Rodolfo Ricci, Italia, ratificato il Fiscal Compact. Ora non ci resta che uscire dall’euro

by gabriella

Nel più ampio silenzio mediatico che si sia mai registrato (assenza di servizi radiotelevisivi pressoché totale, autocensura  della quasi totalità dei giornali), la Camera dei Deputati ha ratificato oggi, con grande zelo e senza alcun dibattito significativo, con l’opposizione di 65 parlamentari di Italia dei Valori e Lega e con l’astensione di altri 65 parlamentari, il cosiddetto “Fiscal Compact”, che entrerà in vigore il prossimo gennaio a condizione che almeno 12 paesi lo abbiano ratificato (al momento erano solo 9, Cipro, Danimarca, Grecia, Irlanda, Lituania, Lettonia, Portogallo, Romania e Slovenia).

L’Italia è quindi il decimo paese. Come si vede non ci sono ancora né Francia, né Germania, paese in cui la Corte Costituzionale si è riservata di emettere, entro Settembre, la propria sentenza sulla compatibilità o meno con la Grundgesetzt (Legge fondamentale). Il «fiscal compact» prevede infatti, come punti centrali, “l’impegno delle parti contraenti ad applicare e ad introdurre, entro un anno dall’entrata in vigore del trattato, con norme costituzionali o di rango equivalente, la ‘regola aurea’ per cui il bilancio dello Stato deve essere in pareggio o in attivo”, provvedimento che limita definitivamente e rende permanente, almeno per i prossimi 20 anni, la sovranità dei singoli paesi che lo accettano, in materia di politica economica e sociale.

“Qualora il rapporto debito pubblico/Pil superi la misura del 60%, (in Italia siamo al 120% nda) le parti contraenti si impegnano a ridurlo mediamente di 1/20 all’anno per la parte eccedente tale misura”. “Qualsiasi parte contraente che consideri un’altra parte contraente inadempiente rispetto agli obblighi stabiliti dal patto di bilancio può adire la Corte di giustizia dell’Ue, anche in assenza di un rapporto di valutazione della Commissione europea”.

Il meccanismo significa per il nostro paese la definitiva cancellazione di ogni ipotesi di ruolo pubblico nello sviluppo (già peraltro ottenuto con la recente l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione), ma soprattutto obbliga al rientro del 50% dell’ammontare complessivo del debito pubblico che eccede il 60% del PIL.

Attualmente il nostro debito è pari ad oltre 1.900 miliardi Euro e raggiungerà entro fine 2012/inizio 2013, i 2.000 miliardi di Euro. Dal 2013, oltre alle normali manovre di riduzione del Deficit di bilancio, al finanziamento dell’ESM e di probabili altre misure a salvataggio di altri paesi della zona Euro, dovremo aggiungere la somma impressionante di ulteriori 50 Miliardi all’anno da reperire con salassi generalizzati sulla ricchezza pubblica e privata italiana.

E questo non per un anno, ma per i prossimi 20 anni. Con questo provvedimento, il futuro di due e più generazioni di italiani è ipotecato e ancorato ad una nuova e permanente dimensione di miseria sociale. Il patrimonio pubblico sarà sacrificato sull’altare di questa decisione ideologica del neoliberismo che ha messo al rogo Keynes e le sue scoperte decisive per lo sviluppo del modello sociale europeo della seconda parte del ‘900, e con cui una classe politica imbelle, totalmente ignorante delle conseguenze di ciò che ha sottoscritto, ha abdicato o senza averne adeguata coscienza o per costitutiva subalternità, al ruolo che i principi democratici riconquistati nel dopoguerra e la Costituzione Italiana le avevano riservato.

Sarà bene tenere a mente i nomi di questa banda di irresponsabili bipartisan (del PDL del PD dell’UDC e degli altri gruppuscoli che sostengono Monti) che al Senato (il 12 luglio scorso) e alla Camera (oggi 19 luglio) hanno votato a favore: abbiamo 20 anni ed oltre per ricordare in ogni occasione a queste persone il danno decisivo e irrecuperabile che hanno causato con questo voto, al nostro paese.

La decisione di oggi rende tra l’altro insignificante la presunta battaglia politica tra il cosiddetto centro-sinistra e il centro-destra a cui dovremmo assistere di qui a poco: qualsiasi maggioranza parlamentare e qualsiasi governo ne risulti eletto alle prossime elezioni, a meno che non decida di uscire dall’Euro e dall’Unione Europea denunciando questo patto e i trattati, non avrà alcuna possibilità di rinverdire le sorti economiche del paese e il recupero di uno spazio sociale coerente con i principi costituzionali.

Si può dire che con l’approvazione del Fiscal Compact, termina definitivamente, in Italia, la democrazia fondata sulla sovranità popolare e nazionale.

Si apre una nuova epoca post-democratica, post-capitalistica e dai caratteri autoritari e neo-feudali, una configurazione che è la sola, secondo i sostenitori postumi del neoliberismo, che possa garantire la sopravvivenza sistemica di poteri (nazionali ed sovranazionali) costituiti dai processi di finanziarizzazione dell’economia, dei beni comuni, della natura e della vita di centinaia di milioni di persone.

La decisione presa costituisce infatti un volano formidabile di ulteriore recessione, una spirale senza fondo che si aggraverà di anno in anno e che non raggiungerà alcuno degli obiettivi decantati dalle elite tecnocratiche europee e nostrane: il prossimo anno, i miliardi da sborsare per soddisfare solo la decisione assunta oggi dal Parlamento, in corrispondenza di un PIL che diminuirà almeno del 2% nel 2012, farà lievitare le 20 rate annuali, ben oltre il previsto, rendendone impraticabile la gestione, a meno di una svendita progressiva dei beni fisici del paese, cioè di una nuova colonizzazione dell’Italia. Il salasso finanziario imposto dal Fiscal Compact sarà del 2,5% del PIL attuale, a bocce ferme, ma è facile ipotizzare che esso possa crescere fino al 3-4%.

Alla fine del ventennio, nel 2033, il bel paese potrebbe assomigliare ad un grande spazio geografico simile a quello del dopoguerra, le cui maestranze saranno state riconvertite in guide turistiche e camerieri al servizio dei turisti dei paesi avanzati d’Europa, d’Asia e d’America.

Una nuova Dolce Vita e magari nuove Cinecittà, insieme allo svuotamento del territorio delle nuove generazioni in fuga verso altri lidi.

Non tutto è perduto, tuttavia, ammesso che, a questo punto, tutte le ambiguità e le incertezze presenti nella sinistra sociale e politica (ed oltre) vengano sciolte: se si vuole continuare a pensare ad un futuro potabile e sostenibile socialmente, non vi è ormai altra alternativa a quella dell’uscita dall’Euro. La quale, da decisione autonoma, si trasforma in necessità indotta dagli eventi.

La posta in gioco è ora o il declino economico-sociale definitivo gestito e condotto dai poteri delle elites interne ed esterne, oppure recuperare sovranità e democrazia rischiando periodi certamente molto difficili e dolorosi, come altre situazioni ci hanno mostrato, ma recuperando alle popolazioni, il ruolo di decisore finale.

Il un certo senso, si tratta di decidere se ci accodiamo all’antica abitudine di “Francia o Spagna (oggi Germania) purchè se magna”, oppure se riproviamo, come in altri contesti storici risorgimentali, a contare sulle nostre forze, espungendo tutti gli elementi di costrizione esterne e di subalternità di classe interne.

Secondo molti c’è una terza via, che sarebbe la più sensata e politicamente corretta, quella di una reale e completa unità politica europea e di un nuovo protagonismo delle classi lavoratrici del continente. Ma questa possibilità esisteva, per quanto ci riguarda come italiani, fino a ieri.

Da oggi questa prospettiva è casomai da recuperare con passaggi nazionali che impongano la distruzione dell’Europa neoliberista e la sua ricostruzione in Europa sociale; in cui si sia capaci di imporre il recupero dell’equilibrio tra pubblico e privato, di processi democratici autonomi e non subalterni ai mercati, di mettere un guinzaglio ferreo e permanente alla finanza, allo strapotere dei megagruppi bancari e alle imprese multinazionali: insomma solo a condizione che si  estrometta per sempre l’ideologia neoliberista e che si inauguri il nuovo paradigma di sostenibilità sociale ed ambientale, di una nuova centralità dell’uomo e della vita contro la riduzione dell’uomo e della vita a numeri e rapporti contabili.

Tutte cose giuste e condivisibili, ma dal punto di vista politico, ciò può avere qualche chance di realizzarsi solo se, al punto a cui siamo arrivati, saremo in grado di far saltare il banco.

E, come i fatti stanno dimostrando, la chiave decisionale non è un’inesistente Europa, ma sono gli ancora esistenti (per il momento) Stati Nazionali. E’ a questi, infatti che si è chiesta la ratifica della nuova dogmatica. E’ da questi che essa può essere fatta saltare.

Luciano Gallino, Sulla crisi pesano i debiti delle banche

Repubblica, 30 luglio 2012

Il 20 luglio la Camera ha approvato il “Patto fiscale”, trattato Ue che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Comporterà per l`Italia una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l`anno, dal 2013 al 2032.

Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà.

Approvando senza un minimo di discussione il testo la maggioranza parlamentare ha però fatto anche di peggio. Ha impresso il sigillo della massima istituzione della democrazia a una interpretazione del tutto errata della crisi iniziata nel 2007. Quella della vulgata che vede le sue cause nell`eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale. In realtà le cause della crisi sono da ricercarsi nel sistema finanziario, cosa di cui nessuno dubitava sino agli inizi del 2010. Da quel momento in poi ha avuto inizio l’operazione che un analista tedesco ha definito il più grande successo di relazioni pubbliche [“propaganda”, NdR] di tutti i tempi: la crisi nata dalle banche è stata mascherata da crisi del debito pubblico.

In sintesi la crisi è nata dal fatto che le banche Ue (come si continuano a chiamare, benché molte siano conglomerati finanziari formati da centinaia di società, tra le quali vi sono anche delle banche) sono gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l`esatto ammontare né il rischio di insolvenza. Ciò avviene perché al pari delle consorelle Usa esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore.

La finanza ombra è formata da varie entità che operano come banche senza esserlo. Molti sono fondi: monetari, speculativi, di investimento, immobiliari. Il maggior pilastro di essa sono però le società di scopo create dalle banche stesse, chiamate Veicoli di investimento strutturato (acronimo Siv) o Veicoli per scopi speciali (Spv) e simili. Il nome di veicoli è quanto mai appropriato, perché essi servono anzitutto a trasportare fuori bilancio i crediti concessi da una banca, in modo che essa possa immediatamente concederne altri per ricavarne un utile. Infatti, quando una banca concede un prestito, deve versare una quota a titolo di riserva alla banca centrale (la Bce per i paesi Ue). Accade però che se continua a concedere prestiti, ad un certo punto le mancano i capitali da versare come riserva. Ecco allora la grande trovata: i crediti vengono trasformati in un titolo commerciale, venduti in tale forma a un Siv creato dalla stessa banca, e tolti dal bilancio. Con ciò la banca può ricominciare a concedere prestiti, oltre a incassare subito l`ammontare dei prestiti concessi, invece di aspettare anni come avviene ad esempio con un mutuo. Mediante tale dispositivo, riprodotto in centinaia di esemplari dalle maggiori banche Usa e Ue, spesso collocati in paradisi fiscali, esse hanno concesso a famiglie, imprese ed enti finanziari trilioni di dollari e di euro che le loro riserve, o il loro capitale proprio, non avrebbero mai permesso loro di concedere. Creando così rischi gravi per l`intero sistema finanziario.

I Siv o Spv presentano infatti vari inconvenienti. Anzitutto, mentre gestiscono decine di miliardi, comprando crediti dalle banche e rivendendoli in forma strutturata a investitori istituzionali, hanno una consistenza economica ed organizzativa irrisoria. Come notavano già nel 2006 due economisti americani, G. B. Gorton e N. S. Souleles, «i Spv sono essenzialmente società robot che non hanno dipendenti, non prendono decisioni economiche di rilievo, né hanno una collocazione fisica». Uno dei casi esemplari citati nella letteratura sulla finanza ombra è il Rhineland Funding, un Spv creato dalla banca tedesca IKB, che nel 2007 aveva un capitale proprio di 500 (cinquecento) dollari e gestiva un portafoglio di crediti cartolarizzati di 13 miliardi di euro. L`esilità strutturale dei Siv o Spv comporta che la separazione categorica tra responsabilità della banca sponsor, che dovrebbe essere totale, sia in realtà insostenibile. A ciò si aggiunge il problema della disparità dei periodi di scadenza dei titoli comprati dalla banca sponsor e di quelli emessi dal veicolo per finanziare l`acquisto. Se i primi, per dire, hanno una scadenza media di 5 anni, ed i secondi una di 60 giorni, il veicolo interessato deve infallibilmente rinnovare i prestiti contratti, cioè i titoli emessi, per trenta volte di seguito. In gran numero di casi, dal 2007 in poi, tale acrobazia non è riuscita, ed i debiti di miliardi dei Siv sono risaliti con estrema rapidità alle banche sponsor.

La finanza ombra è stata una delle cause determinanti della crisi finanziaria esplosa nel 2007. In Usa essa è discussa e studiata fin dall`estate di quell`anno. Nella Ue sembrano essersi svegliati pochi mesi fa. Un rapporto del Financial Stability Board dell`ottobre 2011 stimava la sua consistenza nel 2010 in 60 trilioni di dollari, di cui circa 25 in Usa e altrettanti in cinque paesi europei: Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna. La cifra si suppone corrisponda alla metà di tutti gli attivi dell`eurozona. Il rapporto, arditamente, raccomandava di mappare i differenti tipi di intermediari finanziari che non sono banche. Un green paper della Commissione europea del marzo 2012 precisa che si stanno esaminando regole di consolidamento delle entità della finanza ombra in modo da assoggettarle alle regole dell`accordo interbancario Basilea 3 (portare in bilancio i capitali delle banche che ora non vi figurano). A metà giugno il ministro italiano dell`Economia – cioè Mario Monti – commentava il green paper: «E’ importante condurre una riflessione sugli effetti generali dei vari tipi di regolazione attraverso settori e mercati e delle loro potenziali conseguenze inattese».

Sono passati cinque anni dallo scoppio della crisi. Nella sua genesi le banche europee hanno avuto un ruolo di primissimo piano a causa delle acrobazie finanziarie in cui si sono impegnate, emulando e in certi casi superando quelle americane. Ogni tanto qualche acrobata cade rovinosamente a terra; tra gli ultimi, come noto, vi sono state grandi banche spagnole. Frattanto in pochi mesi i governi europei hanno tagliato pensioni, salari, fondi per l`istruzione e la sanità, personale della PA, adducendo a motivo l`inaridimento dei bilanci pubblici. Che è reale, ma è dovuto principalmente ai 4 trilioni di euro spesi o impegnati nella Ue al fine di salvare gli enti finanziari: parola di José Manuel Barroso. Per contro, in tema di riforma del sistema finanziario essi si limitano a raccomandare, esaminare e riflettere. Tra l’errore della diagnosi, i rimedi peggiori del male e l`inanità della politica, l’uscita dalla crisi rimane lontana

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