Domani, a Perugia, discutiamo con l’autore del saggio sui Centri di Identificazione ed Espulsione e la complicità delle organizzazioni umanitarie, dell’evoluzione delle retoriche che hanno accompagnato la cooptazione delle associazioni che si occupano dell’assistenza ai migranti e richiedenti asilo. Mio il compito di introdurre la discussione.
Il giorno dopo il dibattito con l’autore, posso dire che non scorderò questo incontro.
Noi non ce le abbiamo le risposte alle domande che pongono i politici sugli stranieri, sul crimine, sulla sicurezza. Semplicemente perché sono queste domande ad essere mal poste. Secondo noi, non si tratta di domandarsi cosa lo stato debba fare dei richiedenti asilo, dei senza-documenti, dei “clandestini-criminali”. Bisognerebbe invece domandarsi: lo vogliamo un mondo che rinchiude gli esseri umani dentro a delle frontiere, a delle leggi e alle mura delle prigioni? Lo vogliamo un ordine sociale che consegna gli uomini e le donne a uno sfruttamento senza posa, che li imprigiona per mesi e li deporta perché non hanno i documenti di identità in ordine? La vogliamo una società che controlla, che isola, che aliena, che umilia e che, alla fine, toglie ogni umanità?
Letto sui muri di Torino, novembre 2010
La tesi di CIE e la complicità delle organizzazioni umanitarie è che il sistema dei campi con le sue pratiche di liquidazione e annientamento dell’individuo non è finito con la liberazione di Mathausen del 5 maggio 1945, ma si perpetua nei Centri di Identificazione ed Espulsione, ripetendosi
nella quotidianità di una società totalmente amministrata che, nominalmente antifascista e democratica, ha in realtà ereditato il progetto di esproprio totale dell’individuo [p. 9].
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