Roberto Petrini, Matematica e Autisme-economie

by gabriella

La crisi economica ha riaperto la questione del rapporto tra matematica ed economia. La teoria mainstream ha fondato l’“equilibrio del sistema” su complesse costruzioni matematiche. Ma è incappata in clamorosi scivoloni: l’economia, infatti, non è una scienza esatta, ma una scienza storico-sociale.

Nel giugno del 2000 un gruppo di studenti di economia pubblicò sul web una petizione. I capi d’accusa che il documento formulava contro il modello di insegnamento dell’economia erano due: a) l’assenza di realismo; b. l’uso incontrollato e fine a se stesso della matematica. Il risultato – scrivevano gli studenti – era che l’economia stava correndo il rischio di diventare una scienza «autistica»: di qui l’esigenza impellente di bloccare questa nefasta tendenza. Da quell’appello nacque un vero e proprio movimento dal nome suggestivo ed evocativo: «Autisme-Economie».

Ma non sono solo gli studenti a denunciare il disagio dell’eccesso di matematizzazione dell’economia: già nel settembre del 1988, in una lettera a “Repubblica”, i maggiori economisti italiani lanciarono un severo ammonimento: “Economisti di varia tendenza e provenienza”, scrissero Paolo Sylos Labini, Giorgio Fuà, Giacomo Becattini, Onorato Castellino, Sergio Ricossa, Siro Lombardini e Orlando D’Alauro,

sentono il dovere di prendere pubblicamente posizione contro un pericolo che insidia gli studi di economia politica” ossia “che l’uso di strumenti raffinati di analisi venga scambiato, a prescindere dai contenuti, per una prova di maturità e competenza professionale o, peggio ancora, per il segno di riconoscimento del moderno studioso di economia politica [G. Becattini, O. Castellino, O. D’Alauro, G. Fuà, S. Lombardini, S. Ricossa, P. Sylos Labini, Lettera al Direttore, “La Repubblica”, 30 settembre 1988]

Anni fa Paolo Sylos Labini puntò l’indice contro le «formalizzazioni astratte, eleganti ma inadatte ad interpretare la realtà» [P. Sylos Labini, Un paese a civiltà limitata (intervista a cura di Roberto Petrini), Laterza, Roma-Bari 2001, p.722]. Giorgio Fuà non si stancava mai di parlare delle «insidie dei numeri». «Grandi maestri del gioco del bridge, grandi maestri del gioco degli scacchi, hanno dimostrato capacità e destrezze straordinarie», diceva Fuà, riecheggiando più o meno le stesse opinioni di Sylos.

Ma un grande scacchista, mi chiedo, migliora il mondo? No, fa semplicemente vedere quanto è intelligente. La maggior parte degli economisti non si occupa di problemi gravi per l’umanità e per la società, ma di cose che danno loro il modo di dimostrare la propria destrezza [Cfr. G. Fuà, Uomini e leader, Centro studi Piero Calamandrei, Jesi 2000 (intervista a cura di Roberto Petrini). Fuà riecheggiava una frase di Richard Kahn].

Nonostante questi moniti, gli economisti hanno continuato ad usare dosi massicce di matematica. Secondo un calcolo svolto qualche tempo fa, l’incidenza dell’algebra negli articoli delle principali riviste, che negli Anni Trenta era del 10 per cento, nel 1980 era salita all’80 per cento. Oggi siamo senz’altro a livelli superiori [S. C. Dow, The use of mathematics in economics, Esrc – Public understanding of mathematics seminar, Birmingham, maggio 1999].

Perché una minoranza assai qualificata di economisti non si stanca di mettere in guardia la disciplina da un uso eccessivo della matematica? In realtà è evidente come lo scetticismo di molti economisti nei confronti dell’“overdose dei numeri” non si basi su una scarsa considerazione della matematica in quanto scienza, dei suoi risultati, o addirittura su una antipatia nei confronti dei matematici. Il problema fondamentale è un altro e sta nell’uso che la scienza economica, a partire dalla fine dell’Ottocento, ha fatto della matematica. Nello specifico – e non a torto – nel mirino c’è il pensiero economico mainstream fautore del libero mercato e particolarmente sedotto dalla matematica.

Come riscostruiscono assai bene ne “La mano invisibile”, Bruna Ingrao e Giorgio Israel [Cfr. B. Ingrao, G.Israel, La mano invisibile, Laterza, Roma-Bari, 1987], la matematica – non la semplice algebra ma quella un po’ più complessa del calcolo infinitesimale, cioè degli assi cartesiani e delle derivate – entra alla grande nell’economia verso la metà dell’Ottocento. Sono i marginalisti – a partire da Léon Walras (1834-1910) – che di fronte ai tumulti sociali e alle teorie dei Marx e dei Proudhon, cercano di offrire una alternativa “scientificamente” fondata dell’economia.

Quale strumento appare più “scientifico” della matematica?  L’idea di base dei marginalisti è che il mondo economico sia regolato dalle leggi di natura e che allo “scienziato”, cioè all’economista, spetti il compito di scoprirle. Al centro del sistema c’è il consumatore, le sue preferenze e il mercato come meccanismo equilibratore tra domanda e offerta. Secondo i marginalisti il prezzo e il valore di un bene non scaturiscono da elementi «oggettivi» come la quantità di lavoro o i costi (come avveniva nell’economia classica), ma si fondano sull’aspetto «soggettivo» del valore d’uso. Il criterio che consente di misurare la «temperatura» delle preferenze del consumatore e del valore d’uso che egli attribuisce ad un bene, è l’utilità marginale che si calcola attraverso una funzione matematica [Cfr. R.Petrini, Processo agli economisti, Chiarelettere, Milano 2009]

Del resto vale la pena notare che il concetto stesso di utilità marginale è stato tenuto a battesimo da un autorevole matematico, Daniel Bernoulli (1700-1782)[7]. Egli assume che la crescita della ricchezza individuale sia accompagnata da una crescita dell’utilità inversamente proporzionale alla ricchezza già posseduta, cioè fa ricorso ad un caso specifico dell’utilità marginale decrescente [rf. A.Roncaglia, La ricchezza delle idee, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 303]

Così descrive il metodo della scuola marginalista Federico Caffè:

secondo l’indirizzo dell’equilibrio economico generale «date certe quantità iniziali di risorse produttive, data una certa tecnica di produzione, dato il sistema di preferenze dei soggetti economici, si mira a determinare la quantità di beni prodotti e scambiati, nonché i prezzi ai quali avvengono gli scambi, in una configurazione di equilibrio generale, nella quale sono realizzate simultaneamente le posizioni di equilibrio verso le quali tendono i vari soggetti economici». Caffè continua spiegando che i seguaci di questo indirizzo «nell’intento di rappresentare in modo simultaneo tutte le interdipendenze tra i fenomeni economici studiati, debbono necessariamente avvalersi del simbolismo matematico, che contraddistingue in modo specifico l’indirizzo stesso» [F. Caffè, Lezioni di politica economica, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p.21].

Naturalmente l’impostazione marginalista-neoclassica, come è stato più volte osservato e sottolineato, ritiene che i lavoratori siano disposti ad accettare qualsiasi salario pur di ottenere un impiego e nega il conflitto distributivo – grande intuizione dell’economia classica – data l’esistenza di equilibri ottimali verso i quali il mercato indirizza automaticamente l’economia.

Tuttavia se si cerca di andare più a fondo nell’analisi del rapporto dell’economia con la matematica si scopre che il tema cruciale è di carattere epistemologico o, se vogliamo, di filosofia della scienza. L’economia, diversamente da altre scienze esatte, deve inevitabilmente interrogarsi sul tipo di razionalità che muove il consumatore, l’imprenditore o il risparmiatore (mentre, ad esempio, la fisica può ignorare la “psicologia” di un elettrone). Il processo dell’economia è una macchina in perenne movimento e gli operatori economici fanno scelte in continuazione: di conseguenza è fondamentale conoscere che percezione abbiano del futuro e come la elaborano. Sapere a quali dinamiche rispondano condizioni come quella della completa ignoranza, dell’incertezza o del semplice rischio.

L’incrocio più profondo dell’economia con la matematica, che con il calcolo delle probabilità ha tentato di dare indicazioni sugli eventi futuri, avviene proprio su questo terreno.

Vale la pena ricordare che per le teorie settecentesche della probabilità, quella classica di Jacques Bernoulli e quella frequentista di Gauss, quanto è accaduto nel passato può ripetersi e la “frequenza” di un avvenimento può darci indicazioni su quanto accadrà nel futuro. In questa cornice il “rischio”, inteso come qualcosa di oggettivo e misurabile, può essere calcolato in termini di probabilità (dadi, estrazioni del lotto, roulette, ecc.).

Negli Anni Trenta del Novecento – con Ramsey e De Finetti – si fa un passo in avanti: non solo il rischio oggettivo diventa calcolabile, ma anche l’incertezza. Quest’ultima viene assimilata al rischio, rendendola trattabile matematicamente attribuendo valutazioni di probabilità a ciascun evento possibile. L’estensione alla teoria economica di questa concezione è stata compiuta da von Neumann e Morgenstern: per costoro ciascun individuo, oltre ad un suo schema di preferenze, ha anche specifiche aspettative sul futuro organizzate in uno schema coerente [Sul tema cfr. A. Roncaglia, Economisti che sbagliano, Laterza, Roma-Bari 2010 e A. Roncaglia, Le origini culturali della crisi, Moneta e credito, vol. 63 n.250 (2010), 107-118].

Come si possono dare indicazioni sul futuro partendo da valutazioni soggettive e non più meramente oggettive? Per riuscire a valutare, oltre al più semplice rischio, anche l’incertezza bisogna prendere in considerazione le previsioni che i soggetti o gli operatori possono fare autonomamente su eventi o prezzi, marcandole sul mercato delle scommesse o, per esempio, sui mercati finanziari. Il “mercato” delle previsioni dei vari soggetti consente di attribuire a ciascun evento un coefficiente di probabilità e rende possibili previsioni su eventi incerti [ibidem].

E’ evidente come l’approccio che conduce ad una certa  prevedibilità degli eventi coincida con l’idea di una forte razionalità degli operatori economici. Perfetta razionalità e perfetta concorrenza presiedono ad un mondo di equilibrio statico dove il bene comune verrebbe assicurato da un regime di liberi mercati concorrenziali grazie all’intervento di una mano invisibile [H.Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p.28] Le variazioni intorno alla situazione “normale” non sono altro – per il mainstream –  che variazioni cicliche intorno ad una condizione “naturale”.

Eppure le ripetute crisi che hanno sconvolto il sistema capitalistico nei due secoli che abbiamo alle spalle dimostrano che l’economia è tutt’altro che stabile e tutt’altro che prevedibile perché gli operatori economici, lungi dal vivere in un mondo di rischio probabilistico calcolabile, vivono in un mondo di disarmante incertezza.

E’ sostanzialmente la tesi di John Maynard Keynes che scrisse un «Trattato sulla probabilità» nel 1931 e che vi iniziò a lavorare fin dalla sua dissertazione per ottenere una fellowship al King’s College di Cambridge nel 1908. Per Keynes – come argomenta Alessandro Roncaglia [A.Roncaglia, Economisti che sbagliano, op. cit.,p.65] – sostanzialmente ci si trova tra uno stato di assoluta ignoranza, ma l’incertezza parziale costituisce la stragrande maggioranza delle situazioni concrete. Il futuro è dunque sempre pieno di sorprese, i periodi di tranquillità non durano in eterno. Nella impostazione di Keynes contano valutazioni soggettive fondate sull’esperienza e intuizioni personali che sono segnate anche dalla fiducia che chi fa una previsione ha nel proprio intuito.

La razionalità degli attori economici e finanziari sembra assai limitata e condizionata anche dall’effetto-gregge ben evidente quando si tenta di intuire la psicologia del mercato.

L’investimento professionale – scrive Keynes – può essere paragonato a quei concorsi dei giornali, nei quali i concorrenti devono scegliere i sei volti più graziosi fra un centinaio di fotografie, e nei quali vince il premio il concorrente che si è più avvicinato, con la sua scelta, alla media fra tutte le risposte; cosicché ciascun concorrente deve scegliere, non quei volti che egli ritenga più graziosi, ma quelli che ritiene più probabile attirino i gusti degli altri concorrenti, i quali a loro volta affrontano tutti quanti il problema dallo stesso punto di vista [J.M.Keynes, Teoria generale, Utet, Torino, 1978, p. 316].

La recente crisi economica, scoppiata nell’estate del 2007 negli Stati Uniti e rimbalzata nel 2009-2012 in Europa, ha riaperto la questione del rapporto tra matematica ed economia. Sostanzialmente sui due fronti ai quali abbiamo accennato: l’equilibrio del sistema e la previsione del futuro. Su entrambi i fronti il pensiero mainstream, che  poggia fortemente su assunzioni di carattere matematico, è incappato in clamorosi scivoloni. Secondo Robert Lucas e la scuola di Chicago – che si espresse nella metà del decennio scorso – il sistema doveva andare incontro ad una Grande Moderazione ma così non è stato. I modelli econometrici Dsge, dynamic stochastic general equilibrium models, che incorporano molto dell’economia mainstream e non considerano il debito, hanno mancato clamorosamente le previsioni. Le equazioni di Merton e Scholes per prevedere l’andamento dei mercati finanziari, basate sostanzialmente sulla regolarità di quanto avvenuto nel passato, non sono servite ad evitare le clamorose perdite dei grandi gestori di capitali.

La cifra del capitalismo sembra sempre di più quella della instabilità: più che compiacersi di una “formula magica” in grado di spiegare definitivamente l’economia bisognerà essere pronti a rimboccarsi le maniche tenendo in debito conto che l’economia non è una scienza esatta ma bensì una scienza storico-sociale.

Intervento tenuto al convegno “Matematica e economia: presente e futuro” (Luspio, Laboratorio di scienze matematiche, Roma 14-15 settembre 2012)

http://temi.repubblica.it/micromega-online/gli-economisti-e-le-%E2%80%9Cformule-magiche%E2%80%9D/

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