Adriano Prosperi racconta il passaggio dalle gestione comune della terra, proprio dell’età premoderna, a quello privato, tipico della modernità, evidenziando come, insieme con i commons, tramonti l’intero mondo delle relazioni e delle misure di protezione feudali. Tratto da Storia moderna e contemporanea, Torino, Einaudi, vol. I, pp. 435-442.
Contro la minaccia della fame, la comunità si organizzava in vario modo: in primo luogo, con un’accorta gestione delle proprietà comuni. Erano boschi, dove tutti potevano raccogliere legna e andare a caccia; prati, per mandare al pascolo il bestiame; fiumi e laghi, dove si poteva pescare; campi, per coltivare cereali.
C’erano contadini che non possedevano terra e che vivevano lavorando nei campi altrui all’epoca dei raccolti: si costruivano una capanna, sui terreni comuni, dove potevano allevare qualche animale e raccogliere legna; poi c’era chi possedeva un po’ di terra e magari anche un animale da tiro e un aratro; e c’erano proprietari di grandi appezzamenti che per di più prendevano in affitto terre di grandi tenute nobiliari. Ma c’era un’organizzazione collettiva dello sfruttamento del suolo: le greggi che raccoglievano animali di diversi proprietari potevano essere affidate a un solo pastore che le portava al pascolo; la rotazione delle colture era fatta di comune accordo, in modo da garantire una maggiore probabilità di salvare un raccolto adeguato dalle incerte vicende della stagione; infine, la sistemazione delle strade e dei corsi d ’ acqua era frutto di lavoro collettivo. Ma perfino i terreni che appartenevano a un solo proprietario non erano considerati suo bene esclusivo: una volta raccolta la messe, tutti potevano entrare nel campo e raccogliere quel che era sfuggito al padrone: la «spigolatura» e poi il pascolo (in Francia, la «vaine pâture») erano un diritto dei poveri e per questo i campi non dovevano essere chiusi da recinzioni.
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