Schopenhauer

by gabriella
Arthur Schopenhauer

Arthur Schopenhauer (1788 – 1860)

E’ davvero incredibile come insignificante e priva di senso, vista dal di fuori, e come opaca e irriflessiva, sentita dal di dentro, trascorra la vita di quasi tutta l’umanità.

E’ un languido aspirare e soffrire, un sognante traballare attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con accompagnamento d’una fila di pensieri triviali.

Gli uomini somigliano a orologi che vengono caricati e camminano, senza sapere il perché; ed ogni volta che un uomo viene generato e partorito, è l’orologio della vita umana di nuovo caricato, per ripetere ancora una volta, fase per fase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata.

Sei lezioni sul Mondo come volontà e rappresentazione: la gnoseologia, la metafisica, l’estetica e l’etica scopenhaueriane. In coda i paragrafi 67 e 68 del Libro IV dedicati alla compassione universale.

 

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Indice

1. La reazione ad Hegel

1.1 L’irrazionalismo tragico vs il panlogismo hegeliano
1.2 La filosofia come domanda sul dolore, non sull’essere

 

2. Il mondo come rappresentazione

2.1 Kantismo e Upaniṣad in Schopenhauer: il Velo di Maya

 

3. Il mondo come volontà

3.1 L’accesso al noumeno attraverso il corpo
3.2 L’essenza metafisica del mondo è il Wille zum Leben, la volontà di vita
3.3 Il mondo come gigantesco pasto

 

4. Dalla metafisica all’etica; servitù dell’intelletto e liberazione
5. Arte ed etica come vie di liberazione
6. Il problema della libertà e la liberazione della volontà

 

6.1 La compassione universale
6.2 Fëdor Dostoevskij, La compassione di Sonja

 

1. La reazione ad Hegel

1.1 L’irrazionalismo tragico vs il panlogismo hegeliano

Georg Wilhelm Hegel (1770 – 1831)

Presentandosi come l’ultimo grado di sviluppo della realtà e parola definitiva della filosofia, l’idealismo hegeliano suscitò forti riserve tra i contemporanei, tra i quali Schopenhauer che, con Kierkegaard, incarnò la più schietta reazione ad Hegel, indicato sprezzantemente come filosofo «delle università», un «sicario della verità» al servizio del successo e del potere, un «ciarlatano pesante e stucchevole» contro il quale Schopenhauer rivendica, in un linguaggio agguerrito, la libertà della filosofia.

Il pensiero di Schopenhauer – Danzica, 22 febbraio 1788 – Francoforte, 21 settembre 1860 – si caratterizza, dunque, per una radicale opposizione alla filosofia idealistica e al panlogismo hegeliano, cioè alla visione della realtà come manifestazione necessaria della ragione, alla quale il filosofo di Danzica contrappone il suo irrazionalismo tragico, fondato sul duplice assunto che l’essenza del mondo non è costituita dall’Idea, ma da una volontà di vivere senza ragione e senza scopo e che la storia non è progresso continuo, ma la ripetizione incessante e immutabile di un dramma.

 

1.2 La filosofia come domanda sul dolore non sull’essere

Aristotele

La filosofia di Schopenhauer risponde infatti, espressamente, al «bisogno metafisico dell’uomo», cioè alla domanda pressante sul perché del dolore. La metafisica tradizionale, che ha il proprio padre in Aristotele, scrive infatti Schopenhauer, dichiara il proprio intellettualismo quando identifica lo stupore originario da cui nasce la filosofia con la meraviglia, ossia con un atteggiamento di tipo teoretico contemplativo davanti al mondo.

Lo scandalo dell’ineliminabilità del male

Per Schopenhauer, viceversa, l’origine della filosofia, che essa condivide con la religione, sta nello stupore e nello scandalo di fronte al dolore e al male, presenti in modo essenziale e non eliminabile nel mondo.

Nessun essere, eccetto l’uomo, si stupisce della propria esistenza; per tutti gli animali essa é una cosa che si intuisce per se stessa, nessuno vi fa caso. […] Quanto più in basso si trova un uomo nella scala intellettuale, quanto meno misteriosa gli appare la stessa esistenza: gli sembra piuttosto che il tutto, così com’è, si comprenda da sé […]. Al contrario, la meraviglia filosofica […] é condizionata da uno svolgimento superiore dell’intelligenza, ma non da questo soltanto: senza dubbio é anche la conoscenza della morte, e con essa la considerazione del dolore e della miseria della vita, ciò che dà il più forte impulso alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, forse non verrebbe in mente a nessuno di chiedersi perché il mondo esista e perché sia fatto così com’è fatto […]. Supplementi al Mondo, cap. XVII

Il Mondo come volontà e rappresentazione è appunto il tentativo di rispondere alla domanda metafisica:

«perché ogni vivere è per essenza un soffrire?»

ciononostante, il problema non si pone per Schopenhauer in termini esistenziali: l’individuo infatti è mero fenomeno, non cosa in sé [cfr. la riflessione sulla morte ne Il mondo, edizione liberliber, p. 186].

La struttura dell’opera in quattro libri approfondisce progressivamente il tema attraverso le le due prospettive che il pensiero può assumere davanti al mondo: quella della rappresentazione e quella della volontà.

 

2. Il mondo come rappresentazione

2.1 Kantismo e Upaniṣad in Schopenhauer: il Velo di Maya

Immanuel Kant (1724 – 1804)

Schopenhauer riparte da Kant, di cui la sua filosofia si presenta come legittima prosecuzione. Finché l’orientamento del soggetto è rivolto verso l’esterno, osserva il nostro, al filosofo non resta che riconoscere che «il mondo è la mia rappresentazione»: il soggetto attribuisce validità al mondo applicandogli le forme a priori della sensibilità e dell’intelletto.

Ciò che in tal modo viene conosciuto non è la realtà in se stessa, ma il suo fenomeno, cioè appunto il mondo, proprio dell’esperienza comune e della scienza.

Ricollegandosi all’intera tradizione antica, come alla filosofia indiana dei Veda – la più antica raccolta in sanscrito di testi induisti -, Schopenhauer evidenzia che il mondo sensibile non è il mondo vero, ma solo un’immagine ingannevole, apparenza, sogno, illusione. Su questa affermazione concordano poeti come Pindaro:

«L’uomo è il sogno di un’ombra» (Pitiche, VIII, XVIII),

Pindaro (517 – 438 a. C.)

Parmenide (515/10 o 544/41 – 451 a. C.)

filosofi come Parmenide o Platone, l’antica saggezza dei Veda:

E’ Maya, il velo dell’illusione, che ottenebra le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo di cui non si può dire né che esista né che non esista; il mondo infatti è simile al sogno, allo scintillio della luce solare sulla sabbia, che il viaggiatore scambia da lontano per acqua, oppure a una corda buttata per terra ch’egli prende per un serpente.

Questo genuino principio idealistico, che considera illusoria ogni rappresentazione sensibile del mondo, era stato ripreso da Berkley, per il quale l’essere si risolve nell’essere percepito, e posto da Kant a fondamento di una visione critica del conoscere. Ma, come si vede, rispetto a Kant, il fenomeno schopenhaueriano accentua il tratto idealistico, perché le cose che vediamo sono mere rappresentazioni, non la sola realtà conoscibile e oggettiva presentata dal filosofo di Könisberg nella Critica della ragion pura.

«Il mondo è una mia rappresentazione»: ecco una verità valida per ogni essere vivente e pensante, benché l’uomo possa soltanto venirne a conoscenza astratta e riflessa. E quando l’uomo sia venuto di fatto a tale coscienza, lo spirito filosofico é entrato in lui. Allora egli sa con chiara certezza di non conoscere né il sole né la terra, ma soltanto un occhio che vede un sole, e una mano che sente il contatto d’una terra; egli sa che il mondo circostante non esiste se non come rappresentazione, cioè sempre e soltanto in relazione con un altro essere, con il percipiente, con lui medesimo.

Se c’è una verità che si può affermare a priori, è proprio questa; essa infatti esprime la forma di ogni esperienza possibile e immaginabile: la quale forma è più universale di tutte le altre, e cioè del tempo, dello spazio e della casualità, perché tutte queste implicano già la prima. […] Nessuna verità è dunque più certa, più assoluta, più lampante di questa: tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il mondo intero, non è altro che il soggetto in rapporto all’oggetto, la percezione per lo spirito percipiente; in una parola rappresentazione. Il Mondo, 1, § 1

Schopenhauer - rappresentazione

 

3. Il mondo come volontà

[per approfondimenti, Giovanni Piana, Commenti a Schopenhauer. Volontà e natura]

Dire che il fenomeno è rappresentazione, illusione soggettiva, non la realtà oggettiva di cui possiamo avere esperienza, non è l’unica differenza di Schopenhauer da Kant. Anche la verità noumenica è pensata in modo radicalmente diverso. Secondo Schopenhauer, Kant non ha, infatti, considerato essenziale al conoscere una dimensione pur fondamentale della nostra esperienza del mondo: la volontà.


3.1 L’accesso al noumeno attraverso il corpo

Se rivolgiamo lo sguardo non all’esterno, verso le cose, ma all’interno di noi stessi, ci si rivela un’altra dimensione del mondo e una diversa verità che suona: «il mondo è la mia volontà». Si può dire che Schopenhauer sostituisce al kantiano «io penso», condizione trascendentale della conoscenza degli oggetti, l’«io voglio», quale condizione di pensabilità del soggetto e della stessa cosa in sé.

Finché la realtà vera, la cosa in sé, appunto, veniva ricercata dal lato degli oggetti o delle cose, essa sembrava sfuggire, celandosi dietro il fenomeno. Ma in questo modo non si considera che il soggetto, l’essere umano conoscente, non è dato a se stesso solo come rappresentazione, ma «si vive» anche dal di dentro come corpo, godendo e soffrendo. Osserva infatti Schopenhauer:

In realtà sarebbe impossibile trovare il significato di questo mondo che ci sta dinanzi come rappresentazione, oppure comprendere il passaggio da semplice rappresentazione del soggetto conoscente a qualcosa d’altro e di più, se colui che cerca non fosse altro che un puro soggetto conoscente (una testa d’angelo alata, senza corpo). Ma il ricercatore ha la sua radice nel mondo; ci si trova come individuo, e cioè la sua conoscenza, condizione e fulcro del mondo come rappresentazione, è necessariamente condizionata dal corpo, le cui affezioni […] forniscono all’intelletto il punto di partenza per l’intuizione del mondo medesimo.

Per il soggetto puramente conoscitivo il corpo è una rappresentazione come un’altra, un oggetto tra altri oggetti: i movimenti e le azioni del corpo non sono per lui, sotto questo punto di vista, nulla di diverso dalle modificazioni di qualsiasi altro oggetto intuito, e gli resterebbero altrettanto estranee e incomprensibili, se il loro significato non gli venisse rivelato in modo del tutto speciale. […] Ora le cose non stanno così [il corpo non è una cosa tra le altre], anzi, al contrario: è l’individuo, il soggetto conoscente, quello che possiede la soluzione dell’enigma; e tale soluzione si chiama volontà.

Questa parola, questa sola, offre al soggetto la chiave della sua esistenza fenomenica; gliene rivela il significato, e gli mostra il meccanismo interiore che anima il suo essere il suo fare, i suoi movimenti. Al soggetto conoscente che deve la sua individuazione all’identità con il proprio corpo, tale corpo è dato in due maniere affatto diverse: da un lato come rappresentazione intuitiva dell’intelletto, come oggetto fra oggetti, sottostante alle loro leggi; ma contemporaneamente è dato anche come qualcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno, e che viene designato col nome di volontà. Ogni atto reale della sua volontà é sempre infallibilmente anche un movimento del suo corpo; il soggetto non può voler effettivamente un atto, senza insieme constatare che questo atto appare come movimento del suo corpo.

Rodin, IL bacio 1888

La prima intuizione della verità nel corpo [Auguste Rodin, Il bacio (1888)]

 

3.2 L’essenza metafisica del mondo è il Wille zum Leben, la volontà di vita

Ed è proprio l’esperienza di base della corporeità, simile a un raggio di sole che penetra oltre la nuvola, che permette all’uomo di squarciare il velo del fenomeno e di afferrare la cosa in sé. Ripiegandoci su noi stessi, ci rendiamo conto infatti che l’essenza profonda del nostro essere è la brama, o la volontà di vivere (Wille zum Leben), cioè un impulso prepotente e irresistibile che ci spinge ad esistere e ad agire.

Più che intelletto e conoscenza, noi siamo quindi, vita e volontà di vivere e il nostro stesso corpo non è che la manifestazione esteriore di questa brama: l’apparato digerente non è che l’aspetto fenomenico della nostra volontà di nutrirci, l’apparato sessuale, l’aspetto oggettivato della volontà di accoppiarsi e riprodursi ecc. L’intero mondo fenomenico non è che il modo in cui la volontà si manifesta o si rende visibile a se stessa nella rappresentazione spazio-temporale. La volontà di vivere è insomma l’essenza segreta di tutte le cose, ossia la cosa in sé dell’universo, finalmente svelata:

essa é l’intimo essere, il nocciolo di ogni singolo, ed ugualmente del Tutto.

masso erratico

Anche il mondo inorganico è manifestazione fenomenica della volontà

La natura inorganica, quella organica, il mondo vegetale e animale fino all’uomo, costituiscono infatti i gradi successivi di oggettivazione della volontà.

L’urto è per la pietra ciò che il motivo è per me; quello che appare nella pietra come coesione, peso, perseveranza nello stato acquisito, è nella sua essenza identico a quello che io riconosco in me come volontà, e che anche la pietra riconoscerebbe come volontà se fosse dotata di conoscenza.

La volontà fondamentale del vivente è, d’altra parte, la cosa più visibile in ogni creatura:

La dentatura del pescecane, gli artigli dell’aquila, la gola del coccodrillo non esprimono forse senz’altro che cosa essi vogliano e quale sia la loro origine?

 

3.3 Il mondo come gigantesco pasto

Non appena li vediamo sappiamo subito quale è il loro Grundwollen, la loro volontà originaria, cioè qual è la loro natura profonda. La volontà oggettivata offre dunque uno spettacolo desolante di lotta e sopraffazione, di miseria e dolore, nel quale le forze naturali competono contendendosi il limitato spazio della materia. Le forme viventi sembrano avere come condizione necessaria della loro sopravvivenza la morte e la sopraffazione di altre forme viventi. È come se la volontà, per affermarsi, divorasse continuamente le proprie stesse oggettivazioni.

foca

Wille zum Leben, un gigantesco pasto

Grundwollen

Grundwollen

Nella natura si riversa quindi una volontà insaziabile: essa appare concepita come un «gigantesco pasto», come un divoramento reciproco in cui

«ogni individuo è nutrimento e preda dell’altro»,

noi stessi, noi uomini che in tutta la nostra vita abbiamo tanto divorato esseri ed organismi viventi finiremo a nostra volta divorati dai vermi; che verranno a loro volta divorati,

perché un essere vivente non può mantenersi in vita se non a spese di un altro: la volontà di vivere si nutre della sua propria sostanza e fa di sé in diverse forme il proprio nutrimento.

Sollevato il velo di Maya dei sensi ingannatori, ciò che si rivela allo sguardo, dietro l’apparenza razionale del fenomeno, cioè del mondo come rappresentazione, è lo spettacolo di una volontà cieca e irrazionale, che non si propone altro scopo che la propria autoaffermazione. La volontà vuole se stessa: è una volontà di vivere cieca e astuta, che sfrutta ogni occasione per affermarsi, senza avere di mira uno scopo razionale. È questo, per Schopenhauer, il volto vero e demoniaco del mondo, il mondo come volontà.

 

Schopenhauer - volontà

 

Ciò che viene universalmente supposto come positivo, ciò che noi chiamiamo l’ente, e la cui negazione è espressa nel concetto del nulla nel suo significato più generale, è appunto il mondo della rappresentazione, che io ho indicato come oggettità e specchio della volontà. E questa volontà e questo mondo siamo poi anche noi stessi, e al mondo appartiene la rappresentazione in generale, come uno dei suoi aspetti: forma di tale rappresentazione sono spazio e tempo, quindi tutto ciò che da questo punto di vista esiste deve essere posto in un “dove” e in un “quando”. Negazione, soppressione e conversione della volontà significa anche soppressione e scomparsa del mondo, che la rispecchia. Non vedendo più la volontà in questo specchio, invano ci domandiamo dove si sia rivolta, e ci lamentiamo allora perché essa non ha più né “dove” né “quando”, ed è svanita nel nulla.

Se fosse possibile per noi un punto di vista rovesciato, i segni si invertirebbero e comprenderemmo che ciò che per noi è l’ente è il nulla, e il nulla è l’ente. Sino a che, però, noi medesimi siamo la volontà di vivere, il nulla può da noi essere conosciuto solo negativamente, in quanto l’antico principio di Empedocle, che il simile può essere conosciuto soltanto dal simile, ci esclude ogni possibilità di conoscenza, come, al contrario, si fonda su quel principio la possibilità di tutta la nostra conoscenza reale, ossia il mondo come rappresentazione, o l’oggettità della volontà. Il mondo è infatti l’autoconoscenza della volontà.

Se tuttavia si volesse ancora insistere nel pretendere in qualche modo dalla filosofia una cognizione positiva di ciò, che essa può esprimere solo negativamente, come negazione della volontà, non avremmo altra possibilità che richiamarci a quello stato, di cui hanno fatto esperienza tutti coloro, che sono pervenuti alla totale negazione della volontà, che ha avuto i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, e così di seguito; ma questo stato non può essere chiamato una vera e propria conoscenza, perché non ha più la forma del soggetto e dell’oggetto, ed è inoltre accessibile solo all’esperienza personale e incomunicabile.

Noi, invece, che ci atteniamo al campo della filosofia, non possiamo che accontentarci della conoscenza negativa, paghi di aver toccato il confine estremo della positiva. Abbiamo riconosciuto nella volontà l’essenza in sé del mondo, e in tutti i fenomeni del mondo niente altro che l’oggettità della volontà; abbiamo seguito questa oggettità dall’impulso inconscio delle forze oscure della natura sino alle più lucide azioni dell’uomo, non vogliamo certo arretrare dinanzi alla conseguenza, che con la libera negazione e con la rinuncia della volontà vengono soppressi anche tutti quei fenomeni e quel continuo incalzare e spingere senza fine e senza sosta, in tutti i gradi dell’oggettità, nel quale e per il quale il mondo consiste, viene soppressa la varietà delle forme, che di grado in grado si succedono, viene totalmente soppresso, con la volontà, il suo fenomeno, vengono ancora soppresse le forme generali del fenomeno, tempo e spazio, e finalmente la prima forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Nessuna volontà: nessuna rappresentazione, nessun mondo.

Dinanzi a noi non resta in verità che il nulla. Ma ciò che si ribella contro questo dissolversi nel nulla, la nostra natura, e proprio nient’altro che la volontà di vivere, che è noi stessi, come è il nostro mondo. Il fatto che noi abbiamo tanto in orrore il nulla, non è se non un’altra manifestazione che noi avidamente bramiamo la vita, che nient’altro siamo se non questa volontà, che nient’altro conosciamo se non essa. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla nostra miseria e limitatezza verso coloro, che hanno superato il mondo e nei quali la volontà, pervenuta alla piena conoscenza di sé, ha ritrovato se stessa in tutte le cose e quindi ha liberamente rinnegato se stessa; verso coloro, che ormai attendono soltanto di vedere svanire col corpo l’ultima traccia della volontà, che lo anima; allora, in luogo dell’incessante incalzare e spingere, in luogo del perenne passaggio dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore, in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, di cui è costituito quel sogno che è la vita di ogni uomo che ancora vuole, ci appare quella pace, che sta più in alto di ogni ragione, quella totale quiete dell’animo, simile alla calma del mare, quel profondo riposo, imperturbabile sicurezza e serenità, il cui semplice riflesso nel volto, come l’hanno rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e sicuro vangelo: solo la conoscenza è rimasta, la volontà si è dissolta.

E noi volgiamo lo sguardo con profonda e dolorosa nostalgia a quello stato, vicino al quale si mostra in piena luce, per contrasto, la miserevolezza e perdizione del nostro. Eppure questa considerazione è la sola che ci possa consolare durevolmente quando da un lato abbiamo riconosciuto che il dolore insanabile l’affanno senza fine sono essenziali al fenomeno della volontà, al mondo, è dall’altro vediamo che con la soppressione della volontà si dissolve il mondo, e che dinanzi a noi non rimane che il vuoto nulla. In tal modo, dunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che invero raramente ci è dato di incontrare nella nostra esperienza, ma che ci vengono posti sotto gli occhi dalle loro storie e, col suggello dell’intima verità, dall’arte, dobbiamo discacciare la tetra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo ad ogni virtú e santità e che noi temiamo, come i bambini le tenebre, e non già, come fanno gli indiani, eluderlo con miti e parole prive di senso, come il riassorbimento in Brahma o il Nirvana dei buddisti. Noi vogliamo piuttosto dichiararlo liberamente: ciò che rimane dopo la totale soppressione della volontà è certo, per tutti coloro che della volontà sono ancora pieni, il nulla. Ma al contrario per coloro nei quali la volontà si è spontaneamente rovesciata e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è il nulla [Il Mondo come volontà e rappresentazione, I, 71].

Sigmund Freud (1856 – 1939)

In Una difficoltà della psicoanalisi (1917) Freud ha reso omaggio a Schopenhauer a cui attribuisce la comprensione del concetto di inconscio:

“Probabilmente pochissimi uomini hanno compreso che ammettere l’esistenza di processi psichici inconsci significa compiere un passo denso di conseguenze per la scienza e per la vita. Affrettiamoci comunque ad aggiungere che un tale passo la psicoanalisi non l’ha compiuto per prima. Molti filosofi possono essere citati come precursori, e sopra tutti Schopenhauer, la cui “volontà inconscia” può essere equiparata alle pulsioni psichiche di cui parla la psicoanalisi”. Secondo Schopenhauer, infatti, ciascuno di noi è abitato da una doppia soggettività: la “soggettività della specie” che impiega gli individui per i suoi interessi che sono poi quelli della propria conservazione, e la “soggettività dell’individuo” che si illude di disegnare un mondo in base ai suoi progetti, che altro non sono se non illusioni per vivere e non vedere che a cadenzare il ritmo della vita sono le immodificabili esigenze della specie”.

 

4. Dalla metafisica all’etica: servitù dell’intelletto e liberazione

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critica schopenhaueriana al dover essere

La visione schopenhaueriana della volontà ha, evidentementea, conseguenze etiche (ma non moralistiche). Schopenhauer critica il tradizionale dualismo della filosofia teoretica e pratica, che considera una derivazione del dualismo corpo e anima di ascendenze ebraico-cristiane, e di essere e dover essere, propria del rigorismo kantiano, il quale prescrive come il comportamento umano dovrebbe essere (sulla base di vuote speculazioni trascendenti) piuttosto che analizzarlo e descriverlo. Quelli che, come Kant, vogliono prescrivere al mondo un dovere incondizionato cadono in una pretesa assurda:

é una contraddizione palese, chiamare libera la volontà e tuttavia prescriverle delle leggi secondo cui debba volere: “dover volere”, come chi dicesse “ferro di legno”.

L’etica di Schopenhauer si concentra dunque sulla risposta all’unico problema della libertà del volere. Per affrontare questa domanda bisogna preliminarmente chiarire qual é in generale il rapporto tra intelletto e volontà.

I primi due libri del Mondo contenenti, rispettivamente, una gnoseologia e una metafisica – sviluppano una teoria dell’immancabile servitù dell’intelletto alla volontà: la volontà è concepita come un’essenza metafisica, unica e identica in tutte le sue manifestazioni fenomeniche. Essa è al di là dei modi della nostra comprensione intellettuale e, come tale, senza scopi né fini, dunque irrazionale. La sua oggettivazione necessaria sono i singoli modi finiti in cui essa si esplica nello spazio e nel tempo: i singoli corpi e organismi che si sviluppano dalla natura inorganica all’uomo.

Nell’uomo si presenta per la prima volta il fenomeno della coscienza che è peraltro legato al funzionamento di un organo corporeo: il cervello. Anche la coscienza dunque è un fenomeno della volontà – è cioè, contro ogni spiritualismo, epifenomeno del cervello – Schopenhauer assume qui la posizione materialista dei pitagorici Simmia e Cebete nel Fedro platonico.

Non è dunque la volontà ad attuare nella volizione gli scopi intellettuali dell’intelletto, ma è quest’ultimo a offrire alla volontà che ne muove, per così dire, i fili, i motivi perché essa possa attuare “razionalmente” ciò che già vuole inconsciamente e irrazionalmente. Se questa dottrina fosse l’unica insegnata dal Mondo, non ci sarebbe spazio in Schopenhauer per un’etica della libertà, ma nel terzo e nel quarto libro che contengono, rispettivamente, un’estetica e un’etica – l’autore arricchisce questo pensiero fondamentale di contenuti nuovi e inattesi.

 

 

Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia 1818

Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia 1818

5. Arte ed etica come vie di liberazione

O anima mia, non aspirare alla vita immortale,
ma esaurisci il campo del possibile.

Pindaro, III Pitica

L’estetica di Schopenhauer è un ampliamento della sua gnoseologia: l’arte è infatti una forma di conoscenza. La conoscenza dell’uomo comune è essenzialmente utilitaria, al contrario, quella del genio o dell’artista è rivolta al«l’idea che oltrepassa i limiti fenomenici per cogliere l’oggettività immediata della volontà». 

Con chiaro riferimento al kantiano piacere disinteressato, l’artista diventa in Schopenhauer

«puro soggetto conoscente e occhio limpido del mondo»,

emancipandosi dal servizio alla volontà. L’arte rivela in ciò la possibilità, almeno momentanea, dell’intelletto, di svincolarsi dal servizio alla volontà, offrendo una risposta qualitativamente diversa all’enigma stesso della volontà.

La catarsi estetica della volontà (soprattutto) nella musica e nella tragedia, non sono però l’ultima risposta di Schopenhauer all’insensatezza della volontà.

 

 

Schopenhauer - estetica

 

 

6. Il problema della libertà e la liberazione dalla volontà

«Che miserabile morale quella che non sa riconoscere l’essere eterno presente in tutto ciò
che vive, che risplende di misterioso significato in ogni
occhio capace di vedere la luce del sole!».

Schopenhauer, Il fondamento della morale [contro l’etica specista di Kant]

Quella del Mondo è un’etica della liberazione. Il concetto di libertà è infatti un concetto negativo, in quanto significa semplicemente «negazione della necessità, negazione di causa ed effetto».

In Kant la volontà è libera in quanto coincide con la ragione. Essa è libera nel senso che, obbedendo alla legge di ragione che si esprime nella forma del dovere, obbedisce solo a se stessa: è cioè autonoma. Schopenhauer, invece, restringe l’ambito della ragione al fenomeno e concepisce la volontà come qualcosa di irrazionale, dunque la libertà non può essere definitiva positivamente, ma solo come negazione della necessità, cioè come liberazione.

compassione

Noluntas

L’uomo quindi non è libero, ma si libera, superando via via i condizionamenti del mondo fenomenico e approfondendo il senso della propria essenziale appartenenza alla volontà metafisica. Una prima possibilità gli è offerta dall’arte, nelle quale si realizza la perfetta coincidenza di soggetto e oggetto, fenomeno e noumeno, ma solo l’etica rende definitiva tale conquista, superando l’eccezionalità dell’esperienza estetica e instaurando nel soggetto uno stabile habitus morale.

L’uomo è libero solo identificandosi con la volontà metafisica, ma questa volontà è pura volontà di vivere. L’alternativa etica fondamentale sarà allora quella tra affermazione e negazione della volontà di vivere. Due sono i comportamenti etici possibili: quello di chi, avendo compreso che il mondo è solo fenomeno, e che l’unica realtà è la volontà, accetta di identificarsi attivamente con essa, cioè afferma la vita,

amandola com’è e bandendo il timore della morte come un’illusione suscitata in lui dall’insensato orrore di poter perdere un giorno il possesso del presente

o quello dell’asceta, che nega la vita e rinuncia in se stesso alla volontà.

compassione

e compassione

L’asceta è colui che pur avendo compreso che l’essenza del mondo é la volontà, ha orrore della realtà di dolore e miseria che tale identificazione porta con sé, e pur continuando a vivereil suicidio non é una soluzione, perché la volontà é immortale e ogni gesto si limita al solo fenomeno – sospende liberamente il suo assenso alla volontà. 

Come si è visto la vita è una lotta della volontà con se stessa, in un processo di continua creazione e distruzione. La sofferenza muta del mondo vegetale e quella inconsapevole del mondo animale giunge solo nell’uomo alla coscienza della verità fondamentale che «ogni vivere è per essenza un soffrire».

La vita, anche considerata da un puro punto di vista utilitaristico è un affare in perdita, in perpetua oscillazione tra il dolore e la noia. L’uomo che si eleva alla ragione si domanda cosa renda definitiva l’eliminazione del dolore: se l’affermazione della vita, cioè l’usare la conoscenza come un motivo per vivere, o negarla usando la conoscenza come quietivo della volontà di vita.

Schopenhauer opta per questa seconda visione, in un’ascetismo che si traduce in etica della compassione, nella capacità di com-patire, soffrire con l’altro, abolendo ogni distinzione tra sé e gli altri e rifiutando ogni egoismo, nella consapevolezza che si tratta della forma tipica di cui si serve la volontà per attuare i suoi scopi. La volontà trova così la forma più pura di negazione: la noluntas.

Schopenhauer - etica

 

6.1 La compassione universale [Libro quarto, §§ 67 e 68]

[… la volontà è l’in-sé d’ogni fenomeno, e quindi, come tale, sciolta dalle forme fenomeniche e dalla pluralità; la qual verità io, riguardo alla condotta, non so esprimere più degnamente che con la citata formula del Veda: «Tat tvam asi!» («questo sei tu!»). Chi sa ripeterla a se stesso con limpida cognizione e ferma, intima persuasione innanzi a ciascun essere con cui venga in contatto, è certo con essa di conseguire ogni virtù e beatitudine, e si trova sulla via diritta che conduce alla redenzione.

Ma, prima che io proceda oltre e mostri, come termine della mia trattazione, in qual modo l’amore, di cui già conosciamo essere origine ed essenza il poter guardare di là dal principio individuationis, conduca alla redenzione, ossia alla cessazione completa della volontà di vivere, cioè d’ogni volere; ed in qual modo vi conduca pure un’altra via, meno dolce, eppur più frequente; deve ancora venir formulato e chiarito un paradosso: non perché sia tale, ma perché è vero, ed entra nella compiutezza del pensiero ch’io voglio esporre. Esso è il seguente: «Ogni amore τελος, caritas, è compassione».

§ 67

Leonida

Leonida

Abbiamo visto come dall’oltrepassamento del principium individuationis venisse, nel grado minore, la giustizia, e nel maggiore la bontà vera e propria dell’animo, la quale ci si mostrò come puro, ossia disinteressato amore per gli altri. Dove quest’amore si fa perfetto, rende l’individuo estraneo e il suo destino affatto pari al nostro: più in là non si può andare, non essendovi ragione di preferire l’altrui individuo al nostro. Può nondimeno la massa degli individui estranei, il cui benessere o la cui vita siano in pericolo, prevalere sui riguardi del bene individuale. In tal caso il carattere asceso all’altissima bontà e alla perfetta generosità sacrifica in tutto il suo bene al bene dei più: così periva Codro, così Leonida, così Regolo, così Decio Mure, così Arnoldo di Winkelried, così ciascuno, che volontariamente e consapevolmente per i suoi, per la patria va a morte sicura.

Socrate

Socrate

Giordano

Giordano Bruno

Alla medesima altezza sta chiunque di buon animo affronti dolore e morte per l’affermazione di ciò che all’umanità intera giova ed a buon diritto spetta, ossia per verità generali e importanti, e per l’estirpazione di grossi errori.Così periva Socrate, così Giordano Bruno, così trovarono tanti eroi della verità la morte sul rogo, tra le mani dei preti.

Ma riguardo al paradosso più sopra formulato ho da rammentare, che noi già per l’addietro trovammo essere inerente alla vita, nel suo complesso, il dolore, e dalla vita inseparabile. Vedemmo pure, come ogni desiderio nasca da un bisogno, da una mancanza, da una sofferenza; che quindi ogni appagamento è appena un dolore tolto di mezzo, e non già un piacere positivo; che le gioie appariscono menzogneramente al desiderio come un bene positivo, mentre in verità non sono che negative, quali cessazioni d’un male. Quel che adunque bontà, amore e nobiltà possono fare per altri, è sempre nient’altro che lenimento dei loro mali; e quel che per conseguenza può muoverle alle buone azioni e opere dell’amore, è sempre soltanto la conoscenza dell’altrui dolore, fatto comprensibile attraverso il dolore proprio, e messo a pari di questo.

Ma da ciò risulta che il puro amore (αγαπη, caritas) è, per sua natura, compassione, sia pur grande o piccolo (è tra questi ogni desiderio inappagato) il dolore ch’esso lenisce. In diretto contrasto con Kant, il quale ogni vera bontà e ogni virtù ammette come tali solo quando siano originate dalla riflessione astratta, e precisamente dal concetto del dovere e dell’imperativo categorico, mentre dichiara debolezza, e non virtù, la compassione provata, non esiteremo a dire: il puro concetto è per la virtù genuina tanto infecondo, quanto per la genuina arte: ogni vero e puro amore è compassione, e ogni amore che non sia compassione è egoismo. Egoismo è l’ερως; compassione è l’αγαπη. I due si trovano spesso frammisti. Perfino la vera amicizia è sempre mescolanza di egoismo e compassione: quello sta nel compiacersi della presenza dell’amico, la cui individualità corrisponde con la nostra, e costituisce dell’amicizia quasi sempre la massima parte; questa invece, la compassione, si manifesta nel partecipare sinceramente al suo bene e al suo male, e nei sacrifici disinteressati che per lui si fanno. Perfino Spinoza dice: benevolentia nihil aliud est, quam cupiditas ex commiseratione orta. (Eth., II, pr. 27, cor. 3, schol.). A conferma del nostro paradosso si può osservare, che accento e parole della lingua, e carezze del puro amore coincidono in tutto col tono della compassione: e inoltre, en passant, che in italiano compassione e puro amore vengono indicati con la stessa parola: pietà.

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Francesco Petrarca

Qui è pure il luogo di spiegare un’altra delle più sorprendenti proprietà dell’umana natura, il pianto, il quale, come il riso, appartiene alle manifestazioni ond’è l’uomo distinto dall’animale. Il piangere non è punto, senz’altro, espressione del dolore, perché i dolori per i quali si piange sono i meno. Anzi, secondo me, non si piange mai direttamente per un dolore provato, ma bensì sempre per il riprodursi di esso nella riflessione. Cioè, dal dolore provato, pur quand’è corporale, si passa a una pura rappresentazione di esso, e si trova allora sì compassionevole il proprio stato, che, se altri fosse a soffrire, siamo fermamente e sinceramente persuasi che l’aiuteremmo con tutta pietà e amore.

Ma intanto siamo noi stessi l’oggetto di quella nostra sincera pietà: col più soccorrevole animo sentiamo d’essere proprio noi i bisognosi d’aiuto; si sente di patire più di quanto potremmo resistere a veder patire un altro; e in tal situazione singolarmente complessa, in cui il dolore direttamente sentito ritorna alla percezione sol con un doppio rigiro, rappresentandocisi come estraneo, come tale compassionato, e quindi immediatamente ripercepito come nostro, la natura si da sollievo mediante quella strana convulsione corporea. Il pianto è dunque pietà di se stesso, ossia pietà che torna indietro al suo punto di partenza. Perciò esso ha per condizione la capacità dell’amore e della compassione, e la fantasia; quindi né uomini duri di cuore né uomini privi di fantasia piangono facilmente, ed il pianto viene anzi ognora considerato come segno d’un certo grado di bontà del carattere, e disarma l’ira, perché si sente, che chi può ancora piangere, deve per necessità essere anche capace d’amore, ossia di pietà verso altri; questo essendo che ci mette, nella maniera descritta, in quella disposizione la quale al pianto conduce. Affatto conforme a questa spiegazione, è il modo come Petrarca, esprimendo spontaneo e vero il proprio sentimento, descrive l’origine delle sue lacrime:

I’ vo pensando: e nel pensar m’assale
Una pietà sì forte di me stesso,
Che mi conduce spesso
Ad alto lagrimar, ch’i’ non soleva.

Quanto abbiamo detto trova conferma nel fatto che bambini, i quali abbiano patito un dolore, si mettono di solito a piangere solo quando li si compassiona; ossia non per il dolore, ma per la rappresentazione di esso. Quando noi non siam mossi al pianto da nostri, bensì da altrui dolori, ciò accade perché vivacemente ci mettiamo con la fantasia al posto di chi soffre, oppure nel suo destino scorgiamo la sorte dell’umanità intera e quindi principalmente di noi stessi; e così per un ampio giro pur sempre veniamo a piangere su di noi, di noi abbiamo pietà. Questo sembra anche essere il motivo principale del comune, e quindi naturale, pianto nei casi di morte.

Chi piange un morto non piange ciò che ha perduto; che si vergognerebbe di lacrime sì egoiste; mentre invece a volte si vergogna di non piangere. Piange in primo luogo invero la sorte del defunto: nondimeno piange anche quando in seguito a lunghe, gravi e insanabili sofferenze la morte è per quegli una desiderabile liberazione. Principalmente lo stringe dunque compassione per il destino dell’umanità intera, la quale è in potere d’un fato di morte, in cui ogni vita per quanto attiva e spesso ricca d’azioni dovrà spegnersi e ridursi al nulla. E in questo fato dell’umanità egli vede soprattutto il fato proprio: tanto più, quanto più vicino era a lui il morto: più che mai, quanto il morto era suo padre. Fosse pure a quest’ultimo per età e malattia divenuta un tormento la vita, fosse pure il padre nel suo stato d’impotenza ridotto un carico grave per il figlio, questi piange pur sempre vivamente la sua morte: per il motivo che s’è detto.

§ 68

Dopo questa digressione sull’identità del puro amore e della pietà, la quale ultima facendo ritorno a noi medesimi ha per sintomo il fenomeno del pianto, riprendo il filo della nostra esposizione riguardante il valore etico della condotta; per venire a mostrare come dalla sorgente medesima, da cui proviene ogni bontà, amore, virtù e nobiltà, si origini infine anche quella, ch’io chiamo negazione della volontà di vivere.

Come vedemmo odio e malvagità aver per condizione l’egoismo, e questo poggiare sulla conoscenza circoscritta nel principium individuationis; così trovammo essere origine ed essenza della giustizia, nonché, salendo più in su, dell’amore e della nobiltà fino ai gradi più alti, l’oltrepassamento di quel principium individuationis. Che solo il guardar di là da questo sopprime la distinzione tra l’individuo nostro e gli altri, e rende possibile e spiega la perfetta bontà dell’animo, fino al più disinteressato amore e al più generoso sacrificio di sé.

migrantiMa, dato in alto grado di chiarezza questo superamento del principium individuationis, data questa diretta cognizione della volontà identica in tutti i suoi fenomeni, essa eserciterà immediatamente sulla volontà un influsso procedente ancor più lontano.

Se invero davanti agli occhi d’un uomo quel velo di Maja, che è il principium individuationis, s’è tanto sollevato, che quest’uomo non ponga più l’egoistico divario tra la sua persona e l’altrui, bensì agli altrui dolori tanta parte prenda, quanta ai propri, e quindi non soltanto sia in altissima misura soccorrevole, ma pronto addirittura a sacrificar se stesso non appena più individui estranei sian da salvare col sacrificio suo; allora ne consegue spontaneasofferenza animalemente che un tale uomo, il quale in tutti gli esseri il suo più intimo e più vero io riconosce, anche gl’infiniti mali d’ogni vivente tiene come suoi, e così fa suo il dolore del mondo intero.

Nessun dolore gli è più straniero. Tutti gli affanni altrui, ch’egli vede e può sì raramente lenire; tutti gli affanni, di cui ha notizia indiretta, o che semplicemente conosce come possibili, agiscono sullo spirito di luOrso-in-cattivitài come i suoi propri.

Non è più l’alterno bene e male della sua persona, quel ch’egli ha in vista, com’è il caso degli uomini ancora prigionieri dell’egoismo; invece, scorgendo egli di là dal principium individuationis, tutto gli è ugualmente vicino. Conosce il tutto, ne comprende l’essenza, e la trova sempre involta in un continuo perire, in un vano aspirare, in intimo contrasto e in perenne dolore; vede, dovunque guardi, la sofferente umanità e la sofferente animalità, e un mondo evanescente.

 

6.2 Fëdor Dostoevskij, La compassione di Sonja

Fëdor Dostoevskij (1821 – 1881)

Artur Schopenhauer

Schopenhauer era ateo, questa pagina di Dostoevskji, tratta da Delitto e castigo, affida invece al Cristo il compito di insegnarci cosa sono l’amore, la pietà e il perdono.

Non si tratta però di una pagina religiosa, ma di una bellissima lettura filosofica nella quale, dietro l’incalzare di immagine poetiche si sviluppa una potente dialettica che abbandona le semplici soluzioni proposte inizialmente e si innalza a qualcosa di simile alla noluntas, la compassione universale.

 

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