Le dinamiche dell’identità e del riconoscimento nella figura dell’house slave, lo schiavo domestico per cui Malcolm X aveva coniato l’espressione «negro da cortile».
Gotta stay on the good side
Of the devil and with God,
Don’t know which one I land up with
When they put me in the sod.
Devo tenermi buoni
sia il diavolo sia Dio:
non so con quale andrò a finire
quando mi metteranno sotto terra.
Elma Stucker, An Egg in each basket, in The Big Gate, 1976
Introduzione
Nel 1822 a Charleston, South Carolina, ebbe luogo uno dei più importanti tentativi di rivolta di schiavi e neri liberi [ricordato, dal nome del suo ispiratore, come la «rivolta di Denmark Vesey»]. Uno dei leader della rivolta, lo schiavo Peter Poyas, dava le seguenti istruzioni agli altri giurati:
«Stai attento a non dire niente a quegli schiavi domestici che ricevono doni di giacche smesse e roba del genere dai padroni, о ci tradiranno» [Killens 1970: 52].
Peter Poyas non aveva torto: come scrivono i giudici di Charleston, «quasi mai si era cercato di reclutare servi domestici, verso i quali non c’era fiducia», proprio uno di questi, un certo Peter Devany [«uno house slave nel cuore, nell’anima e nel cervello» lo chiama John Oliver Killens] che corse ad avvertire il padrone e le autorità, facendo fallire il progetto [Starobin 1970: xvi].
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