L’omaggio di Stefano Sinibaldi a Frantz Fanon nel cinquantesimo anniversario della morte [8 dicembre 1961].
En tant qu’homme, je m’engage à affronter le risque de l’anéantissement pour que deux ou trois vérités jettent sur le monde leur essentielle clarté.
[Come uomo, mi impegno ad affrontare il rischio dell’annientamento perchè due o tre verità possano rischiarare il mondo]
Frantz Fanon
A Dicembre di cinquant’anni fa [l’articolo è uscito nel 2011], nel 1961, moriva, per una leucemia, Frantz Fanon. Solo pochi mesi prima, si era ancora in piena guerra franco-algerina, il coraggioso libraio-editore François Maspéro, aveva pubblicato il suo scritto sul colonialismo I dannati della terra [qui l’originale francese]. In Italia Einaudi lo pubblicherà subito dopo con una tempestività d’altri tempi.
Fanon nasce nel 1925 in Martinica, sotto la dominazione francese. Partecipa come volontario alla guerra di liberazione della Francia dalla dominazione nazista. Qui, in seguito, si stabilisce e, nel 1952, si laurea in Medicina specializzandosi in neuropsichiatria. L’anno dopo lavora in un ospedale algerino dove resterà fino al 1956 quando, per il suo appoggio al movimento per l’indipendenza, viene costretto ad abbandonare il paese. Si rifugia nella vicina Tunisi da dove opera il Comitato di coordinazione del Fronte di Liberazione Nazionale algerino ( FLN ). Il suo saggio nasce dall’esperienza in Algeria ma si allarga fino a diventare un esame e una condanna del colonialismo in sé, indicando nel “terzo mondo” il possibile futuro protagonista di un cambiamento del corso della storia. Fanon si rivolge, partendo dalla tragedia del Nord Africa, a tutta l’umanità andando ad esaminare i criteri alla base del fenomeno del colonialismo e dello sfruttamento in generale.
Jean-Paul Sartre coglie bene, nella prefazione al libro, questo aspetto:
… l’oppressione si palesa. I nostri soldati, oltremare, respingendo l’universalismo metropolitano, applicano al genere umano il “numerus clausus”: poiché nessuno può – senza reato- spogliare il suo simile, asservirlo od ucciderlo, pongono a principio che il colonizzato non è il simile dell’uomo … per giustificare il colono di trattarli da bestie da soma”.
Come sempre è il linguaggio che sancisce questa barriera, dice Fanon:
[…] il linguaggio del colono, quando parla del colonizzato, è un linguaggio zoologico […] il colono, quando vuole descrivere bene e trovare la parola giusta, si riferisce costantemente al bestiario.
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