Stefano Rodotà, Sul presidenzialismo e le riforme costituzionali

by gabriella

repubblicaTraggo da Micromega, la riflessione di Rodotà su presidenzialismo, autoritarismo e ingegneria sociale nei progetti di “riforma” allo studio del nuovo esecutivo.

Come nei primi anni Novanta sembra tornare oggi il tempo di una ingegneria costituzionale che appare ignara del contesto in cui la riforma delle istituzioni dovrebbe funzionare. Che cosa diranno gli odierni sostenitori di variegate forme di presidenzialismo quando il “leaderismo carismatico” renderà palesi le sue conseguenze accentratrici, oligarchiche, autoritarie?

di Stefano Rodotà, da Repubblica, 7 giugno 2013

Nel tempo ingannevole della “pacificazione”, il conflitto giunge nel cuore del sistema e mette in discussione la stessa Costituzione. Una politica debole, da anni incapace di riflettere sulla propria crisi, compie una pericolosa opera di rimozione e imputa tutte le attuali difficoltà al testo costituzionale. Le forze presenti in Parlamento non ce la fanno a sciogliere i nodi tutti politici che hanno reso impossibile una decisione sull’elezione del Presidente della Repubblica? Colpa della Costituzione. “Je suis tombé par terre, c’est la faute à Voltaire”.

Imboccando questa strada, non si dedica la minima attenzione all’esperienza degli anni passati, alle manipolazioni istituzionali che, sbandierate come la soluzione d’ogni male, hanno aggravato i problemi che dicevano di voler risolvere, rendendo così la crisi sempre più aggrovigliata. Ho davanti a me le dichiarazioni di politici e commentatori, i saggi e i libri di politologi che, all’indomani della riforma elettorale del 1993, sostenevano che l’instaurato bipolarismo, con l’alternanza nel governo, avrebbe assicurato assoluta stabilità governativa, cancellato le pessime abitudini della Prima Repubblica con i suoi vertici di maggioranza e giochi di correnti, eliminato la corruzione. E tutto questo avveniva in un clima che svalutava la funzione rappresentativa delle Camere, attribuendo alle elezioni sostanzialmente la funzione di investire un governo e accentuando così la personalizzazione della politica e le inevitabili derive populiste.

Sappiamo come è andata a finire. E gli autori e i fautori di quella riforma oggi si limitano a lamentare il bipolarismo “rissoso” o “conflittuale”, senza un filo non dirò di autocritica, parola impropria, ma neppure di analisi seria e responsabile di quel che è accaduto. Eppure quel rischio era stato segnalato proprio nel momento in cui si imboccava la via referendaria alla riforma, suggerendo altre soluzioni. Ma non si volle riflettere intorno all’ambiente politico e istituzionale in cui quella riforma veniva calata, sulla dissoluzione in corso del vecchio sistema dei partiti e sulla inevitabile conflittualità che sarebbe derivata da una riforma che, invece di accompagnare una transizione difficile, esasperava proprio la logica del conflitto.

Oggi sembra tornare il tempo degli apprendisti stregoni e di una ingegneria costituzionale che, di nuovo, appare ignara del contesto in cui la riforma dovrebbe funzionare. Che cosa diranno gli odierni sostenitori di variegate forme di presidenzialismo quando, in un domani non troppo lontano, il “leaderismo carismatico” renderà palesi le sue conseguenze accentratrici, oligarchiche, autoritarie? Diranno che si trattava di effetti inattesi?

Questo ci porta al modo in cui si è voluto strutturare il processo di riforma. Si è abbandonata la procedura prevista dall’articolo 138 per la revisione costituzionale, norma di garanzia che dovrebbe sempre essere tenuta ferma proprio per evitare che la Costituzione possa essere cambiata per esigenze congiunturali e strumentali. Compaiono nuovi soggetti – una supercommissione parlamentare e una incredibile e pletorica commissione di esperti, con componenti a pieno titolo e “relatori”. Il Parlamento viene ritenuto inidoneo per affrontare il tema della riforma e così, consapevoli o meno, si è imboccata una strada tortuosa che finisce con il configurare una sorta di potere “costituente”, del tutto estraneo alla logica della revisione costituzionale, concepita e regolata come parte del sistema “costituito”. Sono rivelatrici le parole adoperate nella risoluzione parlamentare: “una procedura straordinaria di revisione costituzionale”. L’abbandono della linea indicata dalla Costituzione è dunque dichiarato.

Si entra così in una dimensione di dichiarata “discontinuità”, che apre ulteriori questioni. Quando si incide profondamente sulla forma di governo, come si dichiara di voler fare, si finisce con l’incidere anche sulla forma di Stato, come hanno messo in evidenza molti studiosi del diritto costituzionale. E, di fronte alla modifica della forma di governo e di Stato, si può porre un altro interrogativo. Queste modifiche sono compatibili con l’articolo 139 della Costituzione, dove si stabilisce che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”? Originata dalla volontà di impedire una restaurazione monarchica, questa norma è stata poi letta per definire quali siano gli elementi costitutivi della forma repubblicana così come è stata disegnata dall’insieme del testo costituzionale. Ne conseguirebbe che la modifica o l’eliminazione di uno di questi elementi sarebbe preclusa alla stessa revisione costituzionale. Sono nodi problematici, certamente. Che, tuttavia, non possono essere ignorati nel momento in cui si vuole intervenire sulla Costituzione abbandonando il modello di democrazia rappresentativa intorno al quale è stata costruita.

Ha osservato giustamente Gustavo Zagrebelsky che l’introduzione del presidenzialismo nel nostro paese

“si risolverebbe in una misura non democratica, ma oligarchica. L’investitura d’un uomo solo al potere non è precisamente l’idea di una democrazia partecipativa che sta scritta nella Costituzione”.

Il riferimento al “nostro paese” risponde proprio a quella necessità di valutare ogni riforma costituzionale nel contesto in cui è destinata ad operare. Sì che ha poco senso l’obiezione che il semipresidenzialismo, ad esempio, è adottato in un paese sicuramente democratico come la Francia. Questa obiezione, anzi, obbliga a riflettere sul fatto che la compatibilità di quel sistema con la democrazia è strettamente legata a un dato istituzionale – l’assenza in Francia di gravi fattori distorsivi, come il conflitto d’interessi o il controllo di una parte rilevantissima del sistema dei media; e a un dato politico — il rifiuto di usare il partito di Le Pen come stampella di uno dei due schieramenti in campo, mentre in Italia pure la destra estrema è stata arruolata sotto le bandiere di una coalizione pur di vincere.

Più sostanziale, tuttavia, è la contraddizione con il modello della democrazia partecipativa. Proprio nel momento in cui la necessità di questo modello si manifesta prepotentemente per le richieste dei cittadini e il mutamento continuo dello scenario tecnologico, finisce con l’apparire una pulsione suicida l’allontanarsi da esso, con evidenti effetti di delegittimazione ulteriore delle istituzioni e di conflitti che tutto ciò comporterebbe. Una revisione condotta secondo la logica costituzionale, e non contro di essa, esige proprio la valorizzazione di tutti gli strumenti della democrazia partecipativa già presenti nella Costituzione, tirando un filo che va dai referendum alle petizioni, alle proposte di legge di iniziativa popolare. Le proposte già ci sono, per quelle sull’iniziativa legislativa popolare basta una modifica dei regolamenti parlamentari, e questo aprirebbe canali di comunicazione con i cittadini dai quali la stessa democrazia rappresentativa si gioverebbe grandemente. Altrettanto chiare sono le proposte sulla riduzione del numero dei parlamentari, sul superamento del bicameralismo paritario, su forme ragionevoli di rafforzamento della stabilità del governo attraverso strumenti come la sfiducia costruttiva. Si tratta di proposte largamente condivise, che potrebbero essere rapidamente approvate con benefici per l’efficienza del sistema senza curvature autoritarie. E che potrebbero essere affidate a singoli provvedimenti di riforma, senza ricorrere ad un unico “pacchetto” di riforme, più farraginoso per l’approvazione e che distorcerebbe il referendum popolare al quale la riforma dovrà essere sottoposta, che esige quesiti chiari e omogenei.

Vi è, dunque, un’altra linea di riforma istituzionale, sulla quale varrà la pena di insistere e già raccoglie un consenso vastissimo tra i cittadini, alla quale bisognerà offrire la possibilità di manifestarsi pienamente. Solo così potrà consolidarsi quella cultura costituzionale che oggi manca, ma che è assolutamente indispensabile, “capace di adeguare la Costituzione ma soprattutto di rispettarla”.

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