Roberto Scarpinato, Resistenza, Costituzione e identità nazionale

by gabriella

In questo articolo, dedicato alla memoria del 25 aprile, Roberto Scarpinato spiega le ragioni per cui un paese culturalmente arretrato come il nostro, si è dato una Costituzione tra le più avanzate al mondo:

[…] se si pone a confronto l’Italia disegnata dalla Costituzione con l’Italietta reale arretrata e provinciale del tempo (il 20 per cento di analfabeti contro l’1 per cento per cento di Germania e Inghilterra, il 3 per cento degli Stati Uniti, il 4 per cento della Francia),con l’Italia che sino a pochi anni prima aveva inneggiato in massa al Duce salvo poi scoprirsi afascista dopo il disastro bellico, si comprende come tra queste due entità vi fosse lo stesso abisso che esiste tra il dover essere e l’essere.La nostra Costituzione superò noi stessi e la nostra storia, fu un gettare il cuore oltre l’ostacolo, indicando un modello da raggiungere: la costruzione di uno Stato democratico di diritto che superava le possibilità etiche delle culture autoctone delle classi dirigenti e delle masse. Questa è la forza ma nello stesso tempo il peccato originale della Costituzione del 1948 e del suo ethos resistenziale: il peccato di non essere in alcune sue parti vitali e strategiche – a differenza delle Costituzioni statunitense e inglese – quella che gli inglesi chiamano la «legge della terra», cioè l’espressione formale della sostanza culturale di un popolo.

La lezione della storia dimostra come le minoranze progressiste in Italia abbiano sempre avuto vita difficile. Condannate nel corso dei secoli al rogo, al carcere, all’abiura, all’esilio e, nel migliore dei casi, al silenzio e all’irrilevanza sociale, hanno svolto un ruolo spesso determinante per l’evoluzione del paese, ma solo grazie a temporanee crisi  di potere delle maggioranze e a contingenti circostanze favorevoli. Così è stato anche per la Resistenza, che ci ha lasciato una preziosissima eredità, la Costituzione, oggi più che mai sotto assedio. Tratto da MicroMega 3/2015 – “Ora e sempre Resistenza” – Almanacco di storia.

 

La storia ‘lunga’ che costruisce l’identità

L’identità di un popolo non si forma nella sua storia breve ma nel corso della sua storia lunga, allo stesso modo in cui l’identità di un individuo non si struttura negli ultimi anni della sua vita, ma si sedimenta nel corso della sua infanzia e della sua adolescenza, affondando segrete radici nella sua biografia transgenerazionale.

La Resistenza e la Costituzione fanno parte, a mio parere, della storia breve del paese, di una parentesi apertasi nel XX secolo a causa di fattori eccezionali, cessati i quali la storia lunga e con essa la «normalità italiana» hanno ripreso lentamente il sopravvento.
A proposito della storia lunga italiana, potremmo dire, in estrema sintesi, che siamo transitati bruscamente dalle culture padronali della premodernità tardo-feudale a quelle neo-padronali della postmodernità, senza avere il tempo di un’assimilazione a livello di massa delle culture della modernità poste a base della costruzione dello Stato liberaldemocratico di diritto (l’illuminismo, il liberalismo, il socialismo riformista) rimaste sempre patrimonio di minoranze quali quelle protagoniste della Resistenza e artefici della Costituzione.

Nel XIX secolo mentre in altri paesi europei il feudalesimo era ormai superato dalle rivoluzioni borghesi che avevano mandato in frantumi il vecchio ordine e le sue strutture culturali, in buona parte dell’Italia era ancora una realtà vivente.

In Sicilia, per esempio, fu abolito ufficialmente solo nel 1812 ma rimase in vita sino alle soglie del XX secolo, come costituzione materiale, come sottostante ordinamento effettuale della realtà. Lo stesso può dirsi per gran parte del Meridione e per gli enormi possedimenti dello Stato pontificio, uno dei più corrotti e peggio amministrati del XIX secolo. I viaggiatori europei restavano incantati delle rovine romane e nello stesso tempo erano esterrefatti perché sembrava di essere proiettati dall’Europa civile in pieno medioevo.

In Piemonte sino al 1789 era ancora vigente la servitù della gleba.
In gran parte d’Italia il rapporto padrone-suddito era la pietra angolare dei rapporti sociali. Tutta la ricchezza era concentrata in un ristretto numero di famiglie; al posto della cultura dei diritti esisteva quella dell’elemosina e del favore, uno statuto della cittadinanza era semplicemente inconcepibile. Società di servi, di padrini e padroni con piccole borghesie e corporazioni artigiane al loro servizio.

Il perdurare nell’inconscio collettivo di tale cultura transgenerazionale sedimentata nei secoli, è testimoniato da alcune significative spie linguistiche. I detti siciliani «baciamo le mani», «voscienza benedica», i detti dell’entroterra veneto «comandi», «servo vostro», ancora largamente diffusi nei ceti popolari, costituiscono l’eco di una millenaria storia di servi e padroni che giunge sino ai nostri giorni, attraversando come un sotterraneo fiume carsico il mutare delle forme dello Stato e dei modi di produzione.

Per un popolo siffatto costituito in massima misura da contadini, condannati all’ignoranza e alla superstizione (la percentuale di analfabeti nell’Italia del 1860 si attestava intorno al 78 per cento raggiungendo nelle isole il 90 per cento), l’unica alternativa possibile appariva quella tra il padrone cattivo e quello buono, immaginato di volta in volta nelle vesti ora del principe illuminato, ora del papa re, ora dell’uomo della provvidenza, ora del duce.

Lo Stato liberale postunitario, primo incipit di Stato moderno in Italia e fragile creatura artificiale di ristrette élite prive, per un verso, di radicamento culturale popolare e, per altro verso, costrette a misurarsi con le soverchianti forze reazionarie interne alla stessa classe dirigente, si rivela solo una breve parentesi temporale, durata meno di un sessantennio, destinata a chiudersi quando il fascismo ripristina quella che da diversi secoli in Europa viene definita

«la mostruosa normalità italiana».

 

Il fascismo

Cesare Borgia

Don Rodrigo

Il fascismo, sostenuto e mantenuto al potere da tutte le principali componenti maggioritarie della classe dirigente nazionale (la monarchia, il Vaticano, gli agrari del Nord, i latifondisti del Sud, la grande industria, l’Accademia culturale), declina sulla scena della modernità del Novecento l’identità culturale ancora tardo-feudale di un ceto padronale che nella sua maggioranza non era riuscito a evolversi da classe dominante in classe dirigente, e che continuava a praticare lo stesso codice della violenza e della sopraffazione da sempre esercitato nei secoli precedenti da intere generazioni di piccoli e grandi Borgia e don Rodrigo: veri prototipi di una significativa componente della classe dominante il cui rapporto irrisolto con la violenza, costantemente utilizzata come strumento di condizionamento della contesa politica, continuerà a segnare ininterrottamente la storia nazionale sino a epoca recente, se è vero, come è vero, che nessuna storia nazionale è segnata, come quella italiana, dalla serie impressionante di stragi e di omicidi politici che dal secondo dopoguerra giunge ininterrottamente sino alle stragi politico-mafiose del 1992 e del 1993.

Per la tesi che andiamo a svolgere è rilevante sottolineare che la violenza fascista non si abbatté solo sui partiti e sui movimenti di sinistra, ma anche sulle minoranze evolute della stessa classe dirigente, come testimonia l’impressionante sequenza di omicidi e pestaggi di tanti esponenti del mondo liberale e di quello cattolico riformista. Per citare solo alcuni tra i tanti, basti ricordare don Giovanni Minzoni, parroco di Argenta (Ferrara), assassinato il 24 agosto 1923, i liberali Giovanni Amendola e Piero Gobetti picchiati selvaggiamente e deceduti per i postumi delle ferite il 20 aprile e il 16 settembre 1926. A Napoli nel gennaio 1926 viene assaltata la casa di Benedetto Croce, in lunigiana quella di Carlo Sforza, già ministro degli Esteri dal 1920 al 1921, a Cagliari viene aggredito il repubblicano Emilio Lussu. Il 12 dicembre viene arrestato Ferruccio Parri, leader del Partito d’Azione.

La lezione della storia dimostra come le minoranze progressiste in Italia abbiano sempre avuto vita difficile. Condannate nel corso dei secoli al rogo, al carcere, all’abiura, all’esilio e, nel migliore dei casi, al silenzio e all’irrilevanza sociale, hanno svolto un ruolo spesso determinante per l’evoluzione del paese, ma solo grazie a temporanee crisi di potere delle maggioranze e a contingenti circostanze favorevoli, dovute per lo più a fattori internazionali.

Benito Mussolini

fascismo come declinazione della «mostruosa normalità italiana», non a caso Piero Gobetti lo definì come l’autobiografia di una nazione, in contrapposizione a Benedetto Croce il quale, invece, lo aveva liquidato come uno «smarrimento» del popolo italiano da circoscrivere nella parentesi del Ventennio.

Dal mio punto di vista, il dato saliente che va meditato per la tesi che vado svolgendo, non è tanto il sostegno al fascismo di tutte le variegate componenti maggioritarie dei ceti dominanti, ma la spontanea adesione di massa anche degli strati popolari, perché qui, mi pare, risiede un’ineludibile chiave di lettura per comprendere anche le dinamiche politico-istituzionali del tempo che stiamo vivendo.

Non può essere dimenticato che nelle elezioni politiche che si tennero nell’aprile del 1924 il Partito fascista ebbe quattro milioni e mezzo di voti, pari al 65 per cento dell’elettorato, mentre tutti i partiti non fascisti ottennero due milioni e mezzo di voti. Nonostante le elezioni si fossero svolte in un clima di intimidazione, gli storici concordano nel ritenere che l’adesione di massa al fascismo fu in larga misura spontanea e proseguì anche negli anni seguenti, iniziando a venir meno solo a seguito dell’approvazione delle leggi di discriminazione razziale e del precipitare disastroso dell’avventura bellica. La parte più consistente di adesione popolare è stata individuata nel mondo contadino e nella piccola borghesia.

Ciò non desta meraviglia se si considera che il mondo contadino, condannato all’ignoranza e alla superstizione, era da secoli plagiato dalla cultura oscurantista clericale, ostile allo Stato liberale, imperniata sull’etica dell’obbedienza al superiore (perinde ac cadaver secondo il motto dei gesuiti), sulla delega della gestione del proprio destino individuale e collettivo all’autorità. Autorità che, secondo la cosiddetta teoria discendente del potere, discendeva da Dio il quale ne investiva il papa, suo rappresentante in terra, che, a sua volta, ne investiva il sovrano, gestore del potere temporale.

Pio XI, papa dal 1922 al 1939

Il sovrano dunque era l’uomo della provvidenza, così come papa Pio XI definì Mussolini alla cui definitiva affermazione contribuì in modo significativo ritirando l’appoggio della Chiesa al Partito popolare italiano e al suo battagliero capo, don Sturzo, esponente del cattolicesimo democratico, costretto all’esilio in Inghilterra per ventidue anni.

E ancora nel mondo inferiore dei «voscienza benedica», dei «servo vostro», la secolare sudditanza psicologica nei confronti degli appartenenti ai mondi superiori era tale da consegnare spontaneamente a questi ultimi le chiavi del voto. Quanto alla media e piccola borghesia – seconda componente dell’adesione popolare al fascismo – basti ricordare il seguente illuminante passo degli Scritti corsari di Pasolini:

Piccola borghesia e mondo contadino religioso erano fino a ieri un mondo unico. La piccola borghesia italiana era ancora sostanzialmente contadina e, dal canto loro, i contadini (come diceva Lenin) sono dei piccoli borghesi, almeno potenzialmente. La morale era unica; e così la retorica. Malgrado la grande varietà delle «culture» italiane […] sostanzialmente i «valori» del mondo piccolo-borghese e contadino coincidevano 1.

Possiamo aggiungere che, a parte la componente di neo-borghesia italiana che usciva dai lombi del mondo contadino, vi era poi quella proveniente dai rami cadetti dell’aristocrazia di cui condivideva l’ethos padronale, e quella professionale, cresciuta all’ombra e al servizio dell’aristocrazia terriera, di cui scimmiottava i vizi e i vezzi.

Leonardo Sciascia

I romanzi I viceré e L’imperio di Federico De Roberto nonché Gli indifferenti di Moravia, lumeggiano il segreto ritratto di Dorian Gray di questa significativa componente della borghesia nazionale, impastata di una risalente cultura clerico-fascista che sfida i secoli e che nelle varie epoche storiche si declina in modi più o meno appariscenti giungendo sino ai nostri giorni.
Ancora alla fine degli anni Settanta, Leonardo Sciascia, tra i più acuti indagatori dell’identità nazionale, sottolineava come l’eterno fascismo italiano rimanesse una componente prepolitica del genoma culturale italiano transgenerazionale:

La mia sensibilità al fascismo continua a essere forte, lo riconosco ovunque e in ogni luogo, perfino quando riveste i panni dell’antifascismo, e resto sensibile all’eternamente possibile fascismo italiano. […] E le dirò questa – per me terribile verità: ancora oggi credo che una buona parte degli italiani (di destra, di sinistra, di centro) vivrebbe nel fascismo come dentro la propria pelle. Magari dentro un fascismo meno coreografico, con meno riti, con meno parole: ma fascismo. Un regime che non dia la preoccupazione di pensare, di valutare, di scegliere… 2.

 

Quella minoranza illuminata che scrisse la Costituzione

La firma della Costituzione

Sulla base di tali premesse, si pone a questo punto una domanda a mio parere ineludibile. Come è possibile che un popolo con tale storia alle spalle, abbia potuto esprimere e darsi una Costituzione, quale quella del 1948, che, per unanime riconoscimento internazionale, costituisce uno dei massimi vertici della cultura mondiale dello Stato democratico di diritto?
Posso riassumere la risposta che mi sono dato nei seguenti termini.

La Costituzione del 1948 (così come era già avvenuto con lo Stato liberale del 1860), non fu affatto espressione della maggioranza dell’Italia reale nella sua duplice componente padronale e popolare, ma di alcune minoranze.

A seguito della sconfitta della seconda guerra mondiale e al crollo momentaneo della vecchia classe dirigente fascista, mentre il paese è allo sbando, si apre nel dopoguerra uno spazio provvisorio – un «altrove» – che, sospendendo la «normalità» italiana e risalenti rapporti di forza, assegna il timone del comando a ristrette élite culturali: gli uomini della Resistenza tra i quali militano i migliori esponenti della cultura liberale, quelli del riformismo cattolico, del socialismo liberale, del Partito azionista, di un Partito comunista emancipatosi, dopo la svolta togliattiana di Salerno, dal radicalismo classista antisistema. Tutti costoro confluiscono nei quadri direttivi del Cln (Comitato di liberazione nazionale) che selezionano le candidature dei deputati della Costituente, le quali riceveranno poi una ratifica popolare nelle elezioni svoltesi a scrutinio di lista e a rappresentanza proporzionale. È, nella sostanza, un meccanismo di cooptazione elitaria in una fase in cui ancora i partiti di massa sono virtuali o allo stato embrionale. L’alchimia della storia trasforma dunque un’avanguardia culturale in maggioranza politica.

La Commissione dei 75 incaricata di redigere il «precipitato» giuridico della Costituzione e il gruppo dei professori che la supportava sono una sorta di empireo culturale e di aristocrazia etica, figlia della Resistenza, distante anni luce dalla reale identità culturale delle masse del paese e della stessa maggioranza delle sue classi dirigenti.

I componenti della Commissione trasfondono nel testo costituzionale culture elitarie di avanguardia quali la rivisitazione del pensiero liberale operata da Gobetti sul versante politico e da Einaudi su quello economico, il socialismo liberale delineato da Carlo Rosselli, non prigioniero della nozione di classe ma aperto alla democrazia politica, la rivisitazione del pensiero comunista operata da Gramsci che mirava a promuovere i lavoratori del proletariato industriale a rango di nuova classe dirigente senza introdurre né la dittatura del proletariato né la dittatura leninista del partito sulla società, mediante il superamento dello storico conflitto tra gli intellettuali e il mondo della produzione.

Per quel che riguardava i cattolici, vengono messe da parte le culture controriformistiche quali l’antimodernismo di Pio X e il neotomismo dell’enciclica di Leone XIII Aeterni pacis che avevano isolato la maggioranza dei cattolici dallo sviluppo del pensiero moderno, e prendono il sopravvento idee guida tratte dal cattolicesimo sociale di Luigi Sturzo, dall’umanesimo cristiano di Jacques Maritain e dal personalismo di Emmanuel Mounier, veicolate queste ultime da alcuni docenti dell’Università cattolica chiamati a collaborare con i componenti della commissione.

Piero Calamandrei

Un ruolo importante nell’elaborazione del testo costituzionale svolge il pensiero azionista, rappresentato da giganti come il giurista Piero Calamandrei, esponente di una corrente culturale talmente minoritaria nel paese da scomparire dalla scena politica dopo la chiusura della parentesi costituzionale.

Il comune ethos resistenziale antifascista dei padri costituenti, tanti dei quali avevano militato tra i partigiani, costituisce la Grundnorm sottostante la Costituzione. Essi infatti pur discordi nelle ideologie, furono comunque concordi nel rifiuto del sistema fascista e nell’introdurre nella Costituzione i valori diffusi e condivisi dell’uguaglianza e della giustizia, guardando ai problemi dell’organizzazione dello Stato con l’animo di uomini dell’opposizione, non ancora con l’animo di uomini di potere, anche perché quello era un momento della storia in cui nessuno poteva prevedere chi nella successiva evoluzione politica avrebbe preso il potere.

In effetti, dal mio punto di vista la Grundnorm in parola, più che sottostante alla Costituzione, era soprastante, considerata la sua natura elitaria.

Se si pone a confronto l’Italia disegnata dalla Costituzione con l’Italietta reale arretrata e provinciale del tempo (il 20 per cento di analfabeti contro l’1 per cento per cento di Germania e Inghilterra, il 3 per cento degli Stati Uniti, il 4 per cento della Francia), con l’Italia che sino a pochi anni prima aveva inneggiato in massa al Duce salvo poi scoprirsi afascista dopo il disastro bellico, si comprende come tra queste due entità vi fosse lo stesso abisso che esiste tra il dover essere e l’essere. La nostra Costituzione superò noi stessi e la nostra storia, fu un gettare il cuore oltre l’ostacolo, indicando un modello da raggiungere: la costruzione di uno Stato democratico di diritto che superava le possibilità etiche delle culture autoctone delle classi dirigenti e delle masse. Questa è la forza ma nello stesso tempo il peccato originale della Costituzione del 1948 e del suo ethos resistenziale: il peccato di non essere in alcune sue parti vitali e strategiche – a differenza delle Costituzioni statunitense e inglese – quella che gli inglesi chiamano la «legge della terra», cioè l’espressione formale della sostanza culturale di un popolo.

La forza della Costituzione degli Stati Uniti, primo modello di tutto il costituzionalismo scritto liberale moderno, si fondava proprio nella sua storicità: nel suo corrispondere cioè alle strutture reali del paese, nella sua capacità di ricomporre, dopo la rivoluzione, un sistema di poteri e di garanzie non troppo dissimile da quello che si era già delineato, attraverso una lunga esperienza, nella vita del paese prima della rivoluzione. L’esperienza britannica, a cui quella americana aveva attinto, era a sua volta tutta empirica, nata da un secolare sforzo per utilizzare, senza distruggerle, le strutture e le garanzie del pluralismo medievale, nel quadro del risorgente Stato accentrato e unitario.

Il costituente italiano invece crea l’organizzazione di un ordinato sistema di pubblici poteri e di libertà politiche, operando sopra basi puramente razionali, in un paese che aveva veduto le sue istituzioni dapprima erose da un lento processo storico (ad esempio le autonomie comunali un tempo gloriose erano degradate a pure circoscrizioni amministrative già prima del Risorgimento), poi brutalizzate dalla dittatura, infine annientate dalla sconfitta. Per questo motivo, i valori liberali incorporati nella raffinata ingegneria della divisione bilanciata dei poteri in quanto condivisi solo da minoranze e non riflettendo i sistemi normativi di fatto dei gruppi di potere dominanti, si rivelano in buona misura inidonei a calarsi nell’esperienza e a svolgere una funzione di ordinamento effettivo della realtà sociale.

 

La Costituzione sulla carta e nella realtà

Proprio perché la Costituzione del 1948 non rispecchiava la costituzione materiale del paese e non era espressione (almeno in alcune sue parti fondamentali concernenti l’organizzazione dello Stato 3) delle autentiche culture illiberali e antidemocratiche delle maggioranze, avrà vita difficile nei decenni successivi.

Chiusasi la parentesi costituzionale, con le elezioni del 1948 si ristabiliscono in buona misura i vecchi rapporti di forza, rinsaldati e rilegittimati dai nuovi equilibri geopolitici mondiali determinati dalla dottrina Truman che inaugura la lunga stagione della guerra fredda. Inizia così una sotterranea e strisciante restaurazione che si declina anche in una serie di tentativi, spesso riusciti, di devitalizzare, aggirare, svuotare la Costituzione riducendola a mero libro dei sogni. Il breve spazio di questo intervento non consente di inventariare le mille strategie seguite al riguardo. Dalle sentenze delle Cassazione che qualificarono le norme costituzionali come meramente programmatiche e non precettive (cioè non vincolanti), alla pratica delle circolari ministeriali, pedissequamente seguite dai capi degli uffici e dai vertici amministrativi, che con atti di normazione secondaria ponevano nel nulla le leggi ordinarie e le stesse norme costituzionali, ai ritardi nell’istituire il Consiglio superiore della magistratura e la Corte costituzionale, sino al trionfo della partitocrazia che, concentrando nei vertici dei partiti di maggioranza quasi tutte le leve dello Stato, comprometteva lo stesso sistema costituzionale di reciproci bilanciamenti e controlli tra i poteri.

Nonostante tali limiti, la Costituzione del 1948 non è rimasta solo un libro dei sogni e in alcune sue parti vitali si è trasformata in diritto vivente, costituendo uno straordinario lievito di crescita per l’intero paese. Tuttavia ciò in larga misura non è avvenuto per un fisiologico e indolore processo, ma anche grazie ad aspri conflitti sociali, talora sanguinosi e costati centinaia di vite umane, e grazie all’esistenza di alcuni contingenti fattori macrosistemici che in passato hanno messo in sicurezza la Costituzione, sottraendola ai tentativi di snaturamento da parte delle maggioranze.

Portella della Ginestra, 1° maggio 1947

Il primo fattore è stato l’equilibrio armato imposto dal bipolarismo internazionale. La guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica e la divisione geopolitica del mondo hanno imposto una camicia di forza alla storia italiana, imbottigliando la dialettica politica della Prima repubblica entro una ristretta banda di oscillazione. I comunisti non potevano andare al potere, ma, di converso, neanche era possibile in Italia realizzare un colpo di Stato come quello dei colonnelli in Grecia.

Strage di Bologna, 2 agosto 1980

Il sovversivismo della componente più reazionaria della classe dirigente (come lo aveva definito Gramsci) – che si nutriva dell’alibi dell’anticomunismo – non potendo erompere liberamente è così costretto a implodere in progetti di colpi di Stato poi obbligati a rientrare, in omicidi politici chirurgici, nella guerra civile a bassa intensità della strategia della tensione, spesso coperta da apparati dello Stato (vedasi, ad esempio, il caso esemplare della strage di Portella della Ginestra, che inaugura la strategia della tensione il 1° maggio 1947 e le sentenze definitive di condanna di esponenti dei servizi segreti per avere depistato le indagini sulla strage di Bologna, nonché gli altri episodi di depistaggi accertati in sede giudiziaria).

Licio Gelli

Nonostante l’altissimo prezzo di sangue, la Costituzione si è salvata dal pericolo di colpi di Stato restauratori perché una soluzione autoritaria avrebbe potuto scatenare un conflitto internazionale tra le due superpotenze. Il tentativo di svuotamento della Costituzione prenderà allora la strada della piduizzazione dello Stato, cioè della privatizzazione dei processi decisionali all’interno dei circoli dei grandi «decisori», trasversalmente appartenenti ai poteri forti del paese.

Il secondo fattore che ha messo in sicurezza la Costituzione e l’ha preservata durante la Prima repubblica, è stata l’esistenza in Italia di una delle classi operaie più forti e politicizzate dell’Occidente. Tutta la vita politica della Prima repubblica è stata caratterizzata dal pericolo del sorpasso a sinistra.

Le componenti più conservatrici della classe dirigente dovevano autolimitarsi e venire a patti, essendo costrette a misurarsi con la realtà sociale e politica del più forte Partito comunista europeo e, soprattutto, di una classe operaia che aspirava a divenire classe generale e ad assumere la direzione dello Stato, mediante alleanze strategiche con il mondo riformista cattolico e la parte più evoluta della società civile.

Il terzo fattore che ha messo in sicurezza la Costituzione, è stata la creazione da parte dei padri costituenti di alcune cellule salvavita e di alcune enclave istituzionali in grado di disinnescare i possibili revisionismi autoritari da parte delle maggioranze contingenti del paese.

Il procedimento di revisione costituzionale di cui all’articolo 138 prevede un doppio passaggio parlamentare con la maggioranza di due terzi del parlamento. Nel caso in cui si raggiunga solo la maggioranza assoluta, occorre un referendum confermativo popolare. L’articolo 139 sottrae comunque alle maggioranze, anche quelle qualificate di due terzi, la possibilità di revisione della forma repubblicana dello Stato.

Quanto alle enclave istituzionali, la Corte costituzionale viene costituita con modalità tali da consentirle di poter operare come variabile indipendente rispetto agli equilibri politici delle maggioranze. Le garanzie di indipendenza e di autonomia assegnate poi alla magistratura ordinaria la sottraggono al pericolo di condizionamenti politici di vertice nel sollevare eccezioni di incostituzionalità delle leggi, raccordandola dal basso con la Corte costituzionale. Grazie a tale particolare habitat istituzionale, si rende possibile che le minoranze, le élite culturali che hanno assimilato in profondità i valori dello Stato democratico di diritto, possano svolgere una funzione di resistenza contro i possibili tentativi di restaurazione e di svuotamento della Costituzione da parte delle maggioranze.

 

L’assedio alla Costituzione dopo la fine della guerra fredda

Oggi sono venuti meno i fattori che avevano messo in sicurezza la Costituzione. La fine del bipolarismo internazionale, ha restituito il paese a se stesso e alle dinamiche spontanee della sua storia lunga che, non a caso, riprende dal punto in cui era stata interrotta prima che si aprisse la parentesi costituzionale, e cioè dall’epoca precostituzionale. Inoltre la globalizzazione e il passaggio all’economia postindustriale hanno determinato l’irrilevanza sociale della classe operaia.

La scomparsa di questo soggetto collettivo della storia non è stata una perdita solo per la sinistra, ma per tutta la democrazia, perché la classe operaia operava come virtuale catalizzatore politico generale delle masse e baricentro di tutto il sistema politico, costretto a ruotare intorno a questo asse. Lo stesso Partito popolare di don Sturzo, poi trasformatosi nella Democrazia cristiana, nacque dall’esigenza di sottrarre le masse popolari alla sirena dei partiti di sinistra, costruendo un possibile polo politico riformista alternativo.

La smobilitazione di questo soggetto collettivo è equivalsa tout court alla smobilitazione delle masse popolari e alla perdita di un baricentro per le componenti più evolute della nazione.

La sua sopravvenuta irrilevanza politica ha trascinato nella disfatta anche il ceto medio che, nel nuovo gioco di forze messosi in moto a livello mondiale dopo il 1989, si rivela sempre più un gigante sociale dai piedi di argilla in quanto il suo peso politico non derivava dalla consistenza numerica, ma dal suo essere l’ago della bilancia nel braccio di ferro tra le forze sociali del capitalismo e della classe operaia che sino ad allora si erano contrapposte in un rapporto di equipotenza.

Gli eventi verificatisi nel terzo millennio nello sconvolgere i rapporti di forza preesistenti hanno creato quindi le condizioni per sciogliere il coatto matrimonio di interessi tra il liberalismo e la democrazia, fondamento dello Stato costituzionale di diritto liberaldemocratico, dando vita a un divorzio non consensuale.

I politologi riassumono questo evento assumendo che la democrazia è divenuta superflua, nel senso che sono venute meno le ragioni che imponevano al padronato e al sistema capitalistico di accettare per realismo politico i limiti al proprio libero sviluppo e i costi economici imposti dalla camicia di forza della democrazia. Le masse sono tornate a essere, così come erano sempre state nel tardo-feudalesimo, soggetto passivo della storia, manipolabile dall’alto.

I nuovi rapporti di forza hanno dato avvio a una complessa opera di reingegnerizzazione del potere che si declina sia a livello sopranazionale sia a livello nazionale mediante una strisciante decostituzionalizzazione e ricostituzionalizzazione.

Tralasciando il piano internazionale, che richiederebbe un’approfondita trattazione a parte per la sua estrema rilevanza 4, e limitandoci solo alla vicenda nazionale, la Costituzione è divenuta un vaso di coccio tra i vasi di ferro delle maggioranze che da anni ormai puntano a modificarla, a svuotarla con progetti di riforma, leggi ordinarie ma di sostanza costituzionale, prassi politiche. Ormai la sua salvaguardia sembra rimanere affidata solo ad alcune élite culturali e a minoranze popolari, eredi di quelle che la crearono. Basti considerare come quest’ultimo quarto di secolo sia stato caratterizzato da un ininterrotto susseguirsi di leggi e di iniziative politiche volte a scardinare alcuni princìpi fondamentali della Costituzione.

Se si esamina con uno sguardo di insieme la giurisprudenza della Corte costituzionale di questo periodo temporale, si avverte il senso di una pericolosa mutazione.

Mentre in passato la Corte si limitava a intervenire per censurare episodiche cadute del legislatore ordinario, negli ultimi anni la Corte è stata investita da un vero e proprio volume di fuoco di leggi incostituzionali, espressione nel loro insieme di una profonda mutazione culturale di larghe componenti del ceto politico che non si riconoscono più nel patto sociale insito nella Costituzione e che pressano dunque per modificarlo. La giurisprudenza costituzionale è divenuta l’ultima Maginot di difesa dello Stato democratico di diritto a fronte dei mutati rapporti di forza.

Non è dunque un caso che, fatto inedito nella storia repubblicana precedente, anche la Corte costituzionale sia stata attinta dallo stesso tentativo di delegittimazione (sino a essere definita «covo di comunisti») che nell’ultimo ventennio ha preso di petto la magistratura ordinaria ritenuta, a causa del suo statuto di indipendenza garantito dalla Costituzione, una pericolosa variabile fuori controllo, insensibile all’esigenza di farsi carico delle nuove compatibilità sistemiche e di quella che autorevoli vertici istituzionali hanno definito la «legalità sostenibile».

Una declinazione emblematica del disallineamento ormai consumato tra maggioranze trasversali del ceto politico e Costituzione si è registrato sul terreno strategico della legge elettorale che ha privato gli elettori della possibilità di esprimere un voto di preferenza in occasione delle consultazioni elettorali, trasformando così il parlamento in un’assemblea di nominati da ristrette oligarchie di vertice arroccate nell’esecutivo. Sebbene la Corte costituzionale ne abbia sancito l’incostituzionalità per violazione del principio cardine della sovranità popolare, la legge, come è noto, è stata sostanzialmente riproposta negli stessi termini da maggioranze parlamentari trasversali elette con una legge incostituzionale e che, invece di limitarsi a una gestione degli affari urgenti e a indire nuove elezioni, stanno mettendo a punto, anche mediante il combinato disposto della legge elettorale e la modifica della composizione e del ruolo del Senato, la transizione dalla democrazia della rappresentanza a quella dell’investitura imperniata sul depotenziamento degli istituti della rappresentanza e sulla verticalizzazione oligarchica del potere istituzionale.

Quel che appare significativo è che la mancata interiorizzazione dei valori costituzionali appare trasversale alle maggioranze interne ai due schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra, anche se si manifesta con modalità diverse. Quanto al primo schieramento non è il caso di dilungarsi, essendo stata per lungo periodo sotto gli occhi di tutti. Si pensi, per ricordare solo le manifestazioni più appariscenti, al rifiuto di alcuni vertici, prolungato negli anni, di partecipare alle celebrazioni della Resistenza da cui nacque la Costituzione e alla demonizzazione della Costituzione come «comunista» o «vecchia».

Quanto al secondo schieramento, si consideri la sperimentata disponibilità di tanti autorevoli esponenti di vertice del centro-sinistra a considerare i princìpi costituzionali, i princìpi attinenti all’essenza dello Stato, non come inderogabili, ma come possibile merce di scambio all’interno di ordinarie negoziazioni politiche contingenti. Su un piatto della bilancia i princìpi fondanti dello Stato e della democrazia, sull’altro contropartite utili al galleggiamento della maggioranza o al conseguimento di obiettivi politici del momento ritenuti prioritari.

Emblematiche di questa svalutazione dei princìpi fondanti dello Stato di diritto, sono state, ad esempio, le vicende che riguardano la ponderata decisione di non regolare, durante i governi di centro-sinistra, il conflitto di interessi e l’assetto televisivo pubblico e privato che, per ovvi motivi, incidono sul modo di essere dello Stato e della democrazia. Basti considerare che la risoluzione del conflitto di interessi – realizzata mediante la separazione del patrimonio personale del sovrano da quello della collettività – è all’origine della fondazione dello Stato moderno in Europa.

Il breve spazio di questo articolo non consente neppure di accennare agli infiniti segnali di questa indifferenza ai valori costituzionali di significative componenti del centro-sinistra: dal lapsus, subito rilevato dagli organi di stampa, della mancata citazione della Costituzione nel manifesto con il quale alla fine del 2006 il nascente Partito democratico declinava la propria identità politico-culturale, all’elaborazione della famosa bozza Boato nella Commissione bicamerale per le riforme del 1997 (rispetto alla quale le bozze di scarto dei costituenti dell’Italia del 1948 sembrano capolavori inarrivabili di cultura democratico-liberale) alla corresponsabilità nell’emanazione di tante leggi definite dalla stampa ad personas e ad castam, sino ai più recenti progetti di riforma da realizzarsi con leggi costituzionali oppure con leggi ordinarie ma di sostanza costituzionale.

Quel che appare interessante è la straordinaria coerenza culturale che, come un unico filo rosso, inanella la sequenza di iniziative politiche, di prassi istituzionali, di leggi che dalla fine della Prima repubblica stanno occultamente disfacendo la tela della Costituzione del 1948, tessendo la trama di una ristrutturazione in senso neoautoritario dello Stato e della democrazia, più aderente alla costituzione materiale del paese, o – se si preferisce – all’identità culturale delle sue maggioranze.

Quello a cui stiamo assistendo appare, a mio parere, come una straordinaria reviviscenza di radicati codici culturali premoderni tipicamente nazionali: un passaggio dalla modernità di uno Stato di diritto imperniato sul primato del potere impersonale della legge uguale per tutti, alla premodernità di un potere – quale era quello tardo-feudale – di tipo oligarchico, signorile, svincolato da controlli e non sottoposto a controbilanciamenti.

Così dalla separazione e dal bilanciamento dei poteri, si sta tentando di tornare alla concentrazione verticale del potere di tipo monarchico nella moderna forma di un sostanziale premierato assoluto. Il neofeudalesimo italiano affollato di tanti vassalli alla ricerca del loro principe, di tanti sudditi contenti di esserlo, di tanti intellettuali la cui massima aspirazione è di divenire il consigliori del principe di turno, sembra essere una riedizione della storia più vera e autentica del paese.

Tale visibile opera di decostituzionalizzazione dal basso, cioè dall’interno della nazione, interseca, come accennato, il contemporaneo processo di oligarchizzazione del potere in atto a livello sovranazionale che sta dislocando le sedi decisionali strategiche dalle istituzioni rappresentative degli Stati nazionali, sempre più ridotte a gusci vuoti, in istituzioni prive di rappresentatività popolare come la trojka (Bce, Commissione europea, Fondo monetario internazionale), espressioni del capitalismo sovranazionale e veicoli del pensiero unico liberista, che cooptano nel circolo dei grandi decisori vertici governativi sganciati dal peso e dall’onere della rappresentanza in nome di una governabilità supina ai diktat dei mercati.

 

Serve una nuova minoranza illuminata per salvare la Costituzione

Che fare dinanzi a tutto ciò? Chi salverà questo paese da se stesso?
La lezione della storia dimostra come in alcuni frangenti cruciali il paese non sia stato salvato dalle sue maggioranze, ma dalle sue minoranze. Sono state le minoranze che hanno fatto il Risorgimento, trasformando un popolo di tribù in una nazione. Sono state le minoranze che hanno fatto la Resistenza e hanno concepito la Costituzione. E sono le minoranze quelle a cui oggi sembra essere affidata la difesa della Costituzione.

La difesa della Costituzione resta l’ultima spiaggia, il terreno elettivo della nuova Resistenza. Sino a quando resterà in vita, sapremo sempre da dove ricominciare. Sarà sempre possibile fare cancellare dalla Corte costituzionale l’ennesima legge illiberale e antidemocratica che uno schieramento politico approva e l’altro schieramento tiene in vita. La Costituzione italiana va non solo difesa ma anzi rilanciata perché, proprio per i valori liberal-democratici di cui è intessuta e per il suo impianto complessivo antioligarchico di derivazione resistenziale, indica la direzione di marcia verso la quale occorre muoversi per un progetto politico di più ampio respiro che valichi i confini nazionali e si proietti nello spazio macropolitico europeo, oggi egemonizzato dal pensiero unico mercatista e neoliberista.

È urgente una riappropriazione di questo spazio da parte di una rete di movimenti liberal-democratici intereuropei che superando le barriere nazionali dia impulso a un nuovo costituzionalismo che democratizzi l’Unione europea, rivitalizzando la centralità strategica del suo parlamento, realizzando al suo interno una divisione e un bilanciamento dei poteri oggi inesistente, rendendo trasparenti e soggette al controllo popolare procedure decisionali oggi opache ed elitarie. Un nuovo costituzionalismo europeo che, in sostanza, restituisca ai popoli il bastone del comando oggi saldamente in mano a ristrette oligarchie che spacciano come neutre soluzioni tecniche prive di alternativa, decisioni invece ad altissimo coefficiente politico ed espressioni di un’ideologia mercatista a senso unico, snaturando così l’originario progetto di un’Europa dei popoli.

Salvare la Costituzione significa dunque salvare la parte migliore della nostra storia e gettare un ponte verso il futuro.
Se è vero che oggi la difesa della Costituzione resta affidata alle minoranze, ciò non deve scoraggiare. Gli storici e gli analisti del potere sanno bene che la storia non è fatta dalle maggioranze disorganizzate, né dalle oligarchie paralitiche. La storia – insegnava un maestro di democrazia quale era Gaetano Salvemini – è fatta dalla dialettica e dallo scontro tra minoranze organizzate, consapevoli e attive che, vincendo le inerzie della maggioranza disorganizzata, la trascinano in una direzione o in un’altra, verso un nuovo o un vecchio ordine.

La celebrazione dell’anniversario della Resistenza è l’occasione per ricordare a noi stessi che la parte migliore della nostra storia – quella iniziata con la Costituzione del 1948 e alla quale si vorrebbe porre oggi fine – è stata appunto il lascito delle minoranze eroiche che sacrificarono la propria vita perché un popolo sino ad allora di servi e di padroni si trasformasse in una comunità di cittadini che – come recita l’articolo 3 –

«hanno pari dignità sociale e sono uguali dinanzi alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni, di condizioni personali e sociali».

Mi sembra che il modo migliore per concludere questo mio breve intervento, sia di ricordare le parole pronunciate in loro memoria da Piero Calamandrei nella seduta dei lavori della Costituente del 7 marzo 1947:

Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo a uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità.

Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono i nostri morti. Non dobbiamo tradirli.

 

 

Note

1) P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1990, p. 94.

2) L. Sciascia, intervistato da Marcelle Padovani, La Sicilia come metafora, Mondadori, Milano 1979, pp. 7 e 85.

3) Si consideri, ad esempio, la parte dedicata alla magistratura della quale viene garantita l’indipendenza e l’autonomia dal potere politico, segnando una frattura storica rispetto al passato. La nuova disciplina costituzionale, pietra angolare della costruzione dello Stato democratico di diritto, opera una rivoluzione culturale copernicana, mai assimilata dal ceto politico nei decenni successivi, del rapporto tra politica e legge. La legge ordinaria espressione della volontà politica delle maggioranze contingenti non è più sovrana. Stante il carattere rigido della Costituzione è sottoposta al vaglio della magistratura per verificarne la sua conformità alla legalità costituzionale.

4) Per un approfondimento di tale profilo, rinvio al mio «La legalità materiale ovvero il tramonto di una nazione», MicroMega, n. 7/2014.

(25 aprile 2017)

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