Un’altra interpretazione del mito di Prometeo e del processo di ominazione che esplora la costruzione greca (esiodea) dell’immagine dell’uomo, a metà tra il divino e l’animale e confluisce nella genesi di cultura di Nietzsche e Gehlen. Tratto da Metamorfosi della paura, Il Mulino, 1997.
Il genio della specie
Prometeo – il Protanthropos, l’uomo primordiale celeste che s’eleva sopra i piccoli uomini primordiali terrestri, «ma nello stesso tempo prende partito per loro» [Kerényi, Miti e misteri, Garzanti, 1986, I, p. 292] – è l’immagine che, della condizione umana, si fa il realismo greco. In essa, nella sua conoscenza del reale, appunto, è implicita in primo luogo la conoscenza del non-umano, di quel che è odioso agli uomini, e contro cui occorre prendere posizione. Sul versante opposto, sul versante di tutto quello che schiaccia l’uomo e ne contrasta lo sforzo laborioso, sta un’altra immagine: l’immagine di Zeus. A lui – che sta al di sopra di chi sta sopra -, il Protanthropos deve contendere la possibilità stessa di sopravvivere, facendosi ladro necessario del divino, ossia del non-umano. Il furto del fuoco, soprattutto, rivela la natura di tale necessità.
Prometeo, racconta Esiodo, inganna Zeus. Al tempo in cui «la loro contesa dirimevano dèi e uomini mortali» [Vernant], sacrifica e spartisce un bue: di qua le carni e le interiora, nascoste però nel suo ventre; di là le ossa, ricoperte ad arte con «bianco grasso». Ora il Protanthropos, ingannatore e ladro, invita Zeus a scegliere. Il dio raccoglie con entrambe le mani quella che pare di gran lunga migliore, e subito s’awede dell’inganno. Adirato, punisce gli uomini che con il suo stratagemma Prometeo ha tentato d’avvantaggiare “ingiustamente”:
Ma Zeus nascose il vitto, adirato nell’animo, quando l’ingannò Prometeo dai tortuosi pensieri; per questo invero agli uomini impose lacrimevoli affanni, e nascose il fuoco […] [Esiodo, Le opere e i giorni].
Il fuoco nascosto dal re degli dèi ha un senso alimentare, essendo – almeno nella versione di Esiodo, che è la più antica – il «fuoco che cuoce», che consente all’uomo primordiale di nutrirsi e non ancora, come invece in Eschilo, il «fuoco civilizzatore». Senza il fuoco e privato del «vitto», egli è condannato alla morte per fame. Il fuoco che Zeus si riserva, dunque, è quello naturale del fulmine, che il dio ormai si rifiuta di scagliare sulla terra a vantaggio dei mortali. Da qui viene la necessità per il Protanthropos di procurare all’uomo un fuoco artificiale,
«rubando il bagliore lungisplendente del fuoco indefesso in un ferula cava» [Esiodo, Teogonia]
Ossia, dopo averlo sottratto a Efesto, lo conserva in una canna, secondo una tecnica usata dai Greci per il suo trasporto. La sopravvivenza del genere umano è assicurata dunque da un doppio artificio: un’astuzia inganna Zeus, una tecnica del fuoco sostituisce il fuoco naturale.
Secondo una tradizione diversa, meno antica, che a Socrate sarebbe giunta attraverso un racconto di Protagora, il quale a sua volta avrebbe rielaborato una vecchia storia, il furto del fuoco sarebbe avvenuto in occasione della creazione di tutti gli esseri mortali da parte degli dèi, che li formarono facendone un calco «in seno alla terra». Poi, per farli salire alla luce della superficie, gli dèi ordinarono a Prometeo ed Epimeteo di distribuire fra tutti le capacità in proporzione a quello che ognuno meritava. Prometeo lasciò che fosse il fratello a decidere, e questo, «al quale mancava compiuta sapienza», al momento d’occuparsi dell’uomo, s’accorse di aver dissipato «tutte le facoltà naturali in favore degli esseri privi di ragione». Allora il Protanthropos, mosso a pietà per quest’essere «nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi», rubò «a Efesto e ad Atena il sapere tecnico, insieme con il fuoco», e gliene fece dono. [Platone, Protagora 320-321d]
Che la causa ne sia l’ira di Zeus o l’imprevidenza d’Epimeteo, in ogni caso l’uomo, unico tra i viventi, manca d’equilibrio. Alla sua paura non basta il suo corpo. Alla sua fame non basta la natura. È affamato di fame futura. Per questi motivi, rischia di soccombere, d’estinguersi. Per consentirgli di vincere il fato, Prometeo deve farsi ladro del divino: deve rubare al non-umano non tanto il caldo principio naturale della vita, quanto lo strumento e l’artificio per modificarla e per soggiogarla. Questo, però, non fa dell’uomo un pacificato signore della natura, ma un servo che non smette di pagare per la sua ribellione e per la sua sopravvivenza. La contropartita del furto è doppia: da un lato, il prezzo d’ogni ricchezza è ormai il lavoro, con la sua fatica; dall’altro, Pandora, la prima donna, il bel male [Vernant, Il Mito greco], apre il coperchio della giara da cui escono sofferenze e sciagure. La sua creazione sta a significare la nascita per generazione, la confutazione d’ogni sognante idea d’età dell’oro. Sola resta nella giara la Speranza, «nelle pareti infrangibili, sotto l’orlo del vaso» [Esiodo, Le opere ..], anch’essa, forse, un dono di Prometeo agli effimeri, un opaco sperare, un’illusione circa la loro condizione, un oblio e un’astuzia per indurli ad accettare il dono del fuoco.
In questo consiste l’identificazione di Prometeo con gli uomini primordiali: in questo suo contrastare il non-umano al fine di portare a compimento un essere il cui stato è non-ancora-perfetto. E in ciò, nota Kerényi, s’esprime un’idea che non è solo greca, secondo la quale, «affinché l’uomo primordiale diventi uomo, ha bisogno di una seconda formazione, una seconda creazione o nascita». Quel che la natura non gli ha dato, il protanthropos – non il dio, ma l’uomo primordiale – deve conquistarsi da sé, con l’astuzia e l’artificio – con il come se -, rubando la possibilità stessa d’esistere al divino che lo circonda.
Prometeo, immagine dell’uomo, paga questa seconda creazione e questa seconda natura non solo con il lavoro e la fatica, non solo con la rinuncia all’ipotetica leggerezza dell’età dell’oro, ma anche e soprattutto con l’incatenamento all’axis mundi. L’equilibrio artificiale sopperisce alla mancanza d’un equilibrio naturale, ma al prezzo d’un ordine anch’esso del tutto artificiale, d’una forma imposta al caos mediante gli ancoraggi incerti e faticosi d’un sopra e d’un sotto, d’un centro e d’un confine, d’un dentro e d’un fuori. La condanna di Zeus non è che la descrizione d’un fatto, la traduzione in immagine d’una condizione.
Entro tale condizione, ancora, ogni piccolo o grande mutamento s’attua come piccola o grande dissacrazione del centro e dei confini, del sopra e del sotto, del dentro e del fuori. Alla dissacrazione, poi, segue la ricostituzione dell’equilibrio, la ricostruzione di centro e confini, sopra e sotto, dentro e fuori. Segue cioè la riconciliazione tra Prometeo e Zeus, come accadeva nelle altre due tragedie della trilogia di Eschilo, di cui è rimasta solo memoria. Ma prima di tale riconciliazione, durante la crisi, gli ancoraggi artificiali cui gli uomini s affidano si fanno ancora più precari, e il vortice del caos minaccia di riprendere il sopravvento sull’ordine.
I vantaggi della scalata prometeica al cielo – un nuovo ordine, una nuova sicurezza – appartengono a un futuro incerto, mentre gli svantaggi – l’insecurizzazione, la paura, il senso del pericolo e del naufragio – sono tutti nel presente. Prometeo è ambiguo, al pari della condizione umana: la sua povertà rende necessaria la sua ricchezza; la sua ricchezza minaccia di risprofondarlo nella sua povertà. E’ per questo che con lui c’è Epimeteo, doppio fraterno? La sua imprevidenza e la sua cecità non sono forse l’altro lato dell’ambiguità?
Essere privo d’equilibrio, d’armonia, ombra vana, effimera creatura senz’ali, forma di sogno: tuttavia, l’uomo ha “ridotto” il divino che lo circonda, gli ha sottratto almeno un po’ della sua durezza. Nonostante le carenze di strumenti fisici, ha assoggettato il non-umano in misura crescente, e lo ha fatto sulla base della sua attività previdente: designare l’uomo come Prometeo ha perciò un senso esatto e corretto. Un senso che può essere illuminato anche da prospettive meno immediatamente suggestive di quella del mito.
Ponendosi il problema di definire l’uomo – e rifiutando gli universali esangui cui, dice, gli antropologi ricorrono per timore di restare privi di solidi riferimenti -, Geertz avanza l’ipotesi che, in termini fisici, l’uomo sia un animale incompleto, non finito [Interpretazione di culture, pp. 85-93], il più disperatamente dipendente da meccanismi extragenetici ed extracorporei di controllo del comportamento. Non potendo contare su comportamenti automatici e adeguati all’ambiente, cioè su risposte istintive agli stimoli dell’esperienza, l’uomo creò se stesso come animale culturale, ossia come animale che si fa guidare da programmi mediati simbolicamente: progetti e prescrizioni di cui è creatore e destinatario. Quello che più lo distinse e ancora lo distingue dagli altri esseri non fu e non è la sua capacità d’imparare, pur grande che sia, ma la quantità e la varietà di cose che deve imparare. Per l’animale incompleto e non finito «i cui geni tacciono» [ibid., p. 143] l’alternativa all’autocompletamento è il dissolvimento, il naufragio in un vortice d’impressioni e azioni. Senza cultura, gli uomini sarebbero inguaribili mostruosità, casi mentali disperati, in balia dei pericoli che li aggrediscono dall’esterno e anche dall’interno, in forma di paure, emozioni, suggestioni, rabbia: ombre vane, effimere creature senz’ali, forme di sogni.
Non avendo un suo posto “naturale” nel mondo, l’uomo dovette crearsene uno culturale, con ciò – unico tra gli esseri – creando se stesso come prodotto culturale e simbolico. Tale autocreazione s’esprime in sistemi di simboli significanti, che mediano il rapporto con il dato dell’esperienza, sostituendosi al modello immediato (e carente) degli istinti. La nostra cultura – resa necessaria da un vuoto, da uno squilibrio che ci avrebbe sprofondati nel caos – è diventata, così, la nostra propria natura: una natura paradossale, in quanto artificiale.
Animale incompleto, non finito, animale che crea se stesso: parole che rimandano ad autori che Geertz non ricorda, perché non li sa o perché non li vuole ricordare. La sua ipotesi non è che una riproposizione semplificata dell’antropologia di Arnold Gehlen, che a sua volta ha un grande debito, dichiarato, nei confronti di quella nietzscheana.
Nietzsche, appunto, mette in guardia dal supporre come originario «genio della specie» la capacità dell’uomo di comunicare. Originario, invece, è il suo bisogno di comunicazione [F. Nietzsche, La gaia scienza, af. 354]. Niente avrebbe spinto l’uomo solitario e bestia da preda a elaborare un sistema di segni significanti e a divenirne cosciente, anzi autocosciente. Ma, appunto, l’uomo non è animale solitario, né è bestia da preda. Non è “naturalmente” signore, ma
[…] è più malato, più insicuro, più mutevole, più indeterminato di qualsiasi altro animale, non v’è dubbio – è l’animale malato […] il più esposto al pericolo, il più lungamente e profondamente malato tra tutti gli esseri malati […][F. Nietzsche, Genealogia della morale].
In lui, dunque, ha lungamente operato una necessità gregaria, s’è lungamente espressa una mancanza, una servitù: alle radici della sua esistenza in quanto specie, «un’enorme lacuna lo circondava», facendone una foglia al vento, un trastullo dell’assurdo [cfr. ibidem]. Inadatto a «una lotta per desistenza da condursi con le corna o con gli aspri morsi degli animali feroci»[F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale], l’uomo delle origini fu costretto a cercare la comunicazione, e a produrre in sé le condizioni della sua sopravvivenza.
Essendo l’animale maggiormente in pericolo, dominato (dalla paura, ebbe bisogno d’aiuto e protezione. Dunque, dovette stabilire collegamenti interindividuali, e prima ancora – per riuscire a stabilire quei collegamenti mediante I segni significanti – dovette «“sapere” quel che gli mancava, “sapere” come si sentiva, “sapere” quel che pensava» [F. Nietszche, La gaia scienza, af. 355]. Questo gli fu possibile solo negando se stesso, la sua profondità: dovette farsi medio e superficiale, allusivo. Noi diremmo, simbolico. Dovette fare di se stesso la sua propria rappresentazione, qualcosa di misurabile e calcolabile, da vivente oblio che era [F. Nietzsche, Genealogia della morale].
Certo,
più di tutti gli altri animali presi insieme, egli ha anche tentato, innovato, affrontato, sfidato il destino: questo grande sperimentatore di se stesso, questo inappagato, questo insaziato, che per l’ultima supremazia contende con animali, natura e deità, questo pur sempre indomabile, eternamente di là da venire, che per l’empito della sua stessa forza non trova più requie, sì che il suo futuro, come uno sprone, spietatamente gli va frugando nella carne d’ogni presente [ibid].
Ma, appunto, non per questo ha vinto la propria malattia e la propria servitù: la sua condizione resta precaria. L’inventore di segni s’è escluso dall’immediatezza: il suo è diventato, per sempre, un mondo di superfici, generalizzato. E in esso sta rinserrato, chiuso in una gabbia di cui non ha la chiave [F. Nietzsche, Sul pathos della verità]. A lui è necessario non sapere, non scrutare al di sotto dell’illusione che s’è costruita, facendo «la commedia» di fronte agli altri e a se stesso, tessendo metafore, scivolando con l’occhio sulle cose e vedendo forme dove, per la sua precarietà, c’erano abissi.
Se anche fosse in grado di gettare lo sguardo al di fuori della gabbia, scoprirebbe solo d’essere sospeso nei suoi sogni, e come sul dorso di una tigre [cfr. Sul pathos ..] 43. La sua antica paura è sempre lì, minaccia che perdura. Le radici, i primordi, persistono in ogni tempo, sono sempre di nuovo “possibili”[ibid]. L’arcaico è nostro contemporaneo. Senza il dono prometeico dell’opaco sperare, ben poca cosa sarebbe stato e ancora sarebbe quello del fuoco.
Tra il sì e il no
Quest’essere infelice, delicato e transitorio, quest’essere che, soffrendo la nostalgia d’una mancanza, fa di se stesso un’avventura, lo si ritrova in Gehlen. Forte della propria debolezza, l’uomo è un servo costretto a farsi signore: la sua povertà è la sua ricchezza. In questo capovolgimento di condizione – che è poi la condizione propriamente umana – sta l‘esonero o alleggerimento (Entlastung), categoria centrale dell’antropologia filosofica gehleniana.
L’uomo è l’animale non ancora determinato, das noch nicht festgestellte Tier: così scrive Gehlen, citando Nietzsche, L’uomo, la sua natura, il suo posto nel mondo, Feltrinelli, 1983, p. 36]. E lo è a causa d’una carenza biologica, d’un primitivismo organico, d’una fetalizzazione della specie [Antropologia filosofica e teoria dell’azione, p. 111ss]. Nel linguaggio mitico della distribuzione ineguale di qualità agli esseri viventi da parte dell’improvvido Epimeteo si direbbe: a causa d’una mancanza d’armonia e d’equilibrio naturali. Un’antropologia filosofica – una definizione dell’uomo che s’astenga da pregiudizi metafisici – deve dunque avere il proprio punto focale nelle condizioni d’esistenza d’un essere biologicamente improbabile e “mostruoso”, d’un animale impossibile. Dunque: non nelle sue capacità specifiche ma nel suo specifico bisogno.
Come essere manchevole, incompleto, non specializzato, l’uomo non possiede organi né modelli automatici di comportamento (istinti) che gli consentano d’avere un posto nel mondo: ossia, anche solo di conservarsi in vita, di durare nel suo mero esserci. Non ha un ambiente, un’Umwelt: un mondo soggettivo, uno spazio definito dall’armonia tra risorse e bisogni, stimoli e risposte. E in squilibrio drammatico, disancorato e perduto nel milieu, nello spazio del non-umano. In linguaggio figurato: è un errore della natura, un niente nell’essere.
Quest’errore, questo niente è esposto senza difese a uno spazio materiale vorticoso che gli sta attorno. Un caos vorticoso sta però anche dentro di lui, in forma di pulsioni incontrollate, prive dell’ordine e della securizzazione che vengono dall’insieme degli istinti. Dentro di lui, c’è un milieu ostile — e paradossalmente non-umano – come quello che lo circonda. Aggredibile dall’esterno e seducibile dall’interno, è doppiamente in rischio: in ogni momento può sprofondare nel caos che è fuori di lui e nel caos che è in lui.
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