“è rubare se è già stato rubato?”
In Time presenta un futuro presente in cui la moneta è diventata il tempo. Gli uomini sono geneticamente programmati per raggiungere i venticinque anni di vita, dopo i quali dovranno lavorare (o rubare) per accumulare tempo di vita sul proprio orologio biologico dal quale prelevare per tutte le loro necessità: un caffè costa tre minuti di vita, una notte in una suite di lusso un anno.
In questo contesto, presentato come l’esito prossimo venturo di un capitalismo darwinista in cui sopravvive il più adatto, i poveri muoiono giovani, mentre i ricchi sono potenzialmente immortali.
Il protagonista, Will, è il figlio premuroso di una madre, apparentemente venticinquenne, che compie cinquant’anni quel giorno. La storia si sviluppa con l’incontro del protagonista con un uomo ricco che salverà dai ladri di tempo in un pub del quartiere degradato in cui vive.
A questo gesto generoso, di pura, gratuita umanità (uno dei meriti del film consiste appunto nel rammentarci che tutto ciò che è davvero umano è gratuito, cioè dono) l’uomo, stanco di vivere, risponderà riversando tutto il proprio capitale biologico sul timer del salvatore. Prima di andare all’appuntamento con sua madre, Will regala così una parte del suo secolo di vita a un amico e ad una bimba di strada, ma la tragedia incombe perché l’aumento improvviso dei prezzi di trasporto (che, come mostra il film, non è casuale, ma è parte della mortifera strategia di dominio dei ricchi) impedisce a sua madre, a corto di vita, di salire sull’autobus per incontrare il figlio che può darle del tempo. Quando non la vede scendere, Will capisce e le corre incontro, ma è troppo tardi.
E’ a questo punto che, solo al mondo e carico di vita, decide di recarsi nella Time Zone, il quartiere dei ricchi, dove darà inizio alla sua battaglia.
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