La produttività del lavoro dipende dalle innovazioni tecnologiche, dall’organizzazione della produzione, dalla dimensione e dai settori in cui le imprese operano; il livello dei salari, normalmente oscillante attorno alla sussistenza, dipende dalla forza contrattuale dei lavoratori.
Gli stessi dati contenuti nel testo presentato dal presidente della BCE all’ultimo vertice europeo di Bruxelles, se inquadrati in una prospettiva logica e temporale differente, confermano che per circa tre decenni i salari reali in Europa e in tutti i paesi industrializzati sono cresciuti meno della produttività.
Se si considera la dimensione relativa del salario, le evidenze empiriche disponibili illustrano una riduzione costante e generalizzata della quota del reddito nazionale spettante ai lavoratori.
La crisi non colpisce tutte le classi sociali allo stesso modo: la quota di salari diminuisce e quella destinata ai profitti cresce.
La questione del rapporto tra produttività, salari e distribuzione del reddito è una delle più controverse sia dal punto di vista teorico che della conseguente efficacia delle politiche economiche. La drastica diminuzione del salario registrata negli ultimi 30 anni in tutti i principali paesi industrializzati con la conseguente modifica della sua quota relativamente ai profitti viene spiegata dalla teoria “ortodossa”[1] in questo modo: la dinamica dei salari dipende da quella della produttività del lavoro; se si vogliono aumentare i salari bisogna che cresca la produttività.
Se volessimo limitare l’analisi agli ultimi dieci anni dovremmo registrare che per tutti i paesi europei, tranne – ma in misura praticamente insignificante – l’Italia, la produttività misurata alla fine del periodo è più alta di quella di dieci anni prima. Le normali differenze tra paesi che si registravano nei primi anni del secolo persistono, con le economie più forti che possono giovarsi di modelli tecnologici e organizzativi più avanzati di quelli a disposizione degli altri.
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