L’accordo intergovernativo di ieri ha delineato la, per così dire, “strategia” che l’Europa pensa di mettere in campo per uscire dalla crisi, illudendosi di salvare un euro che oramai anche i principali think tank liberisti internazionali danno per spacciato. La strategia è imperniata sul fiscal compact (che anche dal punto di vista comunicativo fa pensare più ad una compilation di musica dance che ad un pacchetto di politiche fiscali, ma tant’è) e su non meglio precisate linee-guida per riattivare la crescita economica ed occupazionale nei Paesi dell’Unione.
Non starò a fare una lunga analisi del “fiscal compact” (ci sono ottimi articoli che girano su Internet, ne segnalo uno ai naviganti: “Per un nuovo fiscal compact”, di Renato Costanzo Gatti). Mi limiterò ad enucleare alcuni aspetti di fondo:
– l’obbligo di rientrare di un ventesimo dell’extra debito (cioè del debito pubblico superiore al 60% del PIL) all’anno comporta di fatto manovre finanziarie pari a 42 Meuro per il primo anno, 40 Meuro per il secondo, 38 Meuro nel terzo, e così via. Tale regola costringe l’economia italiana a rinunciare ad uscire dalla recessione per lustri. Di fronte alla durezza del sacrificio finanziario imposto, le cosiddette “circostanze attenuanti” che Monti sarebbe riuscito a strappare sono ben poca cosa. In realtà, ad essere precisi, non ha strappato niente, poiché ha solo ottenuto che si riportasse nel fiscal compact quanto già previsto nel “six pack” varato qualche mese fa: in sostanza, l’ammontare dell’extra-debito pubblico viene corretto per i passivi impliciti legati all’indebitamento del settore privato (significativamente più basso in Italia rispetto alla media Ue), e per una combinazione fra il costo aggiuntivo legato all’invecchiamento della popolazione, corretto per i risparmi conseguibili da riforme previdenziali. Anche a voler considerare lo scenario più ottimistico, ovvero portando a deduzione dell’extra debito pubblico l’intero ammontare di risparmio lordo privato (gli effetti finanziari più rilevanti della riforma previdenziale si faranno sentire dopo il 2014, quindi riportati al presente attualizzati, risultano di entità non molto significativa) avremmo comunque manovre finanziarie pesantissime, incompatibili con ipotesi di ripresa economica, pari a 35 Meuro nel primo anno, 33 Meuro nel secondo, 31 nel terzo, e così via;– si smantella ogni residua sovranità nazionale sulle politiche economiche. Infatti, oltre ad imporre l’obbligo del bilancio in pareggio, che di fatto impedisce al singolo Stato di utilizzare politiche di spesa o fiscali per finalità anti-cicliche, si prevede (art. 7) che i Paesi membri debbano fare rapporto alla Commissione europea ogni volta che intendano procedere ad emissioni del loro debito sovrano, mentre l’art. 11 stabilisce che “le Parti Contraenti garantiscono che tutte le più importanti riforme di politica economica che esse pensano di intraprendere saranno discusse ex ante e, laddove sia appropriato, coordinate fra di loro. Questo coordinamento deve coinvolgere le istituzioni dell’Unione Europea così come richiesto dal diritto dell’Unione Europea”. In pratica, lo Stato membro non potrà più prendere una decisione di politica economica senza aver ricevuto il placet dell’Unione europea, ovvero del tandem franco-tedesco che la domina e la controlla;
– l’obbligo di mantenere il deficit strutturale (ovvero corretto per il ciclo e per entrate ed uscite di bilancio “una tantum”) entro lo 0,5% del Pil, di fatto implica l’impossibilità di utilizzare la spesa pubblica come volano di sviluppo, poiché disegna un sostanziale pareggio di bilancio. Ciò va a combinarsi con la previsione del “six pack”, per cui la crescita della spesa pubblica viene limitata ad un coefficiente basato sulla stima della crescita a medio termine del Pil. La filosofia sottostante è chiaramente basata sui precetti della “nuova macroeconomia classica”, cioè della versione aggiornata della teoria neoclassica. In tale impostazione, si rifiuta l’assunto keynesiano secondo cui vi sono numerosi possibili equilibri macroeconomici, molti dei quali non ottimali (cioè che comportano disoccupazione e tassi di crescita inferiori a quelli potenziali). Si riparte quindi dalla teoria walrasiana dell’equilibrio economico generale, secondo cui, in condizioni di concorrenza perfetta, il mercato trova, nel lungo periodo, un equilibrio economico ottimale, in cui il livello del Pil equivale all’utilità attesa dagli operatori (sotto le consuete, ed irrealistiche, ipotesi di razionalità, e quindi con modelli di aspettative razionali). Pertanto, i cicli economici, di crescita e recessione, che oscillano attorno al pattern di equilibrio economico generale di lungo periodo, sono essenzialmente generati da shock esogeni dal lato dell’offerta, ed in particolare sulla produttività dei fattori, derivanti, ad esempio, dalla restrizione del credito bancario alle imprese, che impedisce loro di disporre del capitale monetario iniziale per avviare il processo di accumulazione, e quindi di estrazione di plusvalore relativo, ciò che sembra essere la causa dell’attuale recessione. Ciò implica che la produttività dei fattori sia una variabile pro-ciclica, e che le oscillazioni cicliche, anche quelle recessive, sono semplicemente il modo con il quale il sistema economico si auto-regola, per tornare sul sentiero ottimale dell’equilibrio di lungo periodo. Secondo tale teoria, le recessioni sono causate da una decrescita esogena della produttività dei fattori, che si riaggiusta in automatico, se i salari ed i prezzi sono flessibili, e possono ridursi per riallinearsi alla più bassa produttività, e se lo stesso utilizzo dei fattori è flessibile (consentendo loro di riallocarsi da settori a bassa redditività a settori ad alta redditività, il che è un diverso modo di esprimere la famosa legge di Walras, per cui a livello aggregato, se in un mercato esiste un eccesso di offerta, allora in un altro deve esistere un pari eccesso di domanda, per cui in una condizione di mercati perfettamente concorrenziali domanda ed offerta si auto-riaggiustano, compensandosi, per eliminare gli eccessi). In questo approccio, ogni intervento di politica pubblica, e quindo ogni utilizzo della spesa pubblica, compromette il riaggiustamento verso l’equilibrio. Le aspettative ipotizzate razionali, infatti, comporteranno un riaggiustamento dei comportamenti degli operatori, che “sconteranno” con esattezza, e quindi azzereranno, gli effetti prevedibili di un intervento di politica pubblica, lasciando soltanto in eredità un maggiore disavanzo del bilancio pubblico. La migliore politica pubblica in tale approccio, quindi, è quella che rimuove ogni ostacolo alla libera concorrenza, agisce per aumentare la flessibilità e la mobilità dei fattori produttivi, e riduce il disavanzo ed il debito pubblico, in modo da non generare interferenze nel riaggiustamento automatico dei mercati verso il punto di equilibrio di lungo periodo (interferenze generate, per esempio, da un eccessivo livello di spesa pubblica che genera inflazione, impedendo il riaggiustamento verso il basso di prezzi e salari, oppure disincentivi la ripresa della produttività dei fattori tramite meccanismi assistenziali e previdenziali);
– tale impostazione teorica fondamentale spiega sia l’ossessionante accento posto sulla contrazione della spesa pubblica e sul pareggio di bilancio, sia l’impostazione delle “linee-guida per la crescita e l’occupazione” approvate contemporaneamente al fiscal compact. Tali linee-guida sono infatti basate sulla competitività dal lato dell’offerta, sull’incentivazione alla massima flessibilità e mobilità dei fattori, sulla rimozione degli ostacoli alla concorrenza, sul potenziamento della produttività dei fattori tramite la formazione professionale (ricordiamo infatti che in base al modello adottato, è la produttività la variabile-chiave che genera le oscillazioni cicliche fra crescita e recessione) e sull’eliminazione dei fattori di rigidità verso il basso dei salari (tramite la contrazione dei contributi sociali obbligatori e il ridimensionamento dei sistemi nazionali e collettivi di contrattazione salariale);
– questa visione della crescita è socialmente regressiva: implica una flessibilità incontrollata, che genera un ampliamento delle sacche strutturali di precariato esistenziale, uno smantellamento dei sistemi pubblici di welfare, e quindi un crescente impoverimento di ampi settori sociali, un incremento della produttività rispetto al salario, con effetti evidenti sulla qualità della vita dei lavoratori, una crescente competizione sul mercato del lavoro, che non potrà che penalizzare i più deboli, quelli che per ragioni economiche non hanno potuto accedere a sistemi di istruzione e formazione di eccellenza, e crea conflitti generazionali, di genere, di etnia, di categoria sociale, nell’ambito della classe lavoratrice. Questo modello, quindi, prefigura una società più povera, più insicura, più competitiva, meno solidale;
– di conseguenza, tale modello è frutto di una visione rinunciataria, pessimistica circa il futuro. L’uscita dalla recessione attuale potrebbe non essere, come si auspica, la fine del capitalismo e l’inizio di un modello alternativo, soprattutto in ragione della storica debolezza della sinistra. Viceversa, l’uscita dalla crisi potrebbe essere rappresentata da una mera riorganizzazione della divisione internazionale del lavoro, e della distribuzione mondiale del benessere economico, con le economie attualmente emergenti (i cosiddetti Paesi BRIC) che diventerebbero progressivamente l’area del benessere, e le economie occidentali mature che precipiterebbero verso il declino;
– rispetto a tale visione del futuro del capitalismo, il modello adottato dai principali leader europei sarebbe del tutto coerente. Tale modello, infatti, come è ampiamente dimostrato storicamente, non genera un equilibrio economico ottimale, perché le aspettative degli operatori, nella realtà, non sono razionali, perché l’informazione non è soltanto incompleta (un dato di fatto che il modello qui criticato prende in considerazione) ma è anche asimmetrica, perché i mercati generano fallimenti ed esternalità negative, anche e soprattutto quando operano in condizioni di perfetta concorrenzialità. Quindi tale modello non assicura una futura prosperità dopo la fase di sacrifici, come afferma Monti, ma ci aiuta soltanto a diventare quello che erano la Cina, la Corea del Sud, Taiwan prima del loro impetuoso sviluppo: l’area emergente del mondo, che basa la sua competitività su un rapporto particolarmente alto fra produttività e costo dei fattori produttivi, e su società altamente concorrenziali. La differenza però è che, mentre Cina, Taiwan e Corea del Sud hanno adottato tali modelli competitivi partendo da situazioni pregresse di grande povertà e sottosviluppo, per cui un modello di sviluppo basato sull’iper-sfruttamento dei lavoratori e sul mantenimento della società di condizioni di povertà era considerato relativamente accettabile dalle popolazioni, i nostri Paesi dovrebbero impostare tale modello partendo da una situazione pregressa di prosperità perduta. La rabbia e la frustrazione sociale per i diritti perduti renderebbero più difficile l’accettazione di tale modello, e quand’anche questo fosse accettato, per imposizione e non per scelta, la frustrazione dei lavoratori, non potendosi sfogare in forme sociali e politiche, si rifletterebbe in livelli non ottimali di produttività e qualità del loro lavoro, compromettendo l’idea di riavviare la crescita “coreanizzando” i nostri Paesi, che sembra essere quella che guida gli attuali leader europei.
Quanto sopra descritto dovrebbe suggerire prudenza ai leader politici europei, prima di continuare ad investire su un paradigma liberista fondato sulle teorie del ciclo della nuova macroeconomia classica. I segnali di allarme, per loro, sono numerosi, e convergono verso una più che prevedibile impossibilità di mettere in pratica concretamente l’accordo sul fiscal compact approvato ieri. Non solo la Repubblica Ceca si è immediatamente tirata indietro, ma anche l’Irlanda vuole sottoporre a referendum popolare tale fiscal compact, con il più che prevedibile esito negativo, che farebbe uscire dalla nuova disciplina fiscale europea uno dei Paesi più indebitati, cioè uno dei casi da sottoporre alle regole più stringenti, se si vuole salvare l’euro. Ma c’è di più: lo stesso Sarkozy ha posticipato la ratifica francese degli accordi di ieri a dopo le elezioni presidenziali. Poiché il candidato favorito è il socialista Hollande, e poiché quest’ultimo ha dichiarato di voler rinegoziare il fiscal compact, in caso di vittoria, è poco probabile che l’accordo di ieri verrà mai implementato. D’altra parte, una componente essenziale di tale accordo verte sul potenziamento della dotazione finanziaria dell’Esm (European Stability Mechanism, NDR.), su cui la Germania pone un veto apparentemente invincibile. E senza un Esm di dimensioni finanziarie adeguate, sarà impossibile condurre a termine i piani di salvataggio di Portogallo, Irlanda e forse Spagna ed Italia, comportando quindi una fuoriuscita di massa dall’area-euro di tali Paesi. Non appena fuori dall’euro, tali economie potrebbero ritrovare la possibilità di esportare verso i mercati rimasti all’interno dell’euro ripristinando politiche di svalutazione competitiva della loro moneta. Creando grossi guai alle imprese tedesche, francesi o del Benelux. A sua volta, ciò dovrebbe condurre alla definitiva liquidazione dell’euro, anche per le economie centro e nord europee. L’impressione generale è che la borghesia europea non abbia più un progetto per tirarsi fuori dalla crisi, e che annaspi aggrappandosi a teorie neoclassiche già dimostratesi fallimentari, nella realtà del mondo occidentale. L’idea di uscire dalla crisi “coreanizzando” i nostri Paesi, e sfruttando quindi la competitività-prezzo per aggredire i mercati dei nuovi ricchi (ovvero i BTIC) non appare, per quanto detto sopra, realizzabile in concreto al 100%. Peraltro, anche gli stessi BRIC, ed in particolare Cina ed India, stanno accumulando, nella loro impetuosa crescita, contraddizioni strutturali che potrebbero minarne lo sviluppo nel medio periodo. Mentre sembra essersi scatenato un “si salvi chi può”, con gli operatori finanziari all’affannosa ricerca di una riduzione delle prevedibili ingentissime perdite patrimoniali da haircut che subiranno quando, uno dopo l’altro, i Paesi PIIGS dichiareranno default, e con le borghesie produttive europee aggrappate all’illusione di riattivare percorsi neoliberisti di ripresa che, privandosi del volano della spesa pubblica, appaiono impossibili, la sinistra mondiale non è all’altezza della situazione, perché non è in grado di indicare un modello sociale ed economico alternativo. Il futuro sarà cupo.
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