellenza, per come lei l’ha formulata (ibid. 121). Come crede di potere convincere simili studiosi?
Che la questione su ciò che vi sia quando non c’è il pensiero venga considerata da molti, non solo dalle femministe, come priva di significato o interesse è di certo verosimile. Come lei ricorda, io dico in modo specifico: il problema è quello di comprendere come la questione più urgente ha finito per essere etichettata come la più oziosa. Il problema non è tanto di convincere tutti a pensare in maniera diversa, dal momento che un carattere molto forte della nostra epoca è il fatto che non possiamo pretendere di dare battaglia in poche parole. Se dovessi dire qualcosa per smuovere le presenti certezze, lo formulerei in modo provocatorio, ma in realtà è quello che penso: io affermo che chiunque rifiuti di occuparsi di tale questione semplicemente non sa di cosa parla quando proferisce parole come “scienza”, “matematica”, “assoluto”, “metafisica”, “non-metafisica” e altre parole di uguale significato. Ciò che dico nel mio libro e nelle righe di sopra spiegano, credo, a sufficienza cosa mi permette di crederlo.
Ecco perché la questione della differenza sessuale non può essere estranea a questa domanda. Ad esempio, l’intera opera di Lacan è attraversata dalla questione della scientificità o non-scientificità della psicoanalisi, e trova uno dei suoi punti culminanti nella nozione di “matema”. Bene, io ritengo che nessun discorso lacaniano, apertamente legato alla questione della differenza “uomo/donna”, sarebbe in grado di comprendere il significato dei suoi concetti fondamentali fino a che non avrà trattato, come sua precondizione necessaria, la questione della non-correlazionalità della scienza. Lo stesso vale anche per ogni teoria femminista che incorpori nel suo discorso almeno uno dei termini citati sopra.
Lei spinge oltre il correlazionismo forte attraverso una rilettura rivoluzionaria di Kant e Hume, dimostrando così come un radicale anti-antropocentrismo compia davvero la rivoluzione copernicana. Centrale in questo radicale anti-antropocentrismo attraverso cui lei riassolutizza il pensiero è la matematica (ibid., 101, 103, 113, 126): “ciò che è matematizzabile non può essere ridotto a correlato del pensiero” (ibid. 117). Ciò implica una definitiva presa di distanza da un’idea filosofica della scienza, visto che proprio questo ha offuscato “il tipo di conoscenza non correlazionale della scienza: in poche parole, il suo carattere eminentemente speculativo” (ibid., 119, corsivo dell’autore). Il giudizio che lei dà è che “il pensiero può pensare che un evento X può davvero aver avuto luogo prima di ogni pensiero e indifferentemente da questo”, “nessun tipo di correlazionismo […] può ammettere che il significato letterale di una proposizione sia anche il suo significato più profondo” (ibid., 122; corsivo originale). In linea con la sua argomentazione ha senso legare questa verità eterna che troviamo nella matematica ad un “realismo” (per quanto speculativo), ma in che modo potremmo chiamarlo un “Materialismo”? La dinamica morfogenetica della matematica è identica a quella della materia?
Io intendo dimostrare – cosa che non avevo ancora fatto in Dopo la finitudine – che il matematizzabile è assolutizzabile. Lei mi chiede se questa è una tesi materialistica piuttosto che soltanto “realista”. E’ difficile discutere la rilevanza della mia tesi se omettiamo la discussione nel suo complesso del problema dell’arche-fossile che si trova nel primo capitolo del mio libro. Risponderò comunque così: per me il materialismo consiste in due proposizioni chiave: 1) L’Essere è separato e indipendente dal pensiero (inteso nel senso ampio di soggettività), 2) il pensiero può pensare l’Essere. La prima tesi si oppone ad ogni antropomorfismo che cerchi di estendere gli attributi della soggettività all’Essere: il materialismo non è una forma di animismo, spiritualismo, vitalismo ecc… Esso afferma che l’assenza di pensiero preceda realmente, o almeno può precedere di diritto, il pensiero ed esiste al di fuori di questo, seguendo l’esempio degli atomi di Epicuro, privi di ogni soggettività e indipendenti dalla nostra relazione con il mondo. La seconda tesi afferma che il materialismo è razionalismo (di nuovo, inteso qui in senso largo visto che vi sono differenti nozioni di ragione) per il fatto che consiste sempre in un’impresa che, attraverso lo scetticismo, oppone un’attività di conoscenza e di critica al fascino religioso, al mistero o alla limitazione della nostra conoscenza.
Scetticismo e fede convergono nella tesi della nostra finitudine, rendendoci propensi ad ogni credenza: al contrario il materialismo accorda all’essere umano la capacità di pensare attraverso i suoi mezzi propri la verità su ciò che lo circonda e sulla sua condizione. Tra i nemici della ragione, il materialismo sa sempre come scoprire il prete. Esso sa anche che nessuno ha più desiderio di essere nel giusto – senza permettere ad alcuno di argomentare contro – che gli avversari della ragione.
Io seguo queste due tesi perché dico e dimostro – attraverso una serrata argomentazione -che vi è un essere contingente indipendente da noi, e ancora di più, che questo essere contingente non ha alcuna natura soggettiva. Cerco anche di fondare un razionalismo scientifico, basato sull’uso della matematica per descrivere la realtà inorganica e non-umana. Ciò non significa “pitagorizzare”, o asserire che l’Essere è intrinsecamente matematico: quanto piuttosto spiegare come un linguaggio formale cerchi di catturare dall’Essere contingente proprietà che un linguaggio quotidiano non riesce a cogliere. La mia tesi sulla matematica è una tesi sullo scopo dei linguaggi formali, non una tesi sull’Essere. Non la presento per un capriccio o per un tropismo “scientista”, ma perché ho mostrato con il problema dell’arche-fossile che non vi è altra scelta: se le scienze hanno un significato, allora la matematica ha un ambito assoluto. Le scienze hanno significato, e allora le scienze riposano, attraverso le loro formulazioni matematiche, su di una realtà che è radicalmente indipendente dalla nostra umanità. Questo è in contrasto con i giudizi “qualitativi” della percezione ordinaria, i quali possono essere pensati senza problemi come correlati alla relazione sensibile che noi abbiamo col mondo e non hanno alcuna esistenza al di fuori di questa relazione. L’ambito assoluto della matematica deve quindi essere fondato e il nostro unico modo per farlo, credo, è andare oltre l’ambito derivato del principio di fattualità. Questo è il problema escluso in Dopo la finitidune: una questione che simultaneamente traccia il programma di un conseguente materialismo speculativo.
Nella sua concettualizzazione della potenzialità in opposizione alla virtualità lei nota che la potenzialità esiste in un mondo determinato, conformandosi alle leggi della natura. Il caos estremo, d’altra parte, è legato alla virtualità. In che modo il pensiero del virtuale è legato alla speculazione, e che ruolo ha la materia (e la natura)? Le porgiamo questa ultima domanda perché abbiamo notato che mentre a pagina 11 lei parla di materia, vita, pensiero e giustizia, a pagina 14 lei parla soltanto delle ultime tre. Abbiamo introdotto il concetto di natura in riferimento alla sua apparente affinità con la fisica spinoziana (non con la sua metafisica).
Infine, quindi, il soggetto vettoriale che deve essere sviluppato nel materialismo speculativo non libera, ma piuttosto anticipa, l’imprevisto, pur mantenendo il principio di non-contraddizione. Eliminando l’idealismo, sarebbe più interessante vedere come questa emancipazione “non esista ancora”, specialmente in relazione a come essa si afferma o si critica da parte delle grandi femministe francesi come Cixous e anche de Beauvoir, quando si soffermano non tanto su un’emancipazione finale, ma piuttosto sulla volontà di scrivere o pensare la femminilità.
Per me la materia non è identificabile con la “natura”. La natura è un ordine del mondo determinato da costanti specifiche e che determina entro sé una serie di possibilità che io chiamo “potenzialità”. La materia è un ordine ontologico primordiale: è il fatto che vi debba essere qualcosa piuttosto che il nulla, cioè gli esseri contingenti in quanto tali. Si può immaginare un’infinità e più di mondi materiali retti da leggi differenti: sarebbero differenti “nature”, sebbene ugualmente materiali. La seconda caratteristica della materia è negativa: essa designa gli esseri contingenti non viventi e non pensanti. Nel nostro mondo, la vita e il pensiero si sono costituiti su di una materia inorganica a cui ritornano. Si può forse immaginare una natura interamente vivente o spirituale in cui la “materia” venga estromessa, ma resterebbe la possibilità essenziale ed eterna del super-caos, dal momento che ogni natura può essere distrutta, ad eccezione dell’essere contingente in uno stato di pura materia.
Per quel che riguarda la teoria del soggetto materialista, sono certo interessato a superare l’identificazione dell’azione con il suo puro svolgimento presente, ripetendo allo stesso tempo la critica del precedente modello rivoluzionario di una futura emancipazione. In ogni caso, penso che il presente sia intimamente costituito dalla “proiezione” del soggetto su ciò che non è ancora presente. Qui non voglio dire nulla di originale: Heidegger, come Sartre, ha insistito su questa dimensione costitutiva del futuro nella formazione del presente soggettivo. Tuttavia, io aggiungo una dimensione molto differente a questa proiezione: una dimensione che non è soltanto priva di trascendenza religiosa, ma anche inaccessibile all’azione del soggetto. Un’articolazione che ritengo efficace per una giustizia radicalmente egualitaria (del vivente e del morto) e per l’eterno ritorno come prova del ritorno (una resurrezione profondamente illusoria). Ciò che mi interessa è l’effetto di retroazione di questa aspettativa sul presente dell’azione e sulla concreta trasformazione del soggetto.
Bibliografia
Bryant, L., N. Srnicek and G. Harman eds. 2011, The Speculative Turn: Continental Materialism and Realism, Melbourne: re.press.
Harman, G. 2011, “On the Undermining of Objects: Grant, Bruno, and Radical Philosophy,” in L. Bryant, N. Srnicek, and G. Harman 2011, 21–40.
Meillassoux, Q. [2006] 2012. Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, a cura di Massimiliano Sandri, Milano: Mimesis 2012.
-2010. “Que peut dire la métaphysique sur ces temps de crise?”, in L’Annuel des Idees February 5, 2010. http://www.annuel-idees.fr/2-Que-peut-dire-la-metaphysique.html
Intervista tratta da Rick Dolphijn and Iris van der Tuin (a cura di), New Materialism: Interviews & Cartographies, Ann Arbor: Open Humanities Press 2012.
(traduzione di Giuseppe Montalbano)
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