Stralcio dall’articolo dedicato dal Rasoio di Occam a Qu’est-ce un peuple?, nuovo testo collettaneo dell’editore canadese La Fabrique, le definizioni di popolo, popolare e populismo offerte da Alain Badiou, Pierre Bourdieu, Judith Butler e Jacques Rancière e le conclusioni dell’ottimo redattore di Francesismi.
Esistono, per Alain Badiou, quattro sensi in cui intendere il termine “popolo”, due negativi e due positivi. La prima declinazione, negativa, è quella identitaria, razzista, di un popolo tanto “puro”, tanto “originario”, quanto immaginario. La seconda, altrettanto negativa, è quella che
subordina il riconoscimento di un “popolo” a uno Stato che si suppone legittimo e buono, solo perché organizza la crescita, quando può, e quando non può almeno la persistenza della classe media»,
legando quindi indissolubilmente il suo destino a quello dello Stato nazionale.
Nella direzione opposta vanno i due sensi che l’autore definisce “positivi” del termine. Il primo: la definizione di un popolo sulla base del riscatto rispetto a una storia di oppressione (coloniale, imperialistica…). Si tratterebbe di quell’inversione dialettica del rapporto di dominazione, possibile a partire proprio da quello stesso processo di individuazione del soggetto (nel duplice senso della parola, anche come “sottoposto” ) che è la molla essenziale della dominazione:
il popolo esiste allora seguendo il futuro anteriore di uno Stato inesistente.
Il secondo senso positivo, invece, è dato dalla prospettiva di quel popolo che si afferma a partire non da una definizione proveniente dall’esterno, ma dal «proprio nucleo interiore», il che lo mette in rotta di collisione con lo Stato e con le forme della rappresentanza: si capisce che è questo, per Badiou, il senso più autentico del popolo, quello del popolo rivoluzionario (pp. 20-21). Ma non può sfuggire al lettore il fatto che, in questa definizione astratta, esso rischia di non avere altra consistenza che quella di un miraggio.
Ma basta un saggio di Pierre Bourdieu a dimostrare che anche l’idea di “popolare” non è meno fluida e concettualmente vaga di quella di “popolo”. È un saggio vecchio, questo di Bourdieu, apparso per la prima volta nel 1983 sulla rivista Actes de la recherche en sciences sociales, ma ancora molto attuale. Studiando la lingua, la cosiddetta “lingua popolare”, il sociologo rileva che i registri e le abitudini linguistiche caratterizzate in questo senso non sono meno soggette a convenzioni della lingua ordinaria. Tuttavia, allo stesso tempo non nasconde che certi usi “giovanili” del linguaggio popolare, prima di diventare “alla moda” assolvono, in realtà, a una funzione di contestazione, in quanto ribaltano i codici e la “stigmate” razzista che caratterizza il linguaggio ordinario. L’immagine più efficace di questo processo è senz’altro il verlan: il linguaggio popolare giovanile che si compone di parole francesi invertite nelle sillabe (lo stesso nome verlan viene da à l’envers). Forse anche questa innovazione linguistica contemporanea sarebbe stata letta da Bourdieu come un elemento potenziale di resistenza al potere.
Ma resta il problema del criterio per distinguere un uso “resistente” da un altro semplicemente dipendente da una convenzione diversa da quella normale.
In questo senso, il saggio di Judith Butler è diretto proprio alla ricerca di questo criterio di unione. La filosofa propone infatti una riflessione sulla “libertà di riunione” come atto fondativo del popolo e
condizione di possibilità della politica (p.54).
Partendo dalla (ben nota) teoria del performativo, infatti, la filosofa intende fornire un accenno di modello di costituzione di un popolo. Questo è dato dalla riunione performativa dei corpi, cui deve seguire, condizione necessaria ma non sufficiente, lo sviluppo di un discorso costituente del tipo “noi, il popolo”. La condizione del popolo, e dunque della politica in generale, è così, per Butler, «corporea» ancor prima di essere linguistica. Purché si tenga a mente il fatto che la «riunione» performativa, il popolo che ne scaturisce, non è, non deve e non vuole essere un “unisono”, ma esiste e rimane produttivo solo nella misura in cui mantiene e valorizza le proprie differenze interne.
[…]
Tuttavia, per approdare al concetto di popolo si può seguire anche un cammino diverso. È quello intrapreso da Jacques Rancière, che parte dalla sponda opposta rispetto a quella dell’aggettivo “popolare”: la sponda rappresentata dal termine “populismo”. Il filosofo disseziona il termine e il suo uso per dimostrarne, infine, la vacuità teorica. Il populismo non è né una corrente politica né un pensiero coerente, ma piuttosto un meccanismo di creazione di una certa idea di popolo. Sì, perché
il popolo non esiste – Rancière è netto su questo – esistono solo diverse, se non addirittura opposte, figure del popolo, figure costruite privilegiando determinate modalità di raggruppamento, determinati tratti distintivi, determinate capacità o incapacità.
Come specifico agencement di caratteri, dunque, il populismo produce l’idea di un popolo numeroso, e quindi minaccioso, ignorante, e quindi razzista. Per questo motivo, per Rancière, il fatto che sia proprio questo concetto a essere in primo piano in quasi tutte le riflessioni sulla politica moderna è indice di un movimento sotterraneo che tenta di scalzare le fondamenta democratiche degli Stati occidentali, nati da rivoluzioni guidate dall’idea di popolo come portatore di diritti, mirando a una prospettiva politica in cui l’insieme dei cittadini di uno stato sia rappresentata come una “massa” senza qualità e pericolosa:
Sciogliere l’idea del popolo democratico nell’immagine della folla pericolosa (p. 143).
Il che porta alla conclusione, auspicata dalle élites oggi al potere,
«che dobbiamo metterci nelle mani di coloro che ci governano e che ogni contestazione della loro legittimità e della loro integrità apra le porte al totalitarismo» (p. 143).
Quest’ultima riflessione mette in chiaro tutte le difficoltà della prospettiva di liberazione del concetto di popolo dal pantano ideologico in cui è finito negli ultimi decenni. Affermando questa esigenza, Qu’est-ce qu’un peuple? rimane tuttavia lontano dal definire chiaramente degli strumenti teorici capaci di assolverla. Perché nemmeno le mediazioni proposte dagli autori permettono di stabilire con certezza un punto di partenza teorico davvero privo della zavorra identitaria del populismo, che oggi ha di fatto confiscato la nozione anche negli usi che si pretendono più critici (guardando all’Italia si potrebbero fare molti esempi).
Il problema, comunque, non sembra essere legato esclusivamente alla nozione di “popolo”, ma riguarda allo stesso modo l’altro polo, per così dire, attorno a cui ruotano gli interventi del libro: l’idea stessa di emancipazione, di cui non è meno difficile dare una definizione. E, a questo proposito, salta agli occhi l’assenza di qualsiasi riferimento, in Qu’est-ce qu’un peuple?, proprio a un concetto che, storicamente, ha permesso il legame tra i due termini. Si tratta della nozione di “classe”, nel senso attribuitole da Marx, che, com’è noto, scartava la nozione liberale di popolo ma, allo stesso tempo, forniva strumenti teorici per l’individuazione un soggetto collettivo e della necessità di una sua emancipazione. È un’assenza, certo non una svista, senza dubbio significativa.
Eppure, le sorti rispettive delle due nozioni di “popolo” e di “classe” non sono così divergenti come possono sembrare: se la prima è stata destinata al revisionismo del discorso identitario, quanto alla seconda si è assistito a una pura e semplice rimozione. Tuttavia, come insegna il dibattito francese (5), non di rado rimozione e revisionismo fanno parte di una medesima logica “reazionaria”. Perché, allora, non tornare a interrogarsi su questo legame tra popolo e classe? A condizione, sia chiaro, di non dimenticare il punto di domanda.
Commenti recenti