Nel discorso di insediamento del nuovo presidente di Confindustria un’idea ingegneristica, semplice e intuitiva (dunque inautentica), della produttività. Nell’articolo sottostante Bagnai mostra invece come la produttività non sia l’aumento di unità di prodotti per ora lavorata, ma una misura dipendente da variabili macroeconomiche.
Quale produttività?
Intanto vi ricordo che in economia il termine “produttività” ha tante accezioni, e che la produttività della quale si parla nel dibattito corrente è precisamente la produttività media del lavoro, definita come valore aggiunto per addetto, cioè: L’idea è quella di misurare quale sia il “rendimento” medio, in termini di produzione, dell’input di lavoro, con l’idea di per sé condivisibile che più è e meglio è.
La produttivitàdel lavoro dipende dalle innovazioni tecnologiche, dall’organizzazione della produzione, dalla dimensione e dai settori in cui le imprese operano; il livello dei salari, normalmente oscillante attorno alla sussistenza, dipende dalla forza contrattuale dei lavoratori.
Gli stessi dati contenuti nel testo presentato dal presidente della BCE all’ultimo vertice europeo di Bruxelles, se inquadrati in una prospettiva logica e temporale differente, confermano che per circa tre decenni i salari reali in Europa e in tutti i paesi industrializzati sono cresciuti meno della produttività.
Se si considera la dimensione relativa del salario, le evidenze empiriche disponibili illustrano una riduzione costante e generalizzata della quota del reddito nazionale spettante ai lavoratori.
La crisi non colpisce tutte le classi sociali allo stesso modo: la quota di salari diminuisce e quella destinata ai profitti cresce.
La questione del rapporto tra produttività, salari e distribuzione del reddito è una delle più controverse sia dal punto di vista teorico che della conseguente efficacia delle politiche economiche. La drastica diminuzione del salario registrata negli ultimi 30 anni in tutti i principali paesi industrializzati con la conseguente modifica della sua quota relativamente ai profitti viene spiegata dalla teoria “ortodossa”[1] in questo modo: la dinamica dei salari dipende da quella della produttività del lavoro; se si vogliono aumentare i salari bisogna che cresca la produttività.
Se volessimo limitare l’analisi agli ultimi dieci anni dovremmo registrare che per tutti i paesi europei, tranne – ma in misura praticamente insignificante – l’Italia, la produttività misurata alla fine del periodo è più alta di quella di dieci anni prima. Le normali differenze tra paesi che si registravano nei primi anni del secolo persistono, con le economie più forti che possono giovarsi di modelli tecnologici e organizzativi più avanzati di quelli a disposizione degli altri.
In questo articolo, l’economista francese (École des hautes études en sciences sociales – EHEES) illustra l’impraticabilità economico-finanziaria delle retoriche del “più Europa”, evidenziando come le ipotesi di integrazione europea siano pura fantasia non appena si consideri l’entità dei flussi di trasferimento che sarebbero necessari a realizzarla. Non solo, ma l’analisi di Sapir mostra come le sole possibilità di sopravvivenza dei paesi del sud Europa siano nella svalutazione competitiva (uscita dall’euro) o in questi imponenti flussi di trasferimento in grado di ristabilire le condizioni di competività nell’eurozona. Solo per colmare il divario d’istruzione tra Italia e Germania in una singola fascia d’età, ad esempio tra i giovani diciottenni, l’Italia dovrebbe investire il 2% del PIL.
Qui, le opinioni di Sapir e dell’Economist sulla prossima crisi dell’eurozona, quella francese.
Ora sull’ipotesi “Federale” si sprecano fiumi di inchiostro. E’ presentata come “la” soluzione alla crisi dell’euro, le alternative essendo o un drammatico impoverimento dei Paesi “del sud” dell’Euro o un crollo dell’euzona[1] .Alcuni non esitano ad aggiungere che quest’ipotesi era già implicita nelle imperfezioni oggi riconosciute della zona euro [2] . Tuttavia, non sembra che si abbia una reale comprensione di ciò che comporta la formazione di una “Federazione europea”, in particolare dal punto di vista dei flussi di trasferimento.
Per contro, cominciamo a sentirne lo stress, e in particolare l’abbandono della sovranità fiscale. La volontà della Germania di sottoporre i bilanci a una decisione preventiva di Bruxelles, naturalmente, va in questo senso [3] .
Qualche giorno fa le agenzie di stampa hanno riportato che, secondo Eurostat, le retribuzioni lorde italiane nel 2009 erano ben al disotto della media Ue a 27.Quintultime, per la precisione, inferiori anche a quelle di Spagna e Grecia. Il ministro Fornero ha colto la palla al balzo per ribadire che le retribuzioni sono basse perché il costo del lavoro è alto. Come da sempre sostiene Confindustria, i lavoratori sarebbero pagati poco a causa di tasse sul lavoro troppo alte. Il governo, invece, si è affrettato a precisare che la tabella Eurostat era stata letta male e che retribuzioni e costo del lavoro italiani sono nella media Ue. Qual è la verità? Alcune precisazioni sono necessarie.
In primo luogo, non è corretto confrontare retribuzioni e costo del lavoro annui. Orari e ore effettivamente lavorate variano da Paese a Paese. È come se al supermercato comparassimo i prezzi di confezioni di tonno di dimensioni diverse, senza impiegare una unità di misura comune, il prezzo in euro al chilo. Per un confronto corretto dobbiamo prendere le retribuzioni orarie.
Commenti recenti