L’infimo è l’impercettibile inizio del movimento, il primo segno visibile di ciò che è fausto. L’uomo di valore non appena vede l’infimo passa all’azione, senza attendere la fine della giornata.
Confucio
Un rapporto complesso e problematico lega l’idea della fine a quella del senso. Forse nessuno meglio di Kant ha colto nello scritto La fine di tutte le cose (1794) tale rapporto. In particolare, colpisce l’idea che non si possa cogliere il senso di checchessia se non pensando alla sua fine: il momento diacronico e storico risulterebbe inseparabile da quello estetico e teleologico. In un’altra opera Kant scrive:
Infine deve pur cadere il sipario. Perché alla lunga diverrebbe una farsa; e se gli attori non se ne stancano perché sono pazzi se ne stanca lo spettatore, che a un atto o all’altro finisce per averne abbastanza se ha ragione di presumere che l’opera, non giungendo mai alla fine, sia eternamente la stessa.
Questa connessione tra il senso e la fine circola ampiamente nella filosofia tra Ottocento e Novecento. Secondo Hegel, la filosofia è come la nottola, che spiega il suo volo al tramonto: esiste un’astuzia della ragione, che dissimula il vero significato degli eventi sotto motivazioni che nulla hanno che fare con questi. Per Dilthey, la vita non è qualcosa il cui significato possa essere colto immediatamente: l’essenziale, a suo avviso, non è la vita naturale ed empirica, ma l’Erlebnis, l’esperienza vissuta o meglio rivissuta. La forma più alta dell’intendere è il rivivere: solo attraverso di esso noi possiamo sottrarre il presente alla scomparsa e trasformarlo in una presenza sempre disponibile. Il compito svolto dal poeta e dallo storico è perciò di estrema importanza: solo essi infatti possono carpire alla caducità, all’oblio e alla morte il mondo umano conferendogli per sempre un senso.
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