Annalucia Accardo, Alessandro Portelli, Il negro domestico. Psicologia di un nemico interno
Le dinamiche dell’identità e del riconoscimento nella figura dell’house slave, lo schiavo domestico per cui Malcolm X aveva coniato l’espressione «negro da cortile».
Gotta stay on the good side
Of the devil and with God,
Don’t know which one I land up with
When they put me in the sod.
Devo tenermi buoni
sia il diavolo sia Dio:
non so con quale andrò a finire
quando mi metteranno sotto terra.
Elma Stucker, An Egg in each basket, in The Big Gate, 1976
Introduzione
Nel 1822 a Charleston, South Carolina, ebbe luogo uno dei più importanti tentativi di rivolta di schiavi e neri liberi [ricordato, dal nome del suo ispiratore, come la «rivolta di Denmark Vesey»]. Uno dei leader della rivolta, lo schiavo Peter Poyas, dava le seguenti istruzioni agli altri giurati:
«Stai attento a non dire niente a quegli schiavi domestici che ricevono doni di giacche smesse e roba del genere dai padroni, о ci tradiranno» [Killens 1970: 52].
Peter Poyas non aveva torto: come scrivono i giudici di Charleston, «quasi mai si era cercato di reclutare servi domestici, verso i quali non c’era fiducia», proprio uno di questi, un certo Peter Devany [«uno house slave nel cuore, nell’anima e nel cervello» lo chiama John Oliver Killens] che corse ad avvertire il padrone e le autorità, facendo fallire il progetto [Starobin 1970: xvi].
Paolo Virno, Della capacità di dire come NON stanno le cose
Vale, come sempre, la pena di ascoltare dalla voce di Paolo Virno, cosa significa dire no, prendere le distanze dal presente e in che misura questa capacità è propria di “noialtri, animali linguistici”. Questa imperdibile lezione, dal titolo L’azione innovativa. L’animale umano e la logica del cambiamento, è stata tenuta dal filosofo napoletano il 7 ottobre 2011 alla Fondazione del Collegio San Carlo di Modena.
Di seguito, la trascrizione dei primi dieci minuti audio.
Grazie a voi per la pazienza che avrete nell’ascoltare queste riflessioni sulla difficoltà di dire di no. La difficoltà di dire di no è un bel titolo di un filosofo tedesco, più interessante di Habermas e dunque non tradotto in italiano, che vorrei adottare per queste riflessioni. Io non ho molta confidenza con il termine “utopia”, raramente mi è capitato di usare questa parola, non ho molta confidenza con l’utopia. Questo è uno svantaggio perché con i concetti con cui non si ha confidenza si rischia la goffaggine e l’esitazione, però può essere anche un vantaggio, nel senso di guardare a questo oggetto teorico, l’utopia, con occhi sgombri da un eccesso di letture e di pregiudizi.
Io vi propongo, come nostra morale provvisoria in quest’incontro, di considerare l’utopia – non è l’unica definizione possibile, diciamo pure che non è la migliore – come la possibilità da parte di noialtri, viventi che hanno il linguaggio, di prendere le distanze dal presente. Ossia di essere in qualche modo, non per merito eccezionali, non in virtù di esperienze stravaganti, ma fisiologicamente, per come noi siamo perlopiù, di essere inattuali. Questo vuol dire credo, guadagnare una distanza dal presente, eludere quell’eterno presente che la tradizione vuole essere tipica – chissà se poi è vero o no – di Dio e degli animali non linguistici. Gli animali non linguistici e – ma su questo non saprei cosa dire, anche Dio – non hanno alcuna forma di inattualità, sono perfettamente attuali, il che detto altrimenti, significa che sono racchiusi, incastrati da un eterno presente.
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