Posts tagged ‘Nietzsche’

30 Giugno, 2024

Nietzsche, Morale dei signori e morale da schiavi

by gabriella

NietzscheL’aforisma 260 di Al di là del bene e del male.

260. Vagabondando tra le molte morali, più raffinate e più rozze, che hanno dominato fino a oggi o dominano ancora sulla terra, ho rinvenuto certi tratti caratteristici, periodicamente ricorrenti e collegati tra loro: cosicché mi si sono finalmente rivelati due tipi fondamentali e ne è balzata fuori una radicale differenza.

Esiste una “morale dei signori” e una “morale degli schiavi” – mi affretto ad aggiungere che in tutte le civiltà superiori e più ibride risultano evidenti anche tentativi di mediazione tra queste due morali e, ancor più frequentemente, la confusione dell’una nell’altra, nonché un fraintendimento reciproco, anzi talora il loro aspro confronto persino nello stesso uomo, dentro “la stessa” anima. Le differenziazioni morali di valore sono sorte o in mezzo a una stirpe dominante, che con un senso di benessere acquistava coscienza della propria distinzione da quella dominata – oppure in mezzo ai dominati, gli schiavi e i subordinati di ogni grado. Nel primo caso, quando sono i dominatori a determinare la nozione di «buono», sono gli stati di elevazione e di fierezza dell’anima che vengono avvertiti come il tratto distintivo e qualificante della gerarchia.

L’uomo nobile separa da sé quegli individui nei quali si esprime il contrario di tali stati d’elevazione e di fierezza – egli li disprezza. Si noti subito che in questo primo tipo di morale il contrasto «buono» e «cattivo» ha lo stesso significato di «nobile» e «ignobile» – il contrasto di «buono» e «”malvagio”» ha un’altra origine. E’ disprezzato il vile, il pauroso, il meschino, colui che pensa alla sua angusta utilità; similmente lo sfiduciato, col suo sguardo servile, colui che si rende abbietto, la specie canina di uomini che si lascia maltrattare, l’elemosinante adulatore e soprattutto il mentitore – è una convinzione basilare di tutti gli aristocratici che il popolino sia mendace. «Noi veraci» – così i nobili chiamavano se stessi nell’antica Grecia – un fatto palmare che le designazioni morali di valore sono state ovunque primieramente attribuite a “uomini” e soltanto in via derivata e successiva ad “azioni”: per cui è un grave errore che gli storici della morale prendano come punto di partenza problemi quali «perché è stata lodata l’azione pietosa?». L’uomo di specie nobile sente “se stesso” come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è «quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso», conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è “creatore di valori”.

Onorano tutto quanto sanno appartenere a sé: una siffatta morale è autoglorificazione. Sta in primo piano il senso della pienezza, della potenza che vuole straripare, la felicità della massima tensione, la coscienza di una ricchezza che vorrebbe donare e largire – anche l’uomo nobile presta soccorso allo sventurato, ma non, o quasi non, per pietà, bensì piuttosto per un impulso generato dalla sovrabbondanza di potenza. L’uomo nobile onora in se stesso il possente, nonché colui che sa parlare e tacere, che esercita con diletto severità e durezza contro se medesimo e nutre venerazione per tutto quanto è severo e duro. «Un duro cuore Wotan mi ha posto nel petto» – si dice in un’antica saga scandinava: in questo modo l’anima di un superbo vichingo ha trovato la sua esatta espressione poetica. Un simile tipo di uomini va appunto superbo di “non” essere fatto per la pietà: per cui l’eroe della saga aggiunge, in tono d’ammonizione, «chi non ha da giovane un duro cuore, non lo avrà mai». Nobili e prodi che pensano in questo modo sono quanto mai lontani da quella morale che vede precisamente nella pietà o nell’agire altruistico o nel “desintéressement” l’elemento proprio di ciò che è morale; la fede in se stessi, l’orgoglio di sé, una radicale inimicizia e ironia verso il «disinteresse», sono compresi nella morale aristocratica, esattamente allo stesso modo con cui competono a essa un lieve disprezzo e un senso di riserbo di fronte ai sentimenti di simpatia e al «calore del cuore».

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15 Gennaio, 2022

Claudio Magris, Il bufalo di Rosa Luxemburg

by gabriella
Gustave Courbet, L'hallalì del cervo, 1867

Gustave Courbet, L’hallalì del cervo, 1867

La bella recensione di Claudio Magris [Corriere della Sera, 14 novembre 2007] a Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione, Milano, Adelphi,  2007.

 

La lettera di Rosa

Nel dicembre del 1917, Rosa Luxemburg scrive a Sonja Liebnecht (Sonicka), mentre si trova nel carcere di Breslavia da tre anni.

Nella prima parte della lettera si occupa di questioni politiche e invita la sua interlocutrice e tutto l’entourage spartachista a non prestare ascolto alla stampa borghese in merito a ciò che avviene in Russia e ad avere fiducia.

A tratti, il suo linguaggio si fa perentorio, come si conviene a una leader politica che intende orientare e prendersi le sue responsabilità. Nella seconda parte la lettera si fa più personale e intima: prima il ricordo di Karl Liebnecht, imprigionato anche lui, poi quello dell’ultimo Natale trascorso tutti insieme intorno a un grande abete, mentre quello che ha in carcere è così piccolo e modesto.

L’accenno all’albero la porta al ricordo nostalgico delle escursioni nello Stiglitzer Park a Berlino e in mezzo ai suoi fiori e piante: ligustri, mirti e altri vegetali e arbusti che Luxemburg descrive in pochi tratti, tanto poetici quanto competenti. Dopo altri ricordi e un breve excursus di carattere letterario, la lettera vira improvvisamente e assume un tono solenne e drammatico:

Aimè Soniucka; qui ho provato un dolore molto intenso.

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13 Agosto, 2019

Eleonora de Conciliis, Walter Benjamin. Capitalismo e religione

by gabriella

angelo benjaminianoTraggo dal portale di Kainos questo articolo sul frammento benjaminiano del “capitalismo divino” contenuto nell’edizione italiana delle Tesi sul concetto di storia (Einaudi, 1997, pp. 284-287).

Il bisogno e il lavoro, sollevati a[ll’]universalità,
formano… un immenso sistema di… dipendenza reciproca;
una vita del morto moventesi in sé.

Hegel, Filosofia dello Spirito jenese

Premessa

Da qualche anno in Italia gli studiosi hanno riscoperto, o meglio si sono accorti dell’esistenza di un frammento che Walter Benjamin scrisse con ogni probabilità nel 1921, e che è apparso in traduzione italiana nel 1997, insieme ai materiali preparatori per le celebri Tesi sul concetto di storia del 19401. Un po’ come è accaduto a queste ultime a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, una volta ripubblicato da Editori Riuniti in una nuova raccolta e con una nuova traduzione2, il frammento, cui si è deciso di dare il titolo Capitalismo come religione, è stato per così dire sur-interpretato, divenendo anche per i non specialisti del filosofo una sorta di vademecum teorico, se non profetico, attraverso cui ripensare l’attuale assetto dell’economia politica occidentale.

Si tratta di uno scritto scarno e talora criptico, poco più di un appunto esteso con le indicazioni dei testi di riferimento, com’era nello stile di Benjamin, e che sembra tuttavia prestarsi a un facile lavoro di decodifica concettuale, poiché rinvia, da un lato, a due pietre miliari del pensiero politico e sociologico moderno (Marx e Weber), dall’altro a due critici radicali della metafisica (Nietzsche e Freud), con la quale Benjamin, negli anni dieci e venti, intratteneva ancora rapporti assai stretti.

Il détournement di queste pagine dal loro specifico contesto teorico – cioè la loro estrapolazione rispetto al tentativo, compiuto da un giovane Benjamin ancora influenzato da Bloch e lettore di Schmitt (la Teologia politica è del ’22), di analizzare in termini originalmente politico-religiosi l’eclissi dell’escatologia giudaico-cristiana e la sua moderna metamorfosi nichilistica3 – ha portato gli interpreti a valorizzare quella che sembra essere la principale e geniale intuizione contenuta nel frammento e lanciata ai posteri con straordinario anticipo sui tempi, ovvero la descrizione del capitalismo come religione di puro culto, dunque senza contenuti trascendenti e senza dogmi, capace di parassitare il cristianesimo e di prenderne il posto, non attraverso una deriva (la secolarizzazione weberiana), bensì grazie a un’inquietante metamorfosi, come sintetizza efficacemente lo stesso Benjamin:

Il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo.4

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7 Aprile, 2019

Umberto Galimberti, Il corpo in Occidente

by gabriella

La nascita dell’anima nella tradizione occidentale.

Indice

1. La nozione di anima è greca. La tradizione giudaico-cristiana non la conosce
2. La comparsa dell’anima con Platone
3. L’uomo nell’epoca tragica dei greci
4. L’oltrepassamento cristiano del tragico e la nascita dell’Occidente

 

1. La nozione di anima è greca. La tradizione giudaico-cristiana non la conosce

Purtroppo noi veniamo da una tradizione che ci ha abituato a pensare che siamo composti da anima e corpo e questa persuasione non ci ha ancora abbandonato. Vedremo il vantaggio di pensarci in questa maniera. Ma da dove viene questo dualismo, questo modo di pensarci così lacerato?

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28 Maggio, 2018

Nietzsche

by gabriella
Nietzsche

Friedrich Nietzsche (1844 – 1900)

Vissuto interamente nell’800, il genio di Nietzsche ha condizionato potentemente il 900 con la sua lettura dell’Occidente e i grandi temi e concetti della morte di Dio, dell’Übermensch (il superuomo, nel senso dell’oltrepassamento di sé), della volontà di potenza e dell’eterno ritorno dell’uguale.

 

Indice

1. La fine, la grandezza, la strumentalizzazione e la rilettura
2. La nascita della tragedia

2.1 L’apollineo e il dionisiaco

3. Socrate e la morte della tragedia
4. Il prospettivismo
5. Le Considerazioni inattuali

5.1 La seconda Inattuale: Sull’utilità e il danno della storia per la vita
5.2 Terza e quarta Inattuale: Schopenhauer come educatore, Richard Wagner a Bayreuth

6.La filosofia del sospetto.Il Nietzsche illuminista di Umano, troppo umano
7. La filosofia del mattino

7.1 La morte di Dio
7.2 La diagnosi del nichilismo dell’Occidente

8. Il pensiero meridiano e i temi di Zarathustra

8.1 Il superuomo
8.2 L’eterno ritorno dell’uguale

9. La volontà di potenza

10. Filosofare col martello

Wikiradio, I biglietti della follia e la biografia filosofica di Nietzsche raccontati da Maurizio Ferraris


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29 Agosto, 2017

Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo

by gabriella

Giorgio Agamben

Il testo della lezione inaugurale del corso di Filosofia Teoretica dell’a.a. 2006-2007 che Agamben ha tenuto presso la Facoltà di Arti e Design dello IUAV di Venezia.

Contemporaneo è l’inattuale, osserva il filosofo, colui che sa vedere «come un male, un inconveniente, un difetto, qualcosa di cui la sua epoca va giustamente orgogliosa» [F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, II, 1874].

Il contemporaneo è una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze, è un’abilità particolare, che equivale a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale. In G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo e altri scritti, Roma, Nottetempo, collana I sassi, 2010, pp. 22-33.

1. La domanda, che vorrei iscrivere sulla soglia di questo seminario, è:

Di chi e di che cosa siamo contemporanei? E, innanzitutto, che cosa significa essere contemporanei?”

Nel corso del seminario ci capiterà di leggere testi i cui autori distano da noi molti secoli e altri più recenti o recentissimi: ma, in ogni caso, essenziale è che dovremo riuscire a essere in qualche modo contemporanei di questi testi.

Il “tempo” del  nostro seminario è la contemporaneità, esso esige di essere contemporaneo dei testi e degli autori che esamina. Tanto il suo rango che il suo esito si misureranno dalla sua – dalla nostra – capacità di essere all’altezza di questa esigenza.

Una prima, provvisoria, indicazione per orientare la nostra ricerca di una risposta ci viene da Nietzsche. In un appunto dei suoi corsi al Collège de France, Roland Barthes la compendia in questo modo:

“Il contemporaneo è l’intempestivo”.

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2 Maggio, 2017

Nietzsche, Il dionisiaco

by gabriella

DionisoLa visione greca della vita e il dionisiaco ne La filosofia nell’epoca tragica dei greci, da Studia Humanitatis.

Ciò che è dionisiaco viene contrapposto nel pensiero come un ordine superiore del mondo a un ordine volgare e dappoco: il Greco voleva una fuga assoluta da questo mondo della colpa e del destino. Difficilmente si dava pace con un mondo dopo la morte: la sua brama andava più in alto, al di là degli dèi; egli negava l’esistenza assieme al suo variopinto, luccicante rispecchiamento negli dèi. Nella consapevolezza del risveglio dall’ebbrezza, egli vede ovunque l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza umana. Ciò gli dà la nausea. Ora egli comprende la sapienza del dio silvano.

Friedrich Niezsche

I Greci, che esprimono e al tempo stesso nascondono la dottrina segreta della loro visione del mondo nei loro dèi, hanno stabilito come duplice fonte della loro arte due divinità Apollo e Dioniso. Questi nomi rappresentano nel dominio dell’arte dei contrari stilistici, che incedono l’uno accanto all’altro quasi sempre in lotta tra loro, e appaiono fusi una volta soltanto, quando culmina la «volontà» ellenica, nell’opera d’arte della tragedia attica.dioniso

In due stati, difatti, l’uomo raggiunge il sentimento estatico dell’esistenza, nel sogno e nell’ebbrezza. La bella illusione del mondo del sogno dove ogni uomo è artista pieno, è madre di ogni arte figurativa e altresì come vedremo, di una metà importante della poesia.

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21 Marzo, 2017

Michel Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia

by gabriella
Nietzsche

Fredrich Nietzsche (1844 – 1900)

Fou

Michel Foucault (1926 – 1984)

La lettura nietzscheana più appassionata e la spiegazione più illuminante del metodo genealogico, in questo testo davvero ispirato, scritto da Michel Foucault per Hommage à Jean Hyppolite [“Nietzsche, la généalogie, l’histoire”, in Hommage à Jean Hyppolite, Paris, 1971, pp. 145-172] e tradotto da Einaudi [Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, pp. 29-54].

Il grande gioco della storia, sta in chi s’impadronirà delle regole, chi prenderà il posto di quelli che le utilizzano, chi si travestirà per pervertirle, le utilizzerà a controsenso e le rivolgerà contro quelli che le avevano imposte; chi, introducendosi nel complesso apparato lo farà funzionare in modo tale che i dominatori si troveranno dominati dalle loro stesse regole.

M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia

I. La genealogia è grigia; meticolosa, pazientemente documentaria. Lavora su pergamene ingarbugliate, raschiate, più volte riscritte.

Paul Ree ha torto, come gli inglesi, a descrivere delle genesi lineari, — a ordinare per esempio alla sola preoccupazione dell’utile tutta la storia della morale: come se le parole avessero conservato il loro senso, i desideri la loro direzione, le idee la loro logica; come se questo mondo di cose dette e volute non avesse conosciuto invasioni, lotte, rapine, simulazioni, astuzie. Di qui, per la genealogia, un’indispensabile cautela: reperire la singolarità degli avvenimenti al di fuori di ogni finalità monotona; spiarli dove meno li si aspetta e in ciò che passa per non aver storia – i sentimenti, l’amore, la coscienza, gli istinti; cogliere il loro ritorno, non per tracciare la curva lenta d’un’evoluzione, ma per ritrovare le diverse scene dove hanno giocato ruoli diversi; definire anche l’istante della loro assenza, il momento in cui non hanno avuto luogo (Platone a Siracusa non è diventato Maometto…).

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6 Marzo, 2017

Francesco Bellusci, L’interpretazione da Foucault a Eco

by gabriella

Michel Foucault (1926-1984)

Nel cinquantennale degli atti del Colloque di Royaumont (4-8 luglio 1964) che segnò l’inizio della Nietzsche renaissance, Francesco Bellusci esamina lo sviluppo dell concetto di interpretazione da quel memorabile intervento di Foucault alle pagine di Umberto Eco.

Umberto Eco (1932 – 2016)

Con una riflessione finale sulla parresia: infatti, se tutto è interpretazione e non c’è originario a cui l’interpretazione si riferirebbe, come rivendicare la giustizia e dire la verità al potere? Eco risponderebbe che benché sia impossibile dichiarare cosa sia davvero qualcosa, è però possibile dire cosa non sia.  «Lavoro infinito» – commenterebbe Foucault –  «Salvo il caso in cui s’imponga il silenzio della servitù».

Cinquant’anni fa uscivano in Francia gli atti del Colloquio di Royaumont, svoltosi tre anni prima, che avrebbero segnato i destini della filosofia “continentale” all’insegna della Nietzsche-Renaissance: una rinascita dell’interesse per la figura e l’opera di Nietzsche, definitivamente riscattato dalle strumentalizzazioni naziste, preparata anche dalla pubblicazione nel 1961 del poderoso corso di Heidegger e, soprattutto, dall’edizione critica nel 1964 delle opere di Nietzsche, curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari.

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3 Marzo, 2016

Umberto Galimberti, Vanagloria

by gabriella


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