Una bella ricognizione delle ragioni antimoderne del finalismo che punteggia con persistente tenacia ogni manifestazione del negativo, dai terremoti ai conflitti umani. Tratto da Doppiozero.it.
Ci risiamo. A quanto pare per alcuni il terremoto sarebbe correlato alla colpa del peccato originale o delle unioni civili, mentre in rete altri (r)umori trash si sono addensati sul “karma” negativo delle città produttrici di salumi o sulla “necessità” di “benedire” la terra.
Superfluo dire quanto sia inaccettabile che in mezzo a tanto dolore e a tanti problemi le persone colpite dal sisma debbano anche sopportare che nel discorso pubblico circolino simili dabbenaggini (non trovo parole più adeguate e non mi piace usare quelle offensive); detto questo non ce la caveremo semplicemente additando o irridendo l’irragionevolezza, il fanatismo, la superstizione, la pochezza, la paura e la follia che stanno lì dietro.
C’è un tratto di lunghissimo periodo nella storia del pensiero umano, una tesi comune ai pensatori religiosi o metafisici di ogni tempo che suona più o meno così: rifiutare un disegno di senso teleologicamente orientato e garantito dal divino comporta crisi etica e disordine civile e naturale, se non anarchia e violenza. Il che è tanto più falso se si pensa che Democrito e Spinoza, ad esempio, sono stati tra i filosofi più attenti alla dimensione etica e a quella politica nel senso di una democrazia “terrestre” e sensibile alle ragioni dell’intersoggettività.
È sempre stata proprio la concezione finalistica invece a veicolare superstizione e pregiudizi, come mostrano i noti dibattiti storici settecenteschi sui passaggi delle comete (Halley nel 1682) e sul terremoto di Lisbona (del 1755): i teologi infatti leggevano i fenomeni naturali come castighi divini, particolarmente rivolti a chi non accettasse le concezioni religiose dominanti.
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