Tre articoli, due usciti sul Sole 24Ore, il terzo su Doppiozero, intorno all’utilità del pensiero divergente coltivabile dalla filosofia e dalle scienze umane e alla parallela inutilità del loro studio manualistico e pedante.
Indice
1. Il Sole24Ore, Per le professioni del futuro bisogna studiare filosofia 2. Alberto Magnani, Le inutili lauree umanistiche danno sempre più lavoro 3. Riccardo Manzotti, Humanities si, cultura umanistica no
Ci sono domande a cui Google non può rispondere. Ma la capacità di saper ragionare adeguatamente e rispondere a quelle domande potrebbe essere una delle chiavi per preparare i ragazzi di oggi alle professioni di domani. Perché se molte delle professioni attuali saranno sostituite dalla tecnologia e dalla robotica (secondo la previsione che nel 2013 è stata effettuata da un gruppo di economisti della Oxford University più della metà dei lavori nei prossimi 20 anni), quello che distingue l’uomo dai computer sarà il vero valore aggiunto, anche nelle professioni del futuro. Per questo, ai lavori di domani, sarà richiesto di spaziare su più campi, di riuscire a mettere insieme più competenze e saperi. E, a sorpresa, un aiuto potrebbe arrivare, già nelle scuole, dalla filosofia. Come hanno deciso di fare in Irlanda.
Traccia di un tema di scienze umane sulla modernizzazione con lo schema di svolgimento. Per ragioni didattiche, le domande a risposta aperta sono proposte in un’altra prova.
Il candidato, avvalendosi anche della lettura e dell’analisi dei documenti riportati, spieghi in cosa consiste la radicale trasformazione economica a cui si deve il cambiamento di tutti i rapporti socialinella modernizzazione.
Analizzi, quindi, il seguente brano di André Gorz, spiegando in che modo questo cambiamento economico ha agito sul lavoro:
«La razionalizzazione del lavoro […] è stata una rivoluzione, una sovversione del modo di vita, dei valori, dei rapporti sociali e con la natura, l’invenzione nel pieno senso del termine, di qualcosa che non era mai esistito prima. L’attività produttiva si separava dal suo senso, dalle sue motivazioni e dal suo oggetto per diventare il semplice mezzo per guadagnare un salario. Essa cessava di far parte della vita per diventare il mezzo per guadagnarsi da vivere. Il tempo di lavoro e il tempo di vita si disgiungevano; il lavoro, i suoi attrezzi, i suoi prodotti assumevano una realtà separata da quella del lavoratore e dipendevano da decisioni estranee. La soddisfazione di “operare” in comune e il piacere di “fare” erano soppressi a vantaggio delle sole soddisfazioni che possono essere comprate dal denaro [André Gorz, Metamorfosi del lavoro, 1992, p. 31].
Svolgimento
La radicale trasformazione a cui allude il testo è il passaggio da un’economia tradizionale, di sussistenza, in cui gli individui lavorano per soddisfare i propri bisogni, a un’economia di produzione, in cui fine è la vendita e l’accumulazione di denaro.
La proprietà privata contro la persona umana è una sezione de Il popolo dell’abisso, un racconto del 1903 in cui London ha racchiuso le osservazioni raccolte nell’inchiesta sull’Est End londinese condotta travestito da barbone, tra i lavoratori poveri delle wet shop londinesi.
Muovendosi tra letteratura e giornalismo, London ha scagliato un potente atto d’accusa contro il “glorioso” Impero Britannico e l’ipocrisia delle classi agiate, decostruendo l’ideologia puritana che voleva i poveri colpevoli del loro destino, perché intenti, pigri e inoperosi, a crogiolarsi nella «bella vita». Il frammento è tratto da Ad alta voce, trasmissione radiofonica pomeridiana di Rai 3 inclusa in Fahrenheit. La vece recitante è di Graziano Piazza.
In coda un’illustrazione del contenuto delle studentesse della 4F.
In queste pagine, tratte da Metamorfosi del lavoro [Métamorphoses du travail. Quête du sens Critique de la raison économique, 1988, trad. it. Bollati, 1992, pp. 21-32] Gorz illustra la grande trasformazione dell’industrialismocon la quale «l’attività produttiva si separava dal suo senso, dalle sue motivazioni e dal suo oggetto per diventare il semplice mezzo per guadagnare un salario, cessa[ndo] di far parte della vita per diventare il mezzo per “guadagnarsi da vivere”».
Gorz getta lo sguardo su un meccanismo di alienazionetanto quanto di soggettivazione, nella fase storica in cui, come osserva in un altro scritto, a partire dagli anni ’80 «stiamo uscendo dalla società del lavoro senza crearne nessun’altra».
Nel decennale della strage, gli assassini sono ancora impuniti.
Giovanni Pignalosa, sopravvissuto al rogo della Thyssen, racconta l’incidente, la sagome annerite, le pelle sciolta, le voci degli operai bruciati che raccomandano i figli, la moglie, la famiglia. E quelle del giudice che lo ascolta e prova a rincuorarlo: «non si preoccupi, li manderemo tutti in galera» [la sentenza della Cassazione; il mandato di cattura].
La storia della notte tra il 5 e 6 dicembre 2007, quando gli operai del turno di notte si trovarono tra le fiamme con gli estintori scarichi e gli idranti non funzionanti. Di Ezio Mauro.
TORINO – “Turno di notte vuol dire che monti alle 22. Sono abituato. Quel mercoledì sera, il 5 dicembre, sono arrivato come sempre un quarto d’ora prima, ho posato la macchina, ho preso lo zainetto e sono entrato col mio tesserino: Pignalosa Giovanni, 37 anni, diplomato ragioniere, operaio alla Thyssen-Krupp, rimpiazzo, cioè jolly, reparto finitura. Salgo, guardo il lavoro che mi aspetta per la notte e vedo che ho solo un rotolo da fare”.
Le trasformazioni tecnologiche di Industria 4.0 ci pongono di fronte due strade: subire questo progetto di trasformazione guidato dall’interesse di pochi oppure tentare di guidarlo nell’interesse dei più. Uno stralcio dell’articolo uscito su Sbilanciamoci.
Sono nomi di computer ad alta potenza di calcolo, software, start up, piattaforme: YuMi, StasMonkey, Watson, Tug, Sedasys, Coursera, Shutterstock, Digits, Warren, e-discovery, Baxter, Iamus, Workfusion, Sawyer. Rappresentano il presente dell’innovazione e l’anticipazione di un futuro probabile dove il lavoro umano diminuirà.
49% [1]o 47%[2]le ipotesi più radicali, 9% [3]quelle più caute, 35%[4] per chi preferisce una via di mezzo: dietro le percentuali i posti di lavoro che verrebbero bruciati dall’innovazione tecnologica. Tecnologie delle reti e dell’informazione, robot, macchine potentissime, big data: è più o meno questa la ricetta che si aggira per il mondo promettendo rivoluzioni digitali e industrie 4.0.
Alcuni articoli sulle ragioni della diseguaglianza e sull’aumento vertiginoso della concentrazione di ricchezza (e conseguente aumento della povertà) dal 2007 ad oggi. Apre la raccolta Wealth inequality in America, un’illuminante infografica che mostra la difficoltà del pubblico a percepire l’entità della diseguaglianza economica. A seguire un articolo sull’Indice di Gini, uno strumento statistico di misurazione della diseguaglianza.
Un video TDC evidenzia l’enorme distanza tra la differenza di ricchezza reale e quella percepita dagli americani, mostrando come l’opinione pubblica abbia difficoltà a rappresentarsi l’ampiezza della diseguaglianza economica e, conseguentemente, a valutare l’equità delle politiche di distribuzione della ricchezza (fiscalità generale, servizi sociali, ecc.).
Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini[1], è una misura della diseguaglianza di una distribuzione. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza [nell’immagine, la rappresentazione delle diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza di tutti i paesi del mondo nel 2009].
La giornalista de La Stampa, Linda Laura Sabbadini analizza il declino del reddito da lavoro e la crisi del modello familiare patriarcale del maschio breadwinner.
Il modello del padre che mantiene moglie e figli non è sostenibile: dal 2005 al 2015 l’incidenza della povertà assoluta tra gli operai è triplicata. Per molti lavoratori il fatto di avere un posto non garantisce un reddito sufficiente a mantenere la famiglia.
La crisi sociale è più lunga della crisi economica. Uscire dalla recessione non vuol dire che la crisi sia finita. Quanta disoccupazione è stata riassorbita? Quanto dell’aumento della povertà assoluta, dei più poveri tra i poveri, si è recuperata?
Partiamo dalla disoccupazione. Dopo essere cresciuta ininterrottamente dal 2007, da circa 1 milione e mezzo, la disoccupazione ha raggiunto il picco nel quarto trimestre del 2014 di 3 milioni 267 mila persone, per poi diminuire. Siamo, comunque, a 2 milioni 987 mila nel terzo trimestre del 2016. La disoccupazione di lunga durata, da 12 mesi in su, pur essendo diminuita, coinvolge 1 milione 600 mila persone, più del 50% dei disoccupati. Elemento, questo, che va considerato con attenzione, perché più a lungo si protrae lo stato di disoccupazione, più è difficile uscirne e rimettersi in gioco sul mercato del lavoro.
I disoccupati sono molti tra i giovani, ma non dobbiamo dimenticarci di quelli adulti o ultracinquantenni, che , seppure di meno, hanno maggiori difficoltà, a causa dell’età, a rientrare nel mercato del lavoro e che spesso vivono in famiglie in cui solo loro percepivano un reddito. Certo, gli occupati sono cresciuti di 570 mila unità dall’inizio del 2014, ma ancora non abbastanza per riassorbire una parte importante della disoccupazione, anche perché una parte della crescita è imputabile alla maggiore permanenza degli ultracinquantenni nel mondo del lavoro. E comunque la crescita dell’occupazione non è stata sufficiente in questi anni a far diminuire la povertà assoluta , o perché trattasi comunque di occupati a basso reddito in famiglie con bisogni più alti, o perché una parte dell’occupazione è cresciuta per persone che vivono in famiglie non povere, aumentando così la polarizzazione.
La storia di Marcinelle: l’emigrazione, il lavoro, la morte in galleria, l’8 agosto 1956. Tratto da Senzasoste.it.
Al termine della seconda guerra mondiale il Belgio aveva mantenuto quasi intatta la sua infrastruttura industriale ma non aveva la quantità di manodopera che gli sarebbe stata necessaria. Inizialmente il governo belga pensò di utilizzare i prigionieri di guerra tedeschi o i profughi interni, poi incentivò l’immigrazione di lavoratori dall’estero. In Italia la situazione era del tutto opposta: c’era la necessità di una totale ricostruzione delle fabbriche e un alto tasso di disoccupazione.
Nel 1946 i due paesi conclusero quindi un trattato (chiamato “uomo-carbone”) secondo il quale l’Italia si impegnava a inviare in Belgio 50mila minatori (2mila ogni settimana) e il Belgio a vendere all’Italia un minimo di 2.500 tonnellate di carbone mensili ogni 1.000 lavoratori immigrati. In Italia ci fu una campagna pubblicitaria martellante per invogliare i disoccupati ad andare in Belgio: accattivanti manifesti rosa parlavano di salari molto buoni, contributi, assegni familiari… I candidati dovevano avere al massimo 35 anni e godere di buona salute.
Commenti recenti