Un classico illuminista del conflitto tra diritti delle donne e multiculturalismo, pubblicato in Boston Review nell’ottobre/novembre 1997 e tradotto da Maria Chiara Pievatolo per Swif. Okin vi argomenta, da un punto di vista liberale, contro il riconoscimento di diritti speciali per un diverso gruppo culturale, alla luce delle disuguaglianze interne, particolarmente di genere, del gruppo stesso.
Proprio in virtù di questa struttura di diseguaglianza, le richieste dei componenti maschi non andrebbero infatti considerate rappresentative dell’intero gruppo, né volte ad assicurarne universalmente il benessere.
Fino a pochi decenni fa, ci si aspettava tipicamente dai gruppi minoritari che si assimilassero nelle culture di maggioranza. Ora questa attesa di assimilazione è spesso considerata oppressiva e molti paesi occidentali cercano di escogitare nuove linee di condotta politica, più sensibili alla persistenza delle differenze culturali. Paesi che, come l’Inghilterra, hanno chiese nazionali o una educazione religiosa patrocinata dallo stato, trovano difficile resistere alla richiesta di estendere il sostegno statale alle scuole religiose minoritarie; paesi che, come la Francia, hanno una tradizione di istruzione pubblica laica, sono lacerati da dispute sul permesso di vestire, nelle scuole pubbliche, gli abiti richiesti da religioni minoritarie. Ma una questione è ricorrente in tutti i contesti, sebbene non sia quasi stata notata nel dibattito attuale: che fare quando le pretese di culture o religioni minoritarie collidono col principio dell’uguaglianza di genere che è per lo meno formalmente sottoscritta dagli stati liberal-democratici – per quanto continuino a violarla nella pratica?
Ad esempio, nella seconda metà degli anni 80, scoppiò in Francia un’aspra controversia sul permesso, per le ragazze maghrebine, di frequentare la scuola portando il velo tradizionale delle giovani donne musulmane uscite dalla pubertà. I difensori dell’educazione laica si schierarono con alcune femministe e con i nazionalisti dell’estrema destra, e gran parte della sinistra tradizionale sostenne le richieste multiculturaliste di flessibilità e rispetto per la diversità, accusando gli avversari di razzismo o imperialismo culturale. Nello stesso tempo, però, l’opinione pubblica rimase praticamente in silenzio su un problema di gran lunga più importante per molte immigrate francesi di origine araba o africana: la poligamia.
Nel corso degli anni 80, il governo francese consentì tacitamente agli immigranti di condurre più di una moglie nel paese, tanto che, secondo le stime, 200.000 famiglie parigine sono ora poligame. Il sospetto che l’interesse delle istituzioni sul velo fosse motivato da un desiderio di uguaglianza fra i generi è messo fuori gioco da questa facile adozione di una linea di condotta permissiva sulla poligamia, nonostante l’oppressione che questa pratica impone alle donne e gli avvertimenti fatti dalle donne delle culture interessate. Su tale questione, non si levò una opposizione politica reale. Ma quando i cronisti finalmente riuscirono a intervistare le mogli, scoprirono qualcosa che il governo avrebbe potuto imparare qualche anno prima: che le donne che subivano la poligamia la consideravano una istituzione inevitabile e a malapena sopportabile nei loro paesi africani d’origine, e una insopportabile imposizione nel contesto francese. Gli appartamenti sovraffollati e la mancanza d spazio privato provocavano enorme ostilità, risentimento e addirittura violenza sia fra le mogli sia contro i figli dell’una o dell’altra.
Anche per la tensione sul welfare provocata da famiglie di venti o trenta membri, il governo francese ha recentemente deciso di riconoscere solo una moglie e considerare nulli tutti gli altri matrimoni. Ma che cosa succede a tutte le altre mogli e ai lori figli? Dopo aver trascurato per tanto tempo il punto di vista delle donne sulla poligamia, il governo sembra ora abdicare alle sue responsabilità per la vulnerabilità delle donne e dei bambini dovuta alla sua condotta politica sconsiderata.
L’accomodamento francese della questione della poligamia illustra una tensione profonda e crescente fra il femminismo e l’ansia multiculturalista di proteggere la diversità culturale. Penso che noi – soprattutto quelle fra noi che si considerano politicamente progressiste e contrarie a tutte le forme di oppressione – siamo state troppo veloci ad assumere che femminismo e multiculturalismo siano entrambi cose buone e facilmente conciliabili. Io sosterrò, invece, che sono molto probabili delle tensioni – tensioni, per esseri più precisi, fra il femminismo e un impegno multiculturalista per i diritti di gruppo delle minoranze culturali.
Qualche parola per spiegare la prospettiva e i termini del mio argomento. Per femminismo intendo la convinzione che le donne non debbano essere svantaggiate dal loro sesso, che debba essere loro riconosciuta una pari dignità rispetto agli uomini, e la stessa possibilità degli uomini di vivere una vita soddisfacente e liberamente scelta. Il multiculturalismo è più difficile da definire, ma il suo aspetto che in questa sede mi interessa è la pretesa, in contesti di democrazie fondamentalmente liberali, che le culture o gli stili di vita minoritari non sono protetti a sufficienza dalla garanzia di diritti individuali ai loro membri. Perciò le culture devono essere protette per mezzo di speciali diritti di gruppo o privilegi.
Nel caso francese, ad esempio, il diritto a concludere matrimoni poligamici è chiaramente un diritto di gruppo, indisponibile al resto della popolazione. In altri casi, i gruppi richiedono diritti per autogovernarsi, per avere rappresentanze politiche garantite, o l’esenzione da leggi generalmente applicabili. Le richieste di simili diritti di gruppo sono crescenti – dalle popolazioni indigene, ai gruppi minoritari etnici o religiosi, ai popoli ex- coloniali (almeno quando questi ultimi immigrano nello stato che li colonizzava).
Questi gruppi, si sostiene, hanno le loro culture sociali che – come dice Will Kymlicka, il principale difensore contemporaneo dei diritti dei gruppi culturali – danno ai loro membri abitudini dotate di significato nell’intero ambito delle attività umane: nella vita sociale, educativa, religiosa, ricreativa ed economica, e nella sfera pubblica e privata. (2) Poiché le culture sociali hanno un ruolo così diffuso e fondamentale nelle vite dei loro membri, e poiché queste culture sono minacciate di estinzione, le culture minoritarie devono essere protette da diritti speciali. A questo si riduce, in sostanza, l’argomento a favore dei diritti di gruppo.
Alcuni fautori dei diritti di gruppo affermano che anche le minoranze culturali le quali si fanno beffe dei diritti [dei loro singoli membri] in una società liberale dovrebbero ricevere diritti di gruppo o privilegi se la loro condizione minoritaria mette a repentaglio la continuità dell’esistenza della cultura. Altri non pretendono che tutti i gruppo culturali minoritari abbiano diritti speciali, ma che tali gruppi anche quelli illiberali, che violano i diritti dei loro singoli membri, chiedendo loro di conformarsi a norme o credenze di gruppo – abbiano i diritto ad essere lasciati soli in una società liberale.
Entrambe le pretese appaiono in contraddizione con il valore liberale fondamentale della libertà individuale, il quale comporta che i diritti di gruppo non debbano sopravanzare quelli individuali; perciò, non considererò, qui, i problemi che essi presentano alle femministe. Ma alcuni difensori del multiculturalismo limitano, per lo più, la difesa dei diritti di gruppo a gruppi che sono internamente liberali. Anche con queste restrizioni le femministe – cioè chiunque sostiene l’uguaglianza morale di uomini e donne – dovrebbero rimanere scettiche. Questa è la tesi che cercherò di mostrare.
Genere e cultura
La maggior parte delle culture sono imbevute di pratiche e ideologie che hanno a che fare col genere. Poniamo, allora, che una cultura approvi e faciliti il controllo sulle donne da parte degli uomini in vari modi (anche se informalmente, nella sfera privata della vita domestica). Immaginiamo anche che ci siano differenze di potere abbastanza chiare fra i sessi, tali che gli appartenenti al sesso più forte, i maschi, siano in genere anche coloro che si trovano nella posizione di determinare e articolare le credenze, le pratiche e gli interessi del gruppo. In tali condizioni, i diritti di gruppo sono potenzialmente e in molti casi attualmente antifemministi. Essi limitano in maniera significativa la capacità delle donne e delle ragazze di quella cultura di vivere con una dignità umana pari a quella degli uomini e dei ragazzi e con una pari libertà di scelta.
I fautori dei diritti di gruppo per le minoranze entro gli stati liberali non hanno affrontato in modo adeguato questa critica elementare ai diritti di gruppo, per almeno due ragioni. In primo luogo, essi tendono a trattare i gruppi culturali come monolitici – a prestare più attenzione alle differenze fra i gruppi che a quelle entro i gruppi. E in particolare, essi danno un riconoscimento scarso o nullo al fatto che i gruppi culturali minoritari, come le società in cui essi esistono (sebbene in misura maggiore o minore), hanno al loro interno una struttura di genere, con significative differenze di potere e di favore fra uomini e donne.
In secondo luogo, i difensori dei diritti di gruppo hanno una attenzione scarsa o nulla per la sfera privata. Alcune delle migliori difese liberali dei diritti di gruppo insistono che gli individui hanno bisogno di una cultura tutta per loro, e che solo entro una simile cultura è possibile sviluppare autostima o rispetto per se stessi, o la capacita di decidere quale tipo di vita è buono per loro.
Ma tali argomentazioni trascurano tipicamente i ruoli differenti che i gruppi culturali impongono ai loro membri e il contesto nel quale si formano originariamente il senso del sé e le capacità delle persone e ove ha luogo la prima trasmissione di cultura – l’ambito della vita familiare o domestica. Quando correggiamo queste manchevolezze prestando attenzione alle differenze interne ai gruppi e all’ambito privato, diventano nettamente evidenti due nessi particolarmente importanti fra cultura e genere, che sottolineano la forza della critica elementare ai diritti di gruppo.
In primo luogo, la sfera della vita personale, sessuale e riproduttiva è un punto di riferimento centrale nella maggioranza delle culture e un tema dominante nelle pratiche e nelle regole culturali. Spesso i gruppi religiosi o culturali si preoccupano particolarmente del diritto personale – delle leggi sul matrimonio, sul divorzio, sulla custodia dei figli, sulla divisione e il controllo della proprietà familiare e sull’eredità. Di regola, perciò, la difesa delle pratiche culturali può avere un impatto di gran lunga maggiore sulle vite delle donne e delle ragazze che su quelle di uomini e ragazzi, perché una parte di gran lunga maggiore del tempo e dell’energia delle donne finisce nella difesa e nel mantenimento dell’aspetto personale, familiare e riproduttivo della vita.
Evidentemente, la cultura non riguarda solo le organizzazioni domestiche, ma esse offrono effettivamente uno dei punti di riferimento principali di molte culture contemporanee. La casa, dopo tutto, è il luogo ove gran parte della cultura è praticata, conservata e trasmessa ai giovani. A sua volta, la distribuzione delle responsabilità e del potere in casa ha un impatto importante su chi può partecipare e influenzare le parti più pubbliche della vita culturale, ove sono fatte leggi e regole sulla vita sia pubblica sia privata.
In secondo luogo, uno degli scopi principali della maggior parte delle culture è il controllo delle donne da parte degli uomini. (8) Si considerino, ad esempio, i miti di fondazione dell’antichità greca e romana, e del giudaismo, del cristianesimo e dellIslam: sono pieni di tentativi di giustificare il controllo e la subordinazione delle donne. In questi miti si trovano la negazione del ruolo femminile nella riproduzione, l’appropriazione da parte degli uomini del potere di riprodursi da sé, la caratterizzazione delle donne come eccessivamente emotive, infide, malvagie o sessualmente pericolose, nonché il rifiuto di riconoscere i diritti della madre sui suoi figli. Si pensi ad Atena, scaturita dalla testa di Zeus, o a Romolo e Remo, allevati senza una madre umana. O ad Adamo, creato da un Dio maschio, che poi (almeno secondo una delle due versioni bibliche della storia), plasma Eva da una parte di Adamo. Si consideri Eva, la cui debolezza traviò Adamo.
Si pensi agli infiniti generò della Genesi, ove il ruolo primario delle donne nella riproduzione è completamente ignorato, o alle giustificazioni testuali della poligamia, praticata in passato in seno al giudaismo, e ancora diffusa in molte parti del mondo islamico e in alcune zone degli USA (sebbene illegalmente) fra i Mormoni. Si consideri anche il racconto di Abramo, punto di svolta fondamentale nello sviluppo del monoteismo.
Dio comanda ad Abramo di sacrificare il di lui amatissimo figlio Isacco. Abramo si prepara a fare di lui esattamente ciò che Dio gli domanda, senza dire, né tanto meno chiedere nulla alla madre di
Isacco, Sara. L’ubbidienza assoluta di Abramo a Dio lo rende il modello di fede centrale e fondamentale per i tre monoteismi. La tendenza a controllare le donne – e a biasimarle e punirle per le difficoltà degli uomini a controllare i propri impulsi sessuali – si è molto attenuata nelle versione più progressive e riformate del giudaismo, del cristianesimo e dell’Islam, ma rimane forte nelle loro versioni più ortodosse o fondamentaliste.
Per di più, questa tendenza non si limita affatto alle culture occidentali o monoteistiche. Sono piuttosto chiaramente patriarcali molte delle tradizioni e culture del mondo, comprese quelle praticate negli stati in passato conquistati o colonizzati dagli europei – che comprendono sicuramente la maggior parte dei popoli dell’Africa, del Medio Oriente, dell’America Latina e dell’Asia. Anch’esse possiedono elaborati modelli di socializzazione, rituali, costumi matrimoniali e altre pratiche culturali (compresi i sistemi di proprietà e di controllo dei beni) volti a mettere sotto il controllo degli uomini la sessualità e la capacità riproduttiva femminili. Molte di tali pratiche rendono alle donne virtualmente impossibile scegliere d vivere indipendentemente dai maschi, di essere nubili o lesbiche, o di non avere figli.
Coloro che praticano alcune delle usanze più discusse – la clitoridectomia, il matrimonio dei bambini o matrimoni altrimenti imposti, o la poligamia – talvolta le difendono esplicitamente come necessarie al controllo delle donne, e riconoscono apertamente che simili usanze perdurano per insistenza degli uomini. In una intervista colla giornalista del New York Times Celia Dugger, coloro che praticano la clitoridectomia in Costa d’Avorio e in Togo spiegavano che questa usanza contribuisce ad assicurare la verginità delle ragazze prima del matrimonio e la loro fedeltà dopo, riducendo il sesso ad un obbligo coniugale. Come diceva una levatrice, il ruolo di una donna nella vita è curare i suoi bambini, amministrare la casa e cucinare. Se non venisse escissa, potrebbe pensare al suo piacere sessuale.
In Egitto, ove una legge che proibiva la mutilazione genitale femminile è stata di recente annullata da un tribunale, i fautori della pratica dicono che essa imbriglia l’appetito sessuale delle ragazze, e le rende più adatte per il matrimonio. Per di più, in tali contesti, molte donne non hanno nessuna alternativa al matrimonio che sia economicamente accessibile. Anche gli uomini di culture poligame riconoscono prontamente che la poligamia si accorda col loro interesse personale ed è un mezzo per controllare le donne. Come diceva un immigrato francese originario del Mali in una intervista recente:
Se mia moglie è malata e io non ne ho un’altra, chi si prenderà cura di me?… [U]na moglie da sola è un guaio. Se ce ne sono molte, sono costrette ad essere educate e a comportarsi bene. Se si comportano male, si può minacciarle di prendere unaltra moglie.
Le donne, evidentemente, vedono la poligamia in modo molto diverso. Le africane immigrate in Francia negano di apprezzare la poligamia, e dicono che non solo non è data loro nessuna scelta, ma che neppure le loro ave in Africa la amavano. Quanto ai matrimoni di bambine o comunque imposti: questa usanza è chiaramente un modo per controllare non solo chi le ragazze o le giovani donne sposano, ma anche per assicurarsi che siano vergini al momento del matrimonio, e, spesso, per accrescere il potere del marito creando una differenza di età significativa fra mariti e mogli.
Si consideri anche la pratica – comune in gran parte dell’America Latina, delle campagne dell’Indocina e di parti dell’Africa occidentale – di incoraggiare o addirittura di pretendere che la vittima di uno stupro sposi lo stupratore. In molte di queste culture – compresi quattordici paesi dell’America Latina – gli stupratori sono liberati giuridicamente da ogni gravame se sposano o, in qualche caso, si offrono soltanto di sposare le loro vittime. In queste culture lo stupro non è visto come una aggressione violenta alla ragazza o alla donna stessa, bensì come una grave offesa alla sua famiglia e al suo onore. Sposando la sua vittima, lo stupratore può contribuire e restaurare l’onore della famiglia e a liberarla da una figlia che, come una merce danneggiata è diventata inadatta al matrimonio. In Perù, questa legge barbarica è stata peggiorata nel 1991: coloro che sono accusati in solido di uno stupro di gruppo sono liberati dai carichi penali se uno di loro offre di sposare la vittima (le femministe stanno lottando per l’abrogazione di questa legge). Come spiegava un tassista peruviano:
Il matrimonio è la cosa giusta è conveniente da fare dopo uno stupro. Una donna stuprata è un articolo usato. Nessuno la vuole. Almeno con questa legge la donna avrà un marito.
È difficile immaginare una sorte peggiore, per una donna, di quella di essere indotta a sposare l’uomo che l’ha stuprata. Ma in alcune culture esistono sorti peggiori – segnatamente in Pakistan e in parte del Medio Oriente arabo, ove le donne che presentano una denuncia di stupro sono di frequente accusate del grave delitto musulmano della zina, o sesso fuori dal matrimonio. Il diritto permette di frustare o imprigionare una simile donna, e la cultura perdona l’omicidio o l’induzione al suicidio di una donna stuprata da parte di parenti interessati a restaurare l’onore della famiglia.
In conclusione, molte abitudini culturalmente fondate sono finalizzate a controllare le donne e ad asservirle, specialmente sul piano sessuale e riproduttivo, ai desideri e agli interessi degli uomini. Per di più, talvolta, la cultura o la tradizione è connessa così strettamente col controllo delle donne da essergli virtualmente identica. Secondo un reportage recente su una piccola comunità di ebrei ortodossi delle montagne dello Yemen – ironicamente, da un punto di vista femminista, il titolo dell’articolo era Le piccole comunità ebraiche yemenite fioriscono in una mescolanza di tradizioni, l’anziano capo di questa piccola setta poligamica afferma:
Siamo ebrei ortodossi, molto attaccati alle nostre tradizioni. Se andassimo in Israele, ci lasceremmo sfuggire di mano le nostre figlie, mogli e sorelle.
E un suo figlio aggiunge:
Noi siamo come i musulmani, non permettiamo alle nostre donne di scoprirsi la faccia.
Dunque, l’asservimento delle donne è presentato come un sinonimo virtuale delle nostre tradizioni. Solo la cecità all’asservimento sessuale può spiegare il titolo dellarticolo: un titolo del
genere sarebbe inimmaginabile per un articolo su una comunità praticante una schiavitù diversa da quella sessuale.
Mentre virtualmente tutte le culture del mondo hanno un passato chiaramente patriarcale, alcune – per lo più, ma non esclusivamente, culture occidentali liberali – si sono distaccate da questo passato più di altre. Le culture occidentali, certo, praticano ancora molte forme di discriminazione sessuale. Esse danno più importanza alla bellezza, alla magrezza e alla gioventù per le donne, e al successo intellettuale, alla capacità e alla forza per i maschi; si attendono che le donne facciano, senza remunerazione economica, ben più della metà del lavoro non pagato all’interno della famiglia, a prescindere dal fatto che abbiamo o no un lavoro stipendiato; sia per questo, sia per la discriminazione sessuale sul posto di lavoro, la povertà è un destino molto più probabile per le donne che per gli uomini; e donne e ragazze sono esposte ad una grande quantità di violenza (illegale), anche sessuale. Ma, nello stesso tempo, in numerose culture liberali alle donne sono giuridicamente garantite molte delle libertà e delle possibilità degli uomini.
In più, entro tali culture, molte famiglie, con l’eccezione di alcuni fondamentalisti religiosi, non trasmettono alle figlie l’idea che esse siano di valore inferiore rispetto ai ragazzi, che la loro vita debba essere confinata alla sfera domestica e al servizio degli uomini e dei figli, e che il solo valore positivo della loro sessualità debba venire rigorosamente limitato al matrimonio, al servizio degli uomini e a scopi riproduttivi. Ciò, come abbiamo visto, è assai diverso dalla condizione femminile in altre culture del mondo, comprese quelle da cui provengono molti immigrati in Europa e nell’America del nord.
Diritti di gruppo?
La maggior parte delle culture sono patriarcali e molte delle comunità culturali – per quanto non tutte – che reclamano diritti di gruppo sono più patriarcali delle culture circostanti. Perciò non è sorprendente che l’importanza culturale di conservare il controllo sulle donne emerga con stridente evidenza negli esempi forniti dalla letteratura sulla diversità culturale e i diritti di gruppo entro stati liberali. Tuttavia, sebbene l’evidenza sia stridente, questo tema viene di rado affrontato in modo esplicito. Un saggio del 1986 sulle pretese di diritti giuridici culturalmente fondate di vari gruppi di immigrati e zingari in Gran Bretagna ricorda il ruolo e lo status delle donne come un esempio chiarissimo del contrasto fra culture [Pulter, in Ethnic Minority Customs, English Law, and Human Rights, International and Comparative Law Quarterly 36, 3 (1987): 589-615.
In questo testo, Sebastian Poulter discute le pretese di trattamenti giuridici speciali avanzate dai membri di tali gruppi sulla base delle loro differenze culturali. Alcune di queste pretese non sono connesse al genere: un insegnante musulmano chiede il permesso di restare assente dal lavoro per la preghiera una parte del venerdì pomeriggio, e i bambini zingari di avere un obbligo scolastico meno rigoroso a causa della loro vita nomade. Ma grande maggioranza degli esempi riguardano disuguaglianze di genere: matrimoni precoci o imposti, regolamenti di divorzio pregiudicati contro le donne, poligamia e clitoridectomia. Quasi tutte le cause giuridiche trattate sono derivate da pretese di donne o ragazze secondo le quali le pratiche dei loro gruppi culturali hanno decurtato o violato i loro diritti individuali.
In un articolo recente della filosofa politica Amy Gutmann, The Challenge of Multiculturalism in Political Ethics, una buona metà degli esempi ha che vedere con questioni di genere – poligamia, aborto, molestie sessuali, clitoridectomia e purdah [segregazione sessuale; n.d.T.]. (19) Questo è caratteristico nella letteratura su questioni multiculturali intrastatuali. E lo stesso fenomeno si verifica in ambito internazionale, ove i diritti umani delle donne sono spesso respinti come incompatibili colla propria cultura dai governanti di alcuni paesi o gruppi di paesi. Analogamente, una schiacciante maggioranza delle difese culturali adottate con sempre maggior frequenza nei processi penali americani coinvolgenti membri di minoranze culturali sono connesse al genere, e in particolare al controllo maschile su donne e bambini. (21)
Talvolta le difese culturali entrano in gioco per spiegare la violenza prevedibile fra uomini o il sacrificio rituale di animali. Tuttavia, è molto più comune l’argomento secondo cui, nel gruppo culturale dell’imputato, le donne non sono esseri umani di uguale valore ma subordinati la cui funzione primaria (se non unica) è servire i maschi sessualmente e domesticamente. Perciò, i quattro tipi di casi in cui le difese culturali sono state impiegate con più successo sono: rapimento e stupro commessi da uomini Hmong [un gruppo tribale del Laos; n.d.T.] che sostengono che queste azioni sono parte della pratica culturale del zij poj niam o matrimonio per ratto, uxoricidio commesso da immigrati asiatici e mediorientali le cui mogli hanno o commesso adulterio, o trattato il proprio marito in modo servile, madri che hanno ucciso i propri figli e tentato il suicidio, e affermano che la vergogna dell’infedeltà dello sposo le ha spinte, a causa delle loro radici cinesi o giapponesi, alla pratica culturalmente perdonabile del suicidio della madre con i figli, e la clitoridectomia – in Francia, sebbene non negli USA, anche perché la pratica è divenuta reato penale solo nel 1996.
In una serie di casi di questo genere, la testimonianza dell’esperto sul retroscena culturale dell’imputato o del querelato ha condotto alla riduzione o alla caduta di capi d’accusa, alla valutazione della mens rea su base culturale, o a significative riduzioni delle pene. In una famosa causa recente, un immigrato dell’Iraq rurale fece sposare le sue due figlie, di tredici e quattordici anni, a due amici di ventotto e trentaquattro anni. In seguito, quando la figlia maggiore fuggì col fidanzato ventenne, il padre chiese aiuto alla polizia per ritrovarla. E quando al polizia la trovò, accusò il padre di maltrattamento delle figlie, e i mariti e il fidanzato di stupro di minore. La difesa degli iracheni si fonda, almeno in parte, sulle usanze matrimoniali della loro cultura. Come mostrano questi esempi, gli imputati non sono sempre maschi, né le vittime sempre femmine.
Sia un immigrato cinese a New York che aveva percosso a morte la moglie adultera, sia una immigrata giapponese in California che aveva annegato i figli e tentato ella stessa di annegarsi perché l’adulterio del marito aveva disonorato la famiglia si sono affidati a difese culturali per ottenere una riduzione della gravità delle accuse (da omicidio volontario a omicidio colposo). Perciò può sembrare che la difesa culturale fosse pregiudicata a favore dell’uomo nel primo caso, e della donna nel secondo. Ma non esiste una tale asimmetria. In entrambi i casi, il messaggio culturale è pregiudicato in modo analogo rispetto al genere: le donne (e i bambini, nel secondo caso) sono in una posizione ancillare rispetto all’uomo, e devono sopportare la colpa e la vergogna di ogni allontanamento dalla monogamia.
Chiunque sia l’infedele, è la moglie a soffrirne le conseguenze. Nel primo caso, venendo brutalmente uccisa per la furia del marito a causa della sua vergognosa infedeltà, e nel secondo caso perché l’infedeltà dello sposo è una vergogna e un marchio di fallimento tale da spingerla ad uccidere se stessa e i propri figli. Di nuovo, l’idea che le donne e le ragazze sono principalmente e innanzitutto schiave sessuali degli uomini, le cui virtù fondamentali sono la verginità prima del matrimonio e la fedeltà nel matrimonio emerge in molte affermazioni in difesa delle pratiche culturali.
Le culture occidentali maggioritarie, principalmente per la pressione femminista, hanno di recente compiuto sforzi significativi allo scopo di eliminare o limitare i pretesti per trattare brutalmente le
donne. Fino a non molto tempo fa, la responsabilità dell’uxoricidio, per gli uomini americani, veniva di norma attenuata se essi spiegavano la loro condotta come un delitto passionale, dettato dalla gelosia per l’infedeltà della moglie. E le donne che non avevano un passato completamente illibato, e che non avevano opposto resistenza fino a mettere in pericolo se stesse venivano sistematicamente incolpate se stuprate.
Ora le cose sono in qualche misura cambiate, e i sospetti sulla svolta verso le difese culturali derivano parzialmente, senza dubbio, dalla preoccupazione di conservare i progressi recenti. Ma forse la preoccupazione principale è che, astenendosi dal proteggere le donne e talvolta i bambini delle culture minoritarie dalla violenza maschile e talvolta materna, le difese culturali violano il loro diritto di uguale protezione da parte della legge. Quando una donna appartenente ad una cultura più patriarcale giunge negli USA o in qualche altro stato occidentale fondamentalmente liberale, perché ella dovrebbe essere meno protetta dalla violenza maschile rispetto ad altre donne? Molte donne di culture minoritarie hanno protestato perché viene applicata, a favore dei loro aggressori, una unità di misura differente meno severa rispetto che agli altri.
Difese liberali
Nonostante tutte le prove di pratiche culturali che controllano e subordinano le donne, nessuno dei più importanti difensori dei diritti multiculturali di gruppo ha affrontato adeguatamente o semplicemente tematizzato in maniera diretta le imbarazzanti connessioni fra genere e cultura, o i conflitti che sorgono così comunemente fra multiculturalismo e femminismo. La trattazione di Will Kymlicka è, a questo proposito, rappresentativa.
Le argomentazioni di Kymlicka a favore dei diritti di gruppo si basano sui diritti individuali, e limitano tali privilegi e protezioni a gruppi che sono liberali al loro interno. Seguendo John Rawls, Kymlicka mette l’accento sull’importanza fondamentale del rispetto di sé nella vita di una persona. Egli afferma che l’appartenenza a una ricca e stabile struttura culturale (25) colla sua lingua e la sua storia, è essenziale sia per lo sviluppo del rispetto di sé, sia di un contesto entro il quale le persone possano coltivare la capacità di fare scelte sulla direzione della propria vita. Perciò, le minoranze culturali hanno bisogno di diritti speciali, perché altrimenti le loro culture potrebbero essere minacciate di estinzione; l’estinzione culturale probabilmente metterebbe a repentaglio il rispetto per se stessi e la libertà dei membri del gruppo. In breve, i diritti speciali pongono le minoranze su un piede di parità colla maggioranza.
Il valore della libertà ha un ruolo importante nell’argomentazione di Kymlicka. Perciò, coll’eccezione di rari casi di vulnerabilità culturale, un gruppo che reclama diritti speciali deve autogovernarsi secondo principi chiaramente liberali, senza ledere le libertà fondamentali dei suoi membri con restrizioni interne, né discriminarli sulla base del sesso, della razza o delle preferenze sessuali. Questo requisito è di grande importanza per una coerente giustificazione liberale dei diritti di gruppo, perché una cultura chiusa o discriminatoria non può fornire il contesto dello sviluppo individuale voluto dal liberalismo e perché altrimenti i diritti collettivi potrebbero produrre una subcultura oppressiva all’inteno delle società liberali e col loro appoggio. Come dice Kymlicka: impedire alle persone di mettere in discussione le loro norme sociali ereditarie può condannarle a vite insoddisfacenti o addirittura oppressive.
Come riconosce Kymlicka, il requisito del liberalismo interno esclude la giustificazione dei diritti di gruppo per i molti fondamentalisti, di tutti i colori religiosi e politici, che pensano che la migliore
comunità sia quella in cui sono messe fuori legge tutte le pratiche religiose, sessuali o estetiche, tranne quelle da loro preferite. Infatti la promozione e il sostegno di queste culture mette a repentaglio la ragione medesima per la quale ci preoccupiamo dell’appartenenza a culture, – che essa rende possibili scelte individuali dotate di significato. Ma gli esempi sopra citati suggeriscono che un numero assai inferiore di culture minoritarie di quanto Kymlicka pare pensare sarà in grado di richiedere diritti di gruppo colla sua giustificazione liberale. Sebbene sia possibile che esse non impongano le loro credenze o abitudini agli altri e diano l’impressione di rispettare le libertà fondamentali, politiche e civili, di donne e ragazze, molte culture non le trattano, specialmente nella sfera privata, con qualcosa di analogo al medesimo interesse e rispetto goduto da uomini e ragazzi, né permettono loro di godere la stessa libertà. La discriminazione e il controllo della libertà femminile sono praticate, in grado maggiore o minore, da virtualmente tutte le culture, del passato e del presente, ma soprattutto da quelle religiose e da quelle che cercano nel passato – in testi antichi o in una tradizione venerabile – principi e norme su come vivere nel mondo contemporaneo.
Talvolta culture minoritarie più patriarcali esistono nel contesto di culture di maggioranza meno patriarcali, talvolta vale il contrario. In entrambi i casi, il grado in cui ciascuna cultura è patriarcale e la sua disposizione a diminuirlo dovrebbero essere fattori cruciali per prendere in considerazione le giustificazioni dei diritti di gruppo – se prendiamo sul serio l’uguaglianza delle donne.
Kymlicka, senza dubbio, ritiene che le culture che discriminano le donne in modo manifesto e formale – negando loro l’istruzione, o l’elettorato attivo e passivo – non meritino diritti speciali. Ma la discriminazione sessuale è spesso assai meno manifesta. In molte culture un severo controllo delle donne è imposto, nella sfera privata, dall’autorità di un padre effettivo o simbolico, che agisce spesso tramite le donne più anziane o colla loro complicità. In altre culture in cui i diritti e le libertà femminili sono formalmente garantiti, la discriminazione contro le donne nella famiglia non solo limita gravemente le loro scelte, ma minaccia seriamente il loro benessere a anche la loro vita. (30) E una simile discriminazione sessuale – severa o mite che sia – spesso ha potentissime radici culturali.
Sebbene Kymlicka si opponga giustamente alla concessione di diritti di gruppo alle culture minoritarie che praticano una discriminazione sessuale manifesta, le sue argomentazione a favore del
multiculturalismo trascurano qualcosa che pur egli riconosce altrove: che la subordinazione delle donne è spesso informale e privata, e che virtualmente nessuna cultura oggi esistente – minoritaria o maggioritaria – potrebbe risultare conforme al suo criterio dell’assenza di discriminazione sessuali, se questo fosse applicato alla sfera privata. (31) Coloro che propugnano i diritti di gruppo valendosi di fondazioni liberali devono prendere in considerazione questa discriminazione privatissima e culturalmente rafforzata. Perché sicuramente il rispetto di sé e l’autostima hanno bisogno di qualcosa di più della semplice appartenenza ad una cultura vitale. Sicuramente non basta che la sua cultura sia protetta, perché chiunque sia in grado di mettere in questione i propri ruoli sociali ereditari e possieda la capacità di fare scelte significative. Almeno altrettanto importante per lo sviluppo del rispetto di sé e dell’autostima è il nostro posto nella cultura. E almeno altrettanto importante per la nostra capacità di mettere in discussione i ruoli sociali è il fatto che la nostra cultura ci imponga oppure no ruoli sociali particolari. Nella misura in cui la loro cultura è patriarcale, un sano sviluppo delle ragazze è messo a repentaglio in entrambi i rispetti.
Parte della soluzione?
Non è affatto chiaro, dunque, che i diritti delle minoranze siano parte della soluzione, da un punto di vista femminista. Essi possono addirittura aggravare il problema. Nel caso di una minoranza culturale più patriarcale entro una cultura maggioritaria meno patriarcale, non si può argomentare in base al rispetto di sé o alla libertà che le donne di quella cultura hanno un chiaro interesse alla sua conservazione. Anzi, la loro condizione potrebbe migliorare molto se la loro cultura di nascita dovesse estinguersi, lasciando integrare i suoi membri nella cultura circostante meno sessista, o, ancor meglio, venisse incoraggiata a cambiare in modo da rafforzare l’uguaglianza delle donne – almeno fino al grado della cultura maggioritaria. Naturalmente si dovrebbe tenere conto di altre considerazioni, come ad esempio la circostanza che la minoranza culturale parli un’altra lingua, che richiede protezione, o che il gruppo subisca pregiudizi come la discriminazione razziale. Ma occorrono fattori contrari molto significativi per bilanciare la circostanza che una cultura costringa severamente le scelte delle donne o metta altrimenti a repentaglio il loro benessere.
Ciò che mostrano alcuni degli esempi che ho trattato è come delle pratiche culturalmente confermate oppressive per le donne possono spesso restare nascoste nella sfera privata o domestica. Nel caso del matrimonio delle bambine irachene, se il padre stesso non si fosse rivolto a funzionari statali, la situazione delle figlie probabilmente non sarebbe mai diventata pubblica. E quando, nel 1996, il Congresso approvò una legge che trasformava la clitoridectomia in reato penale, alcuni dottori americani obiettarono che una simile legge era ingiustificata, perché riguardava una questione privata che, come disse qualcuno, dovrebbe essere decisa da un medico, dalla famiglia e dalla bambina.
Ci vogliono circostanze più o meno straordinarie perché simili maltrattamenti delle ragazze diventino pubblici o perché lo stato riesca a intervenire in maniera protettiva. Perciò è chiaro che molti esempi di discriminazione delle donne per motivi culturali non riusciranno mai ad emergere in pubblico, ove i tribunali possono imporre i loro diritti e i teorici politici possono etichettare tali pratiche come violazioni illiberali e perciò ingiustificate dell’integrità fisica e mentale delle donne. Istituire diritti di gruppo per mettere alcune minoranze culturali in grado di conservarsi può non essere nel miglior interesse delle ragazze e delle donne di quella cultura, anche se ne avvantaggia gli uomini. Quando si producono argomentazioni liberali a favore dei diritti di gruppo, occorre una attenzione particolare per le disuguaglianze interne al gruppo.
È particolarmente importante considerare le disuguaglianze fra i sessi, perché esse sono meno soggette ad essere rese pubbliche, e meno facilmente discernibili. Inoltre, le linee di condotta politiche che intendono rispondere ai bisogni e alle pretese delle minoranze culturali devono prendere sul serio la necessità di dare una rappresentanza adeguata ai membri meno potenti di tali gruppi. Poiché l’attenzione ai diritti delle minoranze culturali deve essere coerente con i principi fondamentali del liberalismo, deve avere come fine ultimo la promozione del benessere dei membri di questi gruppi, e perciò è ingiustificato assumere che i sedicenti capi di quei gruppi – invariabilmente, per lo più, i membri anziani e maschi – rappresentino gli interessi di tutti i membri del gruppo. A meno che le donne – e più precisamente le donne giovani, perché le anziane spesso vengono cooptate nel rafforzamento della disuguaglianza di genere – non siano pienamente rappresentate nei negoziati sui diritti del gruppo, i loro interessi possono essere lesi piuttosto che promossi dalla concessione di tali diritti.
Si veda anche:
Brunella Casalini. Universalimo e diritti delle donne. Il contributo di Martha Nussbaum
Esercitazione
Una simulazione della seconda prova (tema di scienze umane) dell’esame di stato del Liceo di Scienze umane.
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