Raffaele Simone, I colonialisti cambiano i nomi: così la lingua diventa un’arma

by gabriella

Questo bell’articolo del linguista Raffaele Simone sull’uso colonialista della parola, uscito su Domani del 23 febbraio 2025, passa in rassegna la preparazione retorica, o glottofagia, delle vecchie e nuove politiche di aggressione coloniale, dalle più note relative al Golfo del Messico e al Canale della Manica, oggetto dei poteri onomastici di Trump, alle meno conosciute, come quella del Monte Denali o dell’Alto Adige.

Prim’ancora di insediarsi, Donald Trump aveva annunciato, tra gli altri suoi propositi sconcertanti, che avrebbe ridenominato Golfo d’America quello che, fin dal Seicento, nelle carte nautiche spagnole si chiamava Golfo del Messico, come tuttora si chiama. E in effetti a questo tema ha dedicato uno dei suoi primissimi ordini esecutivi, anche se è stato osservato che in realtà i suoi “poteri onomastici” non possono andare oltre il confine degli Stati Uniti.

 

Ma, anche entro quei confini, Trump ha fatto immediatamente una mossa pesante e offensiva: al monte Denali in Alaska, la cima più alta del Nord America, ha ridato il nome di monte McKinley, con riferimento al venticinquesimo presidente Usa, protezionista e guerrafondaio del pieno Ottocento.

Qui la cosa ha una pesante risonanza simbolica: il nome Denali («altissima, grande montagna» nella lingua koyukon, etnia dell’Alaska) era stato ripristinato nel 2015 da Barak Obama in risposta alle insistenti richieste dei nativi, e ribadito nel 2025. Nello stesso senso va la pesante mossa di Elon Musk, che, tra le sue mille uscite ad alto potenziale percussivo, ha sparato la strampalata proposta di ribattezzare Canale George Washington la Manica.

Com’è possibile che nella mente di uomini dal potere così enorme venga tra le prime proprio l’idea di cambiar nome a entità geografiche che il nome ce l’hanno da secoli? Che cosa può mai importargli? Le ridenominazioni escogitate da Trump e Musk non sono semplici trovate bizzarre, né scambi di etichette. Sono feroci zampate colonialiste, a cui corrispondono, sul piano materiale, le pretese sul canale di Panama (rivendicato in quanto costruito da uomini Usa) e su Canada e Groenlandia(pretese in quanto parte degli Usa), annunciate da Trump già nel suo discorso di insediamento, o quelle sulla Striscia di Gaza.

Glottofagia 

Da secoli la mente del colonialista funziona così: non solo disegna a piacimento mappe e confini di territori e stati, sposta popolazioni o le deporta, ma intacca, altera e magari distrugge gli oggetti simbolici di un popolo o di una cultura, quelli che ne esprimono in modo sintetico l’identità e il carattere. Siccome queste operazioni non danno niente ai connazionali mentre tolgono qualcosa di vitale ai popoli soggetti, il loro valore è puramente negativo, serve solo a indicare potestà e imperio.

Una delle tecniche tipiche del colonialista consiste proprio nell’imporre nuovi nomi a popoli e luoghi. Louis-Jean Calvet, in un bel libro di parecchi anni fa intitolato Linguistica e colonialismo (parti leggibili in lingua originale), ha chiamato questo processo glottofagia: i colonizzatori “divorano” la cultura dei popoli sottoposti e, insieme a quella, anche le loro lingue e perfino i nomi etnici. Gli esempi, nella storia, non si contano.

madre Leni Lenape

Per tenersi ai soli Stati Uniti, ai Leni Lenape (“popolo dell’inizio”), etnia nativo-americana della Pennsylvania, fu imposto il nome di Lord Delaware, governatore seicentesco della colonia inglese della Virginia, che rimase per sempre il loro appellativo.

I dakota, i lakota e i nakota, gruppi diversi di una stessa etnia del nord degli USA, furono chiamati complessivamente sioux, probabile deformazione della pronuncia francese di una parola usata per designarli in lingua Ojibwa (etnia del Michigan). I nez percés (“nasi forati”), etnia del nord-ovest, furono chiamati così dai francesi sebbene non avessero l’uso di forarsi le narici, forse per un equivoco.

Esempi di questo fenomeno si trovano in tutte le aree colonizzate del mondo. I primi esploratori portoghesi chiamarono rio dos camerrões (“fiume dei gamberi”) il fiume Wouri, per l’abbondanza di gamberi che vi notarono. Da quell’espressione gli spagnoli trassero camerones, che gli inglesi alterarono in cameroon e i francesi in cameroun, che diventò il nome di un’area e poi del paese lì attorno. In ragione di questa catena di attribuzioni e alterazioni, il nome Camerun copre oggi, con una tipica forzatura coloniale, indistintamente decine di etnie (kotoko, bamiléké, fang, fali ecc.), alcune delle quali prive di rapporti e dalle lingue non intercomprensibili.

Rinominare 

Un’altra tecnica coloniale consiste nel cambiare il nome delle città e a volte anche delle strade. È ancora operante la decisione fascista di italianizzare i nomi geografici del Sudtirolo diventato italiano: il nome stesso di Alto Adige fu inventato di sana pianta dal dialettologo fascista Ettore Tolomei, che ebbe l’incarico di italianizzare forzosamente i circa 10.000 toponimi della regione: fu così che Brixen diventò Bressanone, Bruneck diventò Brunico, Sterzing diventò Vipiteno. La stessa operazione, del resto, fu ripetuta a partire dal 1941 nell’area l’area dei Balcani occupata dai fascisti.

Il bellissimo Anime baltiche di Jan Brokken (Iperborea, 2014) racconta le traversie di una folla di persone dei tre paesi baltici nate in città che cambiavano nome secondo che, con una sarabanda che in quelle plaghe si è protratta molto a lungo, fossero in mano dei polacchi, dei nazisti o dei sovietici. Per i tedeschi Tallinn diventava Reval, Vilnius era Wilna, Tartu diventava Dorpat. Kaunas, la seconda città della Lituania, per i tedeschi era Kauen, per i polacchi Kowna. Anche le strade cambiavano nome secondo la sovranità del momento. Inutile ricordare che anche gli italiani (“brava gente”) hanno fatto la loro parte in questo triste teatro di alterazioni forzose. Le isole greche del Dodecaneso, in mano italiana dagli inizi del Novecento fino al 1948, furono ribattezzate Isole italiane dell’Egeo.

Proibire la lingua

Tra le imposizioni coloniali, c’è però qualcosa di più duro e crudele che alterare toponimi e cognomi: proibire l’uso della lingua locale. È quel che l’amministrazione fascista fece a partire dal 1937 nel Dodecaneso: l’uso del greco fu interdetto nelle scuole, nelle comunicazioni ufficiali e anche negli usi comuni, e forzosamente sostituito dall’italiano. Dal 1941, la stessa norma fu imposta alla vasta area balcanica occupata dai fascisti, dove sull’uso dell’italiano vigilavano gli squadristi.

La stessa imposizione, del resto, s’era avuta in Polonia, nel lungo periodo (fino alla fine della Prima guerra mondiale) in cui fu in mano russa: il polacco, limitato o proibito nelle scuole, negli uffici governativi e nelle comunicazioni ufficiali, fu sostituito dal russo. Il divieto era talmente rigido che perfino l’insegnamento del polacco doveva svolgersi in russo. Nelle sue Note autobiografiche, Maria Skłodowska (che in Francia diventerà Marie Skłodowska-Curie) racconta che nel suo ginnasio i ragazzi erano costantemente spiati, perché «anche una sola conversazione in polacco o una parola pronunciata con imprudenza poteva danneggiare seriamente loro stessi e le loro famiglie».

Il ruolo dello Zeitgeist

Siccome molta parte delle denominazioni geografiche o urbane dipende dallo Zeitgeist politico del momento, si verificano ovunque, anche su piccola scala, tentativi di intitolare strade o dedicare monumenti a persone un tempo reiette, che a un certo punto diventano personaggi storici. Viterbo ha ottenuto una sua via Almirante, anche se si tratta solo di una rampa di accesso a una superstrada, senza neanche un numero civico.

A Sesto San Giovanni e a Lecce risulta una via Bettino Craxi, intitolata a un pregiudicato e contumace, ed è recentissima l’intitolazione a un alto pregiudicato, Silvio Berlusconi, dell’aeroporto di Milano Malpensa. Il paesino di Affile, in provincia di Roma, ha dal 2012 un sacrario al fascistissimo concittadino generale Graziani, che nessuna protesta è riuscita a fare abbattere. L’obelisco del Foro Italico a Roma, dedicato a Mussolini e con tanto di scritta DUX, sopravvive indenne, così come il sacrario fascista ai caduti di Bolzano.

A un livello più sottile, tutte le città italiane hanno quartieri “africani”, in cui le strade portano il nome di vittorie e massacri nelle colonie d’Africa. L’esempio più indisponente sono le vie intitolate Amba Aradam, nome di un pianoro etiopico dove nel 1936 l’esercito di Badoglio massacrò, usando gas e altre armi proibite, i resistenti etiopi (seimila morti, quasi quindicimila feriti). Tiepide iniziative di cancellazione sono state prese da alcune amministrazioni. Di recente, a Roma le strade intitolate ad Arturo Donaggio e a Edoardo Zavattari (scienziati razzisti, coautori del Manifesto della razza del 1938) sono state rinominate.

Ma il più rimane intatto, e l’epoca che viviamo non pare propizia ad altre correzioni. Non sappiamo se Trump, che prima o poi riscriverà la storia americana alla sua maniera (come il suo amico Putin ha fatto più volte), vorrà ribattezzare anche lui le città e le vie che non quadrano con la sua idea di identità americana, e magari proibire la lingua di qualcuna delle tante minoranze che vivono in quel paese.

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