La storia della particella di Dio e del suo “avvistamento” (al Cern nel 2012), nel giorno dell’assegnazione del nobel per la fisica allo stesso Higgs e ad Englert, i ricercatori che nel 1964 accertarono per vie diverse la stessa tesi sull’esistenza della materia. Un’illustrazione della teoria di Mauro Poggi.
Alla fine il bosone di Higgs, folcloristicamente soprannominato «particella di Dio», ha fatto la sua comparsa in due colossali esperimenti del Cern di Ginevra. È il punto di arrivo di un cammino iniziato negli Anni 60 del secolo scorso. L’ultimo tassello di un puzzle che i fisici hanno messo insieme pazientemente in mezzo secolo di lavoro costruendo macchine sempre più grandi, potenti e costose.
Si chiamano bosoni, dal nome del fisico indiano Bose che con Fermi ne descrisse le proprietà, le particelle che trasportano una forza. Sono bosoni, per esempio i fotoni, cioè le particelle che costituiscono la luce, e i gluoni, la «colla» che tiene insieme i nuclei degli atomi. Il bosone di Higgs è speciale: è la particella che conferisce una massa a tutte le altre particelle, e quindi in qualche modo dà ad esse l’esistenza in quanto oggetti materiali. Questa è la sua potenza «divina».
Da ieri, dunque, conosciamo il segreto della massa delle particelle subnucleari, e quindi sappiamo come è fatto l’universo visibile (purtroppo stiamo parlando solo del 4 per cento di quanto esiste, il 96% ci sfugge perché è sotto forma di materia ed energia invisibili). Fatto non irrilevante, sappiamo inoltre perché si sono spesi sette miliardi di euro nel Large Hadron Collider, Lhc, un anello di magneti lungo 27 chilometri nel quale due fasci di protoni si scontrano a energie mai raggiunte prima.
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