In occasione della morte di Stuart Hall, tra i massimi teorici dei cultural studies, ripropongo la recensione di Claudio Gnesutta al volume collettaneo sulla crisi neoliberale che ha ospitato uno dei suoi ultimi contributi.
L’idea che il mercato è l’unico modo per organizzare la società, l’unico modo per guardare il mondo, l’unico criterio per decidere che cosa è buono e giusto e cosa non lo è, ha reso egemonico un progetto nato come dottrina economica e trasformatosi in una filosofia politica di lotta sociale.
What is this crisis? è la questione posta dall’ebook The Neoliberal Crisis nel quale Stuart Hall, Michael Rustin, John Clarke e Doreen Massey, collaboratori della rivista Soundings, indagano il ruolo materiale e culturale svolto dalla neoliberal revolution nella trasformazione della società inglese e ricercano le cause dell’attuale crisi e le prospettive politiche che ne possono derivare. Per quanto l’attenzione sia rivolta alla realtà britannica, le loro riflessioni hanno un interesse più generale, tenuto conto dell’importanza che ha avuto il thatcherismo e il suo prolungamento nel blairismo e nell’attuale cameronismo nel pensiero e nell’azione politica dell’ultimo trentennio.
I singoli contributi si presentano come articolazioni di un’elaborazione comune piuttosto compatta che analizza la crisi con riferimento non solo alla dimensione economica, ma anche alle tensioni accumulatesi a livello sociale, politico e culturale. L’analisi è condotta attraverso la conjunctural analysis con l’obiettivo di accertare come l’interazione tra l’instabilità dei diversi fattori possa determinare la specificità del processo di trasformazione di un dato assetto sociale. La convinzione che la dinamica di ciascuna dimensione è, almeno in parte, autonoma da quella delle altre e possa quindi presentarsi con differenti gradi di criticità indica che per l’emergere di una crisi è necessario che si condensino in un sufficiente numero di contraddizioni. Poiché le diverse dimensioni sono molteplici, la crisi può manifestarsi per l’affermarsi di diverse combinazioni di instabilità permettendo alla congiuntural analysis di sostenere che le crisi siano strutturalmente “sovradeterminate” e che i gradi di libertà che esse presentano ammettono una pluralità dei modi (politici) di soluzione.
Crisi sistemica e crisi sociale
La convinzione che se una crisi della congiuntura non può aversi se non vi è coinvolto il “nucleo economico”, essa non può nemmeno essere compiutamente compresa se non si tiene conto delle altre contraddizioni presenti a livello sociale, politico e culturale indica il retaggio intellettuale di Gramsci e di Althusser, ripetutamente riconosciuto, per la rilevanza attribuita al consenso sociale nello spiegare l’egemonia delle forme di dominio sulla società.
Sono frequenti i richiami a Policing the Crisis di Stuart Hall per la sua interpretazione del trionfo della rivoluzione thatcheriana per il combinarsi di una crisi sistemica (contrazione dei livelli di profitto industriale) con una crisi sociale (difficoltà a garantire la domanda di garanzie sociali universalistiche). Alla soluzione del conflitto ha contribuito il diffondersi del convincimento nel corpo sociale del necessario superamento della società del welfare e l’affermarsi di una visione che vede negli interessi del capitale le condizioni per il progresso di tutti. Il radicamento di questa visione è risultato evidente quando il progetto thatcheriano è adottato dal New Labour di Blair che, pur con un volto più umano, abbraccia la managerial marketisation e prosegue nell’azione favorevole alla liberalizzazione dell’economia.
L’ipertrofia del settore finanziario è un effetto, non la causa
Nel libro non si sottovalutano però i fattori economici della crisi. Numerosi sono gli spunti per dimostrare che l’ipertrofia del settore finanziario e la sua fragilità sono più l’effetto che la causa dell’instabilità. Si sottolinea che la crescita delle istituzioni finanziarie è stata sospinta dalla liberalizzazione dei movimenti di capitale sostenuta dalle imprese multinazionali alla ricerca di opportunità alternative nei paesi che sarebbero diventati “emergenti”. Allo sviluppo del processo ha contribuito la liberalizzazione del settore finanziario che ha consentito alla City di consolidare (con Wall Street) il suo ruolo dominante nel sistema finanziario globale.
La nuova divisione globale del lavoro accompagnata da politiche di compressione del potere contrattuale dei lavoratori e di contenimento del ruolo dello Stato come agente di redistribuzione e di giustizia sociale ha portato a un sistematico slittamento dei redditi verso la proprietà e il capitale e all’aumento delle disuguaglianze sociali. D’altra parte, il contenimento della domanda interna per la distorta distribuzione dei redditi è stata compensata, quale alternativa al welfare pubblico, dall’espansione della spesa in debito – alla lunga debito “cattivo” – a sostegno dei consumi interni. La forte crescita degli Stati Uniti sostenuta dalla sua politica monetaria riflette la necessità di quel paese di essere riconosciuto come leader globale in un processo che non appare sostenibile, non solo dal punto di vista economico come la crisi attesterà. A livello geopolitico, il crescente indebitamento nei confronti dei paesi emergenti necessario agli Stati Uniti per attestare la loro centralità mina gli equilibri mondiali e prospetta allarmanti tensioni nel caso di messa in discussione della loro leadership. A livello ambientale, la crescita sostenuta di un paese ad alto consumo di risorse naturali accelera il loro esaurimento e accentua la competizione politica sulle risorse scarse.
L’egemonia “Tina” (There Is No Alternative)
Ho elencato tutte queste situazioni di instabilità per due motivi. Il primo per dar conto di quella sovradeterminazione della crisi che giustifica l’analisi congiunturale. Il secondo per indicare che i fattori materiali dell’instabilità non sono trascurati in un’analisi che privilegia la dimensione culturale che è alla base del successo dell’egemonia neoliberista negli ultimi trent’anni. In un periodo in cui si spaccia la scomparsa delle ideologie, prende corpo la “narrazione” del neoliberismo che soppianta la narrazione keynesiana di uno stato di welfare in grado di contenere la disoccupazione e di proteggere persone e ceti economicamente vulnerabili in una prospettiva di maggiore giustizia sociale. Il dominio della finanza sull’economia è visto allora come il frutto di un processo che ha reso socialmente accettabile una visione che attribuisce al mercato competitivo non regolamentato, libero quindi dall’intervento pubblico e dalle pressioni dei bisogni sociali, il ruolo di meccanismo oggettivo cui affidarsi per dar forma e contenuto allo sviluppo economico e sociale. In una visione in cui diviene “senso comune” che le forze di mercato sono un elemento “naturale”, e quindi non suscettibili di critica morale e politica, l’ideologia neoliberista diviene l’organizzatore culturale della trasformazione indotta dalle politiche di liberalizzazione e di privatizzazione.
Tale funzione di sostegno culturale all’azione politica è sottolineata della ripulitura del discorso politico dei termini “vecchi” – interesse pubblico, proprietà pubblica, beni comuni, uguaglianza, ridistribuzione della ricchezza – per sostituirli nel lessico quotidiano con altri termini “positivi” (interesse individuale, proprietà, consumi) e con la giustificazione della concentrazione dei redditi e della ricchezza in quella sezione della società (la new élite legata alla finanza) giudicata “moderna”. Il cambiamento di linguaggio non sufficientemente contrastato ha decostruito la forma di coscienza che aveva informato il pensiero politico di sinistra con importanti implicazioni per lo sviluppo della democrazia sociale in quanto le aspirazioni all’uguaglianza, democrazia e cittadinanza cresciute in armonia con le condizioni materiali e politiche, attraverso la rivendicazione prima dei diritti civili, poi di quelli politici e infine di quelli economici e sociali, risultano svuotate per l’introiettato There is no alternative thachteriano. L’idea che il mercato è l’unico modo per organizzare la società, l’unico modo per guardare il mondo, l’unico criterio per decidere che cosa è buono e giusto e cosa non lo è, ha reso egemonico un progetto nato come dottrina economica e trasformatosi in una filosofia politica di lotta sociale.
Assenza di un conflitto manifesto
Emerge così il punto rilevante, ovvero la questione di quali ragioni spiegano che la crisi finanziaria non ha prodotto il rigetto di una narrazione che, allo scoppio della crisi, era apparsa in forte difficoltà per l’evidenza che i mercati non sono efficienti, che non sono stabili, che non sono il luogo della libertà e dell’uguaglianza. Non pare sufficiente dire che, prima che si sviluppasse una seria discussione sull’inadeguatezza della visione neoliberista e si potessero formulare soluzioni alternative, la gestione della crisi è stata ricondotta all’interno del perimetro tecnico delle necessità economiche, oscurando qualsiasi riflessione sulle cause ideologiche della sua implosione e rimuovendo di conseguenza dall’ordine del giorno i temi morali ed etici delle responsabilità sociali di imprenditori, finanzieri e politici.
Non è sufficiente per comprendere la differenza tra la crisi degli anni Settanta e quella attuale; la prima caratterizzata da una crisi sistemica intrecciata con una crisi sociale e dove il trionfo del neoliberismo ha rappresentato la sconfitta di un’alternativa politica, mentre ora alla crisi (sistemica) non corrisponde né un conflitto sociale, né un conflitto politico tanto che gli sbocchi si presentano in continuità con l’esistente. È questa assenza di un conflitto manifesto tra attori collettivi politicamente consapevoli, che impedisce che le contraddizioni sistemiche riescano ad emergere, ma se manca una comprensione del carattere strutturale della congiuntura, non vi è spazio per una proficua discussione su come uscire dalla crisi che, a differenza di quanto viene diffusamente affermato, non è né necessariamente nè tecnicamente predeterminata.
Modificare l’esistente egemonia politica
Il gruppo di Soundings vede con grande preoccupazione la rivitalizzazione di una narrazione che riproponendo il sostegno a un meccanismo finanziario risultato fallimentare rischia di portare l’economia e la società a un crash ancor più drammatico. Si considera decisiva una strategia politica a livello culturale per impedire che si rifaccia leva sul senso comune per convincere che una finanza più prudente permetterebbe di tornare in breve tempo al business as usual; va invece contrapposta un’interpretazione del malfunzionamento del settore finanziario come manifesta contraddizione strutturale del capitalismo odierno.
La cultura neoliberista va contrastata nella convinzione che l’ideologia non è mai solo “spazzatura”, ma affonda nella realtà materiale. Va precisata la natura di società che si propone in alternativa, ridefinendo le frontiere politiche, indicando i valori alternativi da difendere con uno sforzo che “parli ai cuori e alle menti della gente” e nella consapevolezza che le forme che assume la “democrazia” sono il risultato di un compromesso tra due visioni internamente conflittuali – quella della tradizione liberale centrata sullo stato di diritto e il rispetto per la libertà individuale e quella della tradizione democratica centrata sull’uguaglianza e sovranità popolare – attualmente fortemente sbilanciato a favore dell’efficienza economica. Per modificare l’esistente egemonia politica si ritiene necessaria un’azione di non breve periodo e una leadership intellettuale e morale capace di formulare e perseguire un progetto che unifichi attorno a una visione strategica una pluralità di ceti e gruppi sociali poiché un progetto alternativo è qualcosa di più di un’agenda economica, in quanto reclama il supporto della politica e l’apporto della società civile. Ma è proprio su questi terreni che l’analisi congiunturale individua la problematicità di una tale prospettiva.
L’“oca dalle uova d’oro”
Dal punto di vista economico, sono evidenti le difficoltà di contenere il predominio della finanza. Lo spazio per intaccare tale egemonia va ricercato nei forti squilibri nella struttura produttiva e in quella sociale dovuta al declino industriale di ampie zone del paese per la mitizzazione della City come l’“oca dalle uova d’oro”. La critica all’attuale assetto dominato dalla finanza si basa sull’osservazione che, per produrre un’illusoria prosperità basata sull’indebitamento, essa ha depresso lo sviluppo del resto dell’economia e, accentuando la propria centralità, ha favorito in maniera eccessiva gli interessi della new élite che a essa fa riferimento. Nell’idea degli Autori appare plausibile un rilancio della crescita industriale (e dei distretti del Nord) che dovrebbe trovare il suo punto di riferimento nel Green New Deal per un più equilibrato assetto produttivo e distributivo del reddito e per un diverso modello di consumi che migliori la qualità della vita. Va osservato però che marginale è l’attenzione dedicata ai condizionamenti che possono derivare a tale progetto dall’essere inseriti nell’attuale quadro internazionale; il ruolo “imperiale” della City è considerato solo per le sue implicazioni “interne” e solo per essere il momento chiave del predominio ideologico, in merito al quale non si riconosce il ruolo non secondario che svolge per la costruzione di una classe dirigente internazionale che negli ambienti finanziari ha trovato la sua incubatrice protettiva.
La subordinazione della politica
Prospettare un’alternativa di uscita non regressiva incontra pesanti difficoltà anche a livello politico. Grande responsabilità viene attribuita al New Labour che, avendo a lungo condiviso la narrazione neoliberista della modernità e il mito della finanza, non pare né capace né disposto a mettere in discussione le posizioni da tempo sostenute. Non percependo la natura distruttiva della crisi, esso non si propone altro obiettivo che tornare il più rapidamente al business as usual, attendendo, di fronte all’attacco feroce che Cameron conduce al tessuto della società civile, il momento per ripresentare una gestione moderata à la Blair orientata alla conservazione dell’ordine costituito. Il non mettere in discussione le soluzioni del governo che perseguono il riaggiustamento dei disavanzi pubblici dovuti ai salvataggi degli istituti finanziari attraverso aumenti fiscali e contrazione dei servizi pubblici e quindi con un deterioramento del benessere degli strati più fragili della popolazione, evidenzia la subordinazione della politica agli interessi dominanti accrescendo la sfiducia popolare nei suoi confronti e, nonostante il diffuso bisogno di poter contare su qualcuno che affronti le ansie e le incertezza del futuro, produce frustrazione e rabbia che disperdendosi in varie direzioni hanno un effetto di de-politicizzazione e di de-mobilitazione.
La perdita del senso di collettività e un possibile Green New Deal
Ma non minori sono le difficoltà sul terreno sociale dove l’assenza di conflitto è il risultato di un processo che ha demolito il tessuto di istituzioni sociali intermedie (in primis il sindacato) per trasformare in realtà l’affermazione thatcheriana ‘there is no such thing as society”. L’insufficiente base sociale per politiche alternative è spiegata dalla perdita del senso di collettività quale forma materiale del vivere, quale parte legittima dell’immaginario politico, avvenuta a favore del predominio di un individualismo la cui impotenza nei momenti critici trova più facile sbocco nello scetticismo e rifiuto della politica, se non nel nazionalismo cieco e nel razzismo violento. Vanno riportate al centro del dibattito le condizioni di benessere per la maggior parte della popolazione facendo leva sui movimenti sociali, sui sindacati, sulla società civile locale, sulle reti femministe, sulle piccole imprese interessate a un possibile Green New Deal. L’obiettivo sarebbe quello di realizzare un’alleanza tra voice politiche diverse, anche se prive di un connotato di classe, in vista della costruzione di un “blocco” cementato dall’interesse comune di contrastare il groviglio di politica, filosofia ed economia che ha dominato negli ultimi trent’anni. La problematicità di un tale progetto risiede nell’assenza di un soggetto “politico” in grado fin d’ora di aggregare i complessi e multiformi interessi in una creativa proposta alternativa e ciò emerge con evidenza dalla considerazione, forse speranza, che al manifestarsi di questa opportunità il New Labour non potrà indugiare all’interno del perimetro politico in cui si è costretto.
Cooperazione e solidarietà contro individualismo ed esclusione
Se si ritorna alla domanda posta all’inizio What is this crisis?, la risposta è che si tratta di una crisi sistemica poiché il meccanismo che regola il capitalismo finanziario non è in grado di garantire né crescita diffusa né stabilità di prospettive, obiettivi essenziali per garantirsi l’adesione del corpo sociale. Ma la crisi del sistema, pur nella pluralità di forme che assume – sia attuali (produttiva, occupazionale, dei conti pubblici, delle istituzioni europee ecc.) che potenziali (geopolitiche, ambientali ecc.) –, non è ancora crisi sociale e politica, e tanto meno culturale. Il modo in cui si interviene e si è intervenuto per il riaggiustamento della finanza privata e pubblica è stato ideologicamente giustificato e ampiamente accettato come tecnicamente “inevitabile”, una conclusione che non ha tenuto conto delle possibili prospettive alternative che avrebbero potuto emergere se il rilancio economico fosse stato affrontato nel più ampio contesto “congiunturale” contando su cooperazione e solidarietà piuttosto che su individualismo ed esclusione.
È proprio con riferimento a questa conclusione che due punti dell’analisi di Soundings risultano di grande e attuale interesse. Il primo è che il passaggio da una congiuntura all’altra è il risultato del “fondersi” di diverse crisi in una generale che costringe un assetto economico, sociale e politico non più in grado di riprodursi a ridefinire profondamente le proprie istituzioni in modo da avviare politicamente un diverso (ritenuto) più stabile modo di sviluppo. Il secondo è che la crisi è sempre sovradeterminata, ovvero che in questo passaggio strutturale non tutte le dimensioni che partecipano alla riproduzione della società sono messe simultaneamente in discussione. Sulla base di queste proposizioni risulta del tutto comprensibile l’indicazione politica che emerge dal libro sulla necessità e urgenza di operare per decostruire l’egemonia culturale dominante perché se ciò non avvenisse – non solo nel Regno Unito, ma anche nel nostro paese e nell’Europa –, il passaggio di congiuntura che è all’orizzonte si collocherebbe ancora all’interno di una narrazione neoliberista (eventualmente rivista in senso più radicale) che non potrebbe non avere forti ripercussioni sulle condizioni della democrazia e della vita civile.
Tratto da: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/La-crisi-vista-dal-muro-della-City-13226
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