Tratto da: M. Yourcenar, Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 2002, p. 34.
Fino alla fine dei miei giorni sarò grato a Scauro per avermi costretto a studiare il greco per tempo. Ero ancora bambino quando tentai per la prima volta di tracciare con lo stilo quei caratteri di un alfabeto a me ignoto: cominciava per me la grande migrazione, i lungi viaggi, e il senso di una scelta deliberata e involontaria quanto quella dell’amore.
Ho amato quella lingua per la sua flessibilità di corpo allenato, la ricchezza del vocabolario nel quale a ogni parola si afferma il contatto diretto e vario della realtà, l’ho amata perchè quasi tutto quello che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco. […]
Dai tiranni jonici ai demagoghi ateniesi, dalla pura austerità di Agesilao agli eccessi di Dionigi o di Demetrio, dal tradimento di Dimarate alla fedeltà di Filopemene, tutto quel che ciascuno di noi può tentare per nuocere ai suoi simili o per giovar loro è già stato fatto da un greco.
Altettanto avviene delle nostre scelte interiori: dal cinismo all’idealismo, dallo scetticismo di Pirrone ai sogni sacri di Pitagora, i nostri rifiuti, i nostri consensi non facciamo che ripeterli; i nostri vizi, le nostre virtù hanno modelli greci.
La bellezza d’un iscrizione latina, votiva o funeraria non ha pari: quelle poche parole incise sulla pietra riassumono con maestà impersonale tutto quel che il mondo ha bisogno di sapere sul conto nostro. L’impero, l’ho governato in latino; in latino sarà inciso il mio epitaffio, sulle mura del mausoleo in riva al Tevere; ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto.
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