La più grande novità della globalizzazione sono le città globali, che tendono a sostituire gli Stati e creano una nuova politica urbana, nuove classi, nuovi conflitti. Intervista a Saskia Sassen, Carta, n. 5, 21 febbraio 2008.
Chi si è messo alla ricerca di nuove chiavi di lettura per analizzare le trasformazioni della società globale, a cominciare dalle città, negli ultimi anni ha trovato negli studi di Saskia Sassen punti di vista inediti. Sociologa olandese, cresciuta in Argentina, Saskia Sassen insegna oggi alla Columbia University di New York, ed è tra i più autorevoli studiosi internazionali di ciò che ormai molti definiscono, lei per prima, «città globali». Di certo, Saskia Sassen ama ripetere che
«siamo all’inizio di un nuovo ordine, nel quale non è sempre chiaro cosa possono produrre le microstorie informali che è possibile rintracciare nelle grandi città, però ci sono e cambiano la società».
Abbiamo incontrato Saskia Sassen a Roma, dopo un incontro dedicato al tema delle nuove democrazie promosso dalla Fondazione Basso. Cominciamo dalla definizione di «città globali»: sono soltanto quelle che di fatto ospitano i principali centri finanziari internazionali, come New York, Tokyo, Amsterdam e Londra? Cosa accomuna queste città? Le città globali hanno due aspetti, uno economico e l’altro politico. Dal punto di vista dell’economia, una città globale ha tutte le capacità, le risorse e le cornici funzionali per maneggiare le operazioni globali delle imprese e dei mercati nazionali e internazionali. La città globale incarna d’altra parte un tipo nuovo di politica: la competizione per lo spazio urbano. È uno spazio molto conflittuale, spesso con contenuti specificatamente locali, ma nei fatti è una politica globale, non perché tratta con istituzioni globali come il Fondo monetario internazionale o la Wto, ma perché questi conflitti si ripresentano in tutte le città globali del mondo. Oggi ci sono circa quaranta città globali, e un numero crescente di città che hanno alcune funzioni globali. Come si è diffusa l’economia globale, così si è allargato il numero di città globali. Secondo le ultime stime, Londra è oggi la città globale per eccellenza, ha appena superato New York, che già si sta lamentando perché non può pensare di essere null’altro che la numero uno. Londra, Tokyo, New York, Hong Kong, Chicago, Parigi, Francoforte sono il livello più alto, tra le città globali.
La rapida crescita del numero di città che diventano globali comincia negli anni novanta. San Paolo, Città del Messico, Seul, Sydney, Toronto, Madrid emergono come città globali e potenti, anche se non potenti come quelle della prima classe. Verso la fine degli anni novanta si sono aggiunte Shanghai, Buenos Aires, Bangkok, Miami e molte altre. Tutte queste città costituiscono insieme lo stato dell’arte del massimo livello della piattaforma globale, il più complesso e con funzioni strategiche. Per diversi motivi penso che questa seconda fase ora sia completata. In gran parte, il mondo è ora riarticolato. Le eccezioni sono zone come Iraq e Iran, dove domina la guerra. Penso che la prossima fase di questo lungo processo sia no articolazioni più specializzate tra le città secondarie, quelle meno strategiche.
D. Cosa accadrà alla popolazione delle città globali nei prossimi anni?
S. Una de-nazionalizzazione crescente: outsiders, lavoratori migranti, o migranti locali e giovani delle zone suburbane che diventeranno la nuova classe professionale transnazionale. Vi saranno più ricchi e più poveri, e una maggior quota di classe media impoverita. Ciò che ci sarà sempre di meno, invece, è la piccola classe e le loro piccole attività economiche che una volta erano la presenza dominante in queste città. Dal mio punto di vista, nello scenario più pessimistico, il conflitto viene adesso trasmesso alle città globali. In alcune città, per esempio New York e Los Angeles, prende la forma di una criminalità piccola e diffusa e soprattutto della violenza dello svantaggiato sullo svantaggiato. In alcune città europee, ma anche a Shangahi, prende la forma di un nuovo tipo di razzismo, che può arrivare alla violenza fisica. E in ancora altre, ad esempio a Rio de Janeiro, prende la forma di guerra urbana sporadica e parziale, che comprende anche lo spazio delle prigioni. Penso che abbiamo bisogno urgente di innovare il governo urbano. I vecchi modi burocratizzati non ce la fanno. Questa è un’era urbana interamente nuova.
D. Nei tuoi libri sostieni che nelle città contemporanee stanno emergendo, o meglio si rendono più visibili, nuovi attori politici, invisibili invece a livello di stato nazione: gli esclusi e le minoranze. Chi sono esattamente questi attori informali? Quali opportunità hanno, anche se non detengono il potere?
S: La grande città complessa, specialmente se globale, è una nuova zona di frontiera. Lì si incontrano protagonisti di mondi diversi, ma non ci sono chiare regole d’ingaggio. Mentre prima la frontiera era ai margini degli imperi coloniali, la zona di frontiera di oggi è nelle nostre grandi città. È una zona di frontiera strategica, per il capitale globale. Molto del lavoro per imporre deregolamentazioni, privatizzazioni e nuove politiche fiscali e valutarie devono passare attraverso gli strumenti formali per costruire l’equivalente del vecchio «forte» sulla frontiera: c’è bisogno di uno spazio regolato, città dopo città, che assicuri un più vasto campo di operazioni globale. Ma la città globale è anche una zona di frontiera strategica per quelli che non hanno potere, per gli svantaggiati, gli outsiders, le minoranze discriminate. Lo svantaggiato e l’escluso possono guadagnare presenza in queste città, di fronte al potere, e l’uno di fronte all’altro. Questo segnala la possibilità di un nuovo tipo di politica, concentrata in nuovi tipi di protagonisti politici. Non è semplicemente una questione di avere o non avere potere. Ci sono nuove basi ibride da cui agire. Stiamo assistendo, in una città dopo l’altra, alla costruzione di una politica informale. Lo spazio della città è politicamente uno spazio molto più concreto della nazione. Diventa uno spazio per attori politici non-formali che possono essere parte della scena politica, cosa che è molto più difficile a livello nazionale. Le politiche nazionali hanno bisogno di passare attraverso i sistemi formali esistenti come il sistema elettorale o quello giudiziario. I protagonisti politici non-formali sono invisibili, negli spazi della politica nazionale. Nello spazio politico urbano, invece, trova posto un ampio raggio di azioni politiche: basta pensare alle occupazioni, alle manifestazioni contro la brutalità della polizia, alle lotte per i diritti dei migranti e dei senzatetto, alle politiche culturali e dell’identità, alle politiche di gay, lesbiche e queer. Gran parte di tutto ciò diventa visibile sulla strada. Molta politica urbana è concreta, determinata dalle persone più che dall’accesso ai mass media. La politica di strada rende possibile la formazione di nuovi soggetti politici che non devono attraversare il sistema della politica formale. Inoltre, attraverso i network tecnologici le iniziative locali diventano parte di una rete globale di attivismo, senza perdere l’attenzione sulle lotte locali specifiche. Ciò crea un nuovo tipo di attivismo politico, disperse in diverse località eppure strettamente connesse attraverso la rete. Questa è, nella mia prospettiva, una delle forme più rilevanti di politica critica che Internet e le altre reti rendono possibile: una politica del locale sì, ma con una grande differenza: sono località connesse l’una all’altra attraverso regioni, paesi o il mondo intero. Anche se la rete è globale, non vuol dire che tutto ciò che accade debba essere globale. Le reti web stanno contribuendo alla produzione di generi nuovi di interconnessioni sottostanti rispetto a quella che sembra una topografia frammentata, sia a livello globale sia a livello locale. Gli attivisti politici possono usare le reti digitali per operazioni globali o non-locali e possono usarli per comunicazioni strettamente locali e per operazioni dentro una comunità rurale o urbana. La grande città di oggi, specialmente la città globale, emerge come un luogo di strategie per questi nuovi tipi di operazioni. È un luogo strategico per il capitale aziendale globale. Ma è anche uno di quei luoghi dove la formazione di nuove richieste da parte di protagonisti politici informali assume forme concrete. esiste dunque una globalizzazione verticale più evidente, ma ne esiste anche una orizzontale, fatta da attori, spesso invisibili, che agi- cono in territori locali con obiettivi specifici ma che si ripetono in tutto il mondo.
D. Nelle grandi città occidentali esiste anche un’economia informale, che coinvolge appunto comunità di migranti, baraccopoli e reti dell’altra economia. Condividi l’opinione di chi, come Zygmunt Bauman, sostiene che le metropoli contengono «discariche di rifiuti umani», ma anche le «palestre» in cui è possibile sperimentare forme nuove di incontro e convivialità?
S. Sì, io penso che ci siano delle possibilità, anche se non possiamo essere romantici. Per citare un esempio, nei paesi ricchi come gli Stati uniti possiamo vedere che al di sotto delle logiche imperiali rafforzate che organizzano la politica economica degli Stati uniti di oggi, alcune dinamiche sociali emergenti stanno consentendo a gruppi svantaggiati e minoranze di mettere in pratica nuove forme di politica. Nuovi tipi di protagonisti politici stanno prendendo forma, e cambiano la relazione tra lo Stato e l’individuo. Se consideriamo la cittadinanza come un contratto sociale, incompleto e teorico, tra lo Stato e il cittadino, e concentriamo la nostra indagine proprio sul tema dell’incompiutezza, allora apriamo la possibilità di discutere di politiche. Una buona parte di questo processo non è formalizzato, e si potrebbe pensarlo come pre-politico, ma io sostengo invece che sia meglio considerarlo come politica informale o «non-ancora-formale». La globalizzazione e le nuove tecnologie informatiche e di telecomunicazione hanno reso possibile a una varietà di protagonisti politici locali l’ingresso in arene internazionali, una volta riservate agli Stati nazionali. Il diventare globali è stato in parte facilitato e condizionato dall’infrastruttura dell’economia globale, perfino quando essa è stata oggetto di opposizione. Inoltre, dal mio punto di vista, la possibilità di immaginari globali ha consentito, anche a chi è geograficamente immobile, di diventare parte della politica globale. I popoli indigeni e le organizzazioni non governative, i migranti e i rifugiati, soggetti delle decisioni sulle politiche dei diritti umani, lotte per i diritti umani e per l’ambiente, le reti dell’altra economia e molti altri movimenti di questo tipo stanno sempre di più diventando attori della politica globale, anche quando sono profondamente legati a un solo luogo. In questi processi, attori non-statali possono entrare sulla scena e guadagnare visibilità in ambito internazionale, come individui o come movimenti. Così riescono ad emergere dall’invisibilità dell’appartenenza collettiva, che negli Stati-nazione è rappresentata esclusivamente dal sovrano. Insomma, la crescita del settore delle informazioni e delle telecomunicazioni non hanno reso obsolete le città come si pensava.
D. Anche lo svuotamento e la crisi di ciò che è «spazio pubblico» sembra cambiare il significato dell’azione politica nelle città.
S. Non c’è dubbio. L’enormità dell’esperienza urbana, la presenza opprimente di architetture massicce e infrastrutture dense, così come le logiche utilitaristiche irresistibili che organizzano molti investimenti nelle città di oggi, hanno prodotto il dislocamento e l’alienazione di molti individui e di comunità intere. Tali condizioni sconvolgono le vecchie nozioni e le esperienze delle città in generale e dello spazio pubblico in particolare.
Un aspetto che rende visibile questo processo è la tanto discussa crisi dello spazio pubblico, causato dalla crescente commercializzazione, «parchizzazione» e privatizzazione dello spazio pubblico. Lo spazio pubblico monumentale delle città europee resta uno scenario efficace per i riti urbani, per le manifestazioni e i festival. Eppure, sempre di più, il senso comune percepisce lo slittamento da uno spazio «civico» a uno più politicizzato, frammentato secondo nuove linee di frattura che rispecchiano la ricomposizione della società. La possibilità di fare politica ha assunto nuovi significati, negli ultimi due decenni, periodo segnato dall’aumento dell’autorità o del potere privati su spazi una volta considerati pubblici. Inoltre, negli ultimi cinque anni gli Stati hanno cercato di militarizzare lo spazio urbano e di farne un oggetto di
sorveglianza. Allo stesso tempo, la crescente «leggibilità» delle restrizioni, della sorveglianza e delle politiche di dislocazione forzata rende sempre più politicizzato lo spazio urbano. Il caso più familiare, forse, è l’impatto della «riqualificazione», in senso residenziale e commerciale, di interi quartieri, ciò che causa il trasferimento forzato dei vecchi abitanti. Da ciò nascono nuovi soggetti politici, concentrati sulla contestazione piuttosto che sull’elaborazione di un nuovo senso civico. L’espulsione fisica delle famiglie a basso reddito, l’esclusione degli usi non commerciali e l’estromissione delle attività economiche di quartiere rende visibile una relazione di potere, cioè il controllo di una parte sull’altra, espresso direttamente attraverso lo sfratto o indirettamente attraverso i meccanismi del mercato. Questa politicizzazione dello spazio urbano e la sua leggibilità è anche evidente nella proliferazione delle barriere fisiche in spazi una volta pubblici, un fenomeno forse più pronunciato nelle città statunitensi. Il «fare» a cui mi riferisco in questo momento è quello dell’azione politica su piccola scala, degli interventi locali costruiti attraverso la partecipazione delle persone e gli interventi critici e artistici di piccolo e medio livello. Non penso agli spazi pubblici monumentali o a quelli già pronti, che sarebbe meglio definire spazi «aperti al pubblico» piuttosto che «pubblici» in senso proprio.
D.Quali altri significati assume il fare politica nelle città?
S. La «creazione» dello spazio pubblico è un lavoro politico, nelle città globali di oggi. E apre domande sulla situazione urbana contemporanea che i grandi spazi della corona e dello Stato, o gli spazi «aperti al pubblico», non sono in grado di porre. Captare questa elusiva qualità che le città rendono possibile e leggibile, il lavoro della politica in questa zona intermedia, non è affatto facile. La logica utilitaristica non funziona. Non posso fare a meno di pensare che l’arte sia parte della risposta, sia che si tratti di occasionali installazioni o performance pubbliche, sia che si tratti di sculture di tipo più durevole, sia che si tratti di arte specifica di una comunità o di una località, o che si tratti di arte nomade, capace di circolare. Inoltre, le nuove tecnologie aprono ed estendono questa domanda di azione in piccoli spazi e attraverso l’azione dei cittadini. Una domanda che potrebbe essere posta è come «urbanizzare» l’«open source». Una nuova forma di disuguaglianza ha a che fare con il tipo di economia informale che è collegata, direttamente o indirettamente, con il capitalismo avanzato. La crescente «informalizzazione» di un ampio settore di attività reintroduce la comunità e la famiglia come un importante spazio economico della città globale. Mi sembra che l’informalizzazione, sia nei settori economici a basso costo, spesso femminili, sia l’equivalente della «deregulation» in cima alla piramide del sistema. Come per la «deregulation», l’informalizzazione introduce flessibilità, riduce i «fardelli» e abbassa i costi, in questo caso soprattutto il costo del lavoro. L’informalizzazione nelle grandi città dei paesi ricchi, come New York, Londra, Parigi o Berlino, può essere vista come la degradazione di alcune attività per le quali c’è un’effettiva domanda, ma anche un’altissima concorrenza e una svalutazione del lavoro, a causa dei bassi costi d’ingresso sul mercato e la mancanza di forme alternative di impiego. Entrare nel «nero» è ormai un modo per produrre e distribuire beni e servizi a un costo molto più basso e con maggiore flessibilità. Così, però, queste attività di svalutano ancora di più. Per questo, i migranti e le donne sono attori importanti dell’economia informale, e ne subiscono il costo.
Intervista ad Antonietta Mazzette, sociologa del Centro Studi Urbani – Università di Sassari.
Le città italiane non hanno i numeri e le caratteristiche delle «città globali», ma il post-fordismo ha comunque cambiato la loro storia e l’idea di cittadinanza. Una sociologa urbana spiega come alle città acceda solo chi può consumare.
D. Perché le grandi città italiane non sono «città globali»?
M. Le nostre città non hanno i grandi centri della finanza, non hanno l’alta tecnologia, non hanno i grandi flussi di persone che abbandonano le campagne per rinchiudersi nelle periferie, come ad esempio Shangai, e non hanno neanche il numero complessivo di abitanti di altre megalopoli. Milano è l’unica che si avvicina alle «città globali» individuate da Saskia Sassen, ma fatica ad essere un polo di attrazione perché ha un potere di controllo scarso, persino rispetto a Torino, dove la Fiat è riuscita in qualche modo a mantenere un controllo, se non con la grande fabbrica almeno con l’affermazione del proprio marchio. Chi dice che sta per nascere la grande città-regione Torino-Milano sbaglia: le due città restano in grande competizione tra loro e con altre città. Per ora l’Alta velocità ha soltanto favorito alcuni imprenditori edili torinesi: hanno costruito per i milanesi che non ce la fanno più a stare dietro i costi delle case nel centro di Milano. Del resto, i progetti delle «aree metropolitane» non sono mai decollati perché nessuno vuole rinunciare a nulla. E poi, le città italiane hanno una identità forte e una lunga storia alle spalle, rispetto alle altre città del mondo. D’altra parte, però, il principale cambiamento che ha attraversato le città globali, cioè il passaggio dal fordismo al postfordismo e dunque i mutamenti della produzione e del lavoro, ha coinvolto anche le città italiane. Sia quelle industriali, come Torino, Milano e Genova, che molte delle città medio-piccole. Tutte queste hanno vissuto una crisi urbana con la delocalizzazzione industriale e poi, almeno nel caso di Genova e di Torino, una lenta «rinascita» legata alla promozione dei grandi eventi, a cominciare dalle Colombiadi di Genova e dalle Olimpiadi invernali di Torino: le città sono state ripensate, alcune aree dismesse hanno subito importanti trasformazioni e oggi non sono più legate alla produzione materiale, ma a quella immateriale.
D. Quali sono le principali forme di esclusione e inclusione sociale, in questi ambiti urbani?
Tutte le città ormai sono «città del consumo», e non solo in quanto contenitori. Nei contesti urbani l’inclusione sociale è legata al consumo, si accede alla città se si hanno relazioni e beni economici e culturali sufficienti per consumare. Essere cittadini con alcuni diritti e doveri imprescindibili è cosa diversa dall’esserlo in quanto consumatori. Per questo gli esclusi sono ovunque ma restano, almeno per un po’ di anni, proprietari di case e dunque rimangono in ambienti non immediatamente identificabili come territori di esclusione, anche se lentamente lo diventano. La nostra società si sta «americanizzando»: tra qualche anno tutto questo, con la perdita delle casa di molte persone, sarà più evidente. Ma non c’è attenzione a questi cambiamenti epocali, da parte della politica e delle amministrazioni locali: il loro unico obiettivo resta rendere attraenti le città per i consumatori, rifarsi continuamente il look. Per questo sono assillati dal promuovere turismo urbano: così, ad esempio, un quartiere popolare e operaio come l’Isola di Milano diventa il quartiere dei locali creativi e i suoi vecchi cittadini vengonoestromessi o comunque emarginati.
D. Saskia Sassen parla molto anche di «attori politici informali». E da noi?
S. Nelle città italiane possiamo osservare alcuni attori politici informali che hanno grandi poteri, ad esempio alcune mprese multinazionali: se Carrefour o Auchan vogliono aprire un ipermercato non hanno bisogno di rispettare Piani regolatori o di partecipare a negoziazioni con attori politici riconosciuti. Lo fanno, consumano suolo, e basta. Ci sono poi attori non formali che però nelle città italiane non riescono ancora ad avere un ruolo importante: penso ad esempio alle comunità dei migranti, che sono un universo molto plurale per storie, lingue e culture e, salvo il caso dei cinesi a Milano, dove si sono appropriati di grandi spazi urbani, non sono ancora un attore riconoscibile. Ma penso anche ai movimenti sociali, quelli che qualcuno ancora chiama con una pessima definizione «no global»: sono ancora pochi gli elementi per dire che questi movimenti in Italia, tranne forse in alcune città, sono usciti dai margini della vita urbana.
D. Perché in molti dei suoi ultimi studi e articoli lei usa la definizione di «metropoli consumate»?
S. «Metropoli consumata» allude all’idea che il consumo è diventato la modalità di agire di ogni pratica economica e sociale: è la città stessa infatti a innescare processi di consumo. Si è affermata l’idea secondo la quale «si stanno riducendo i consumi, quindi siamo in crisi». Ma quella definizione allude anche alla metropoli che consuma spazi fisici come mai prima: lo «sprawl», il consumo senza limiti di suolo, ha raggiunto livelli preoccupanti in Italia, lo ha detto anche la Ue, ma si continua a ignorare quei richiami. Di certo, il turismo sta accelerando questi processi, pensiamo ad esempio a quanto accade alle coste. Metropoli consumate, dunque, significa anche città usurate.
LONDRA La capitale della Gran Bretagna, con i suoi 7,5 milioni di abitanti, è la città più popolata d’Europa e la prima piazza borsistica mondiale, avendo superato New York. In realtà, l’area metropolitana conta più di quattoridici milioni di residenti e si estende per svariate decine di chilometri, superando paesi come Lussemburgo e Svizzera. I suoi cinque aeroporti ne fanno anche il più grande snodo del traffico aereo globale. A Londra si parlano oltre trecento lingue, più che in ogni altra città del mondo, e qui hanno sede molte istituzioni e società internazionali.
NEW YORK La città più popolosa degli Usa, New York, è situata nell’omonimo stato e conta otto milioni di abitanti su poco meno di ottocento chilometri quadrati. È divisa in cinque distretti [Manhattan, Bronx, Queens, Brooklyn e Staten Island]. Con il vicinissimo distretto di New Jersey [di fronte all’isola di Manhattan] che appartiene formalmente a un altro stato, la popolazione risulta essere di quasi dieci milioni. L’intera rea metropolitana, che si estende su tre stati [New York, New Jersey e Connecticut], conta 21 milioni di abitanti.
FRANFOFORTE Ha soltanto 650 mila abitanti, eppure Francoforte è a tutti gli effetti una «città globale». La sua area metropolitana supera infatti i 5,3 milioni di residenti ed è uno dei centri finanziari principali d’Europa. Qui ha sede la Banca centrale europea, la Banca federale tedesca e la borsa di Francoforte [terza al mondo per volume di scambi azionari]. L’aeroporto di Francoforte sul Meno è uno degli scali più trafficati del mondo, la stazione centrale d ella città è uno dei terminal più grandi d’Europa, con oltre 130 milioni di passeggeri annui, e l’interscambio dell’Autobahn A3 – A5, che si trova nell’area urbana della città, è il più utilizzato del continente.
MADRID La capitale della Spagna è il comune più popoloso del paese, il terzo della Ue. La regione autonoma di Madrid occupa un territorio di ottomila chilometri quadrati e ha 5,5 milioni di abitanti [la sua rete metropolitana è la seconda d’Europa]. Negli ultimi vent’anni alle tradizionali attività amministrative e finanziarie si sono unite altre attività legate al business del turismo, della cultura e del divertimento.
PARIGI Dopo Londra, Berlino, Madrid e Roma, Parigi è il quinto comune più popolato dell’Unione europea, ma l’area metropolitana più popolata d’Europa, con circa dodici milioni di abitanti [erano soltanto sei milioni negli anni cinquanta, 9,4 milioni negli anni ottanta], un quinto dei quali di origine immigrata. La capitale della Francia ospita quasi il cinquanta per cento delle sedi centrali delle compagnie transnazionali francesi [ma anche la sede dell’Unesco] ed è il più grande distretto finanziario d’Europa. Parigi, infine, è la seconda più grande borsa d’Europa.
BUENOS AIRES Con la crescita demografica esponenziale degli ultimi decenni, la capitale argentina Buenos Aires si è ingrandita tanto da unirsi ad altre ventiquattro municipi vicini, creando una caotica metropoli nella quale vivono 14,3 milioni di abitanti. Buenos Aires diventa una città molto popolata all’inizio del XIX secolo, con l’arrivo di una massiccia immigrazione, soprattutto spagnola e italiana. La città delle madri di Plaza de Mayo e dei piqueteros è forse la città in cui più evidente è la crisi globale dei ceti medi: non è un caso che qui si sia registrata probabilmente la più grande tra le proteste [il «cacerolazo» del 19, 20 e 21 dicembre 2001] delle classi medie impoverite, dal blocco dei risparmi bancari: facendo risuonare le pentole di casa, il cacerolazo ha provocato la caduta di un governo nazionale [quello del presidente De La Rua].
CITTA’ DEL MESSICO La città messicana più popolata, Città del Messico, conta 9,8 milioni di abitanti, ma l’area metropolitana complessiva è abitata da 24,8 milioni di persone [è così la seconda area più grande del mondo dopo quella
di Tokyo]. La città è caratterizzata anche dalla sua estensione, avendo una longitudine di più di cinquanta chilomentri e una latitudine di trentacinque, e da ben cinquecento grattacieli. Città del Messico è anche il contesto urbano più caotico e inquinato del pianeta, anche per le sue cinquantaquattro zone industriali.
BANKOK La città che ha conosciuto il più rapido sviluppo industriale del mondo è Bangkok. Soltanto nel 1999, nella città tailandese è stata aperta una doppia e faraonica linea ferroviaria sopraelevata, e soltanto nel 2004 la prima linea della metropolitana sotterranea. L’aeroporto internazionale di Bangkok è uno dei più trafficati del Sud Est asiatico.
TOKYO La capitale giapponese viene oggi considerata come una delle 47 prefetture del Giappone e il governo e l’imperatore risiedono nel quartiere di Chiyoda. Con una popolazione superiore ai dodici milioni, è di gran lunga la prefettura più popolosa e più densamente popolata. Secondo il rapporto urbanistico delle Nazioni unite, quello di Tokyo- Yokohama è anche il più grande agglomerato urbano del mondo [poco meno di 28 milioni di abitanti] e ha un Prodotto interno lordo pari a quello della Francia [oltre 1.400 miliardi di euro].
Commenti recenti