Il doppio volto della patologia della maternità: l’eccessiva presenza, l’assenza di distanza, il cannibalismo divorante, o l’indifferenza, l’assenza di amore, la lontananza, l’esaltazione narcisistica di se stessa. Tratto da Repubblica, 28 febbraio 2015.
Nella cultura patriarcale la madre era sintomaticamente destinata a sacrificarsi per i suoi figli e per la sua famiglia, era la madre della disponibilità totale, dell’amore senza limiti. I suoi grandi seni condensavano un destino: essere fatta per accudire e nutrire la vita. Questa rappresentazione della maternità nascondeva spesso un’ombra maligna: la madre del sacrificio era anche la madre che tratteneva i figli presso di sé, che chiedeva loro, in cambio della propria abnegazione, una fedeltà eterna. È per questa ragione che Franco Fornari aveva a suo tempo suggerito che i grandi regimi totalitari non fossero tanto delle aberrazioni del potere del padre, ma un’“inondazione del codice materno”, una sorta di maternage melanconico e spaventoso.
La sicurezza e l’accudimento perpetuo in cambio della libertà. Sulla stessa linea di pensiero Jacques Lacan aveva una volta descritto il desiderio della madre come la bocca spalancata di un coccodrillo, insaziabile e pronta a divorare il suo frutto. Era una rappresentazione che contrastava volutamente le versioni più idilliache e idealizzate della madre. Quello che Lacan intendeva segnalare è che in ogni madre, anche in quella più amorevole, che nella struttura stessa del desiderio della madre, troviamo una spinta cannibalica (inconscia) ad incorporare il proprio figlio. È l’ombra scura del sacrificio materno che, nella cultura patriarcale, costituiva un binomio inossidabile con la figura, altrettanto infernale, del padre-padrone. Era la patologia più frequente del materno: trasfigurare la cura per la vita che cresce in una gabbia dorata che non permetteva alcuna possibilità di separazione.
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