"Ora che sono proprio nella terza fase della mia vita, ho capito di non essere mai stata più felice". Jane Fonda, 80 anni oggi
Publiée par Freeda sur Vendredi 22 décembre 2017
La condizione senile e i suoi stereotipi
Gli stereotipi sulle migrazioni
Un modulo di storia sugli stereotipi intorno alle migrazioni di Cesare Grazioli, uscito su Novecento.org, n. 4, 2015.
Premessa: perché tematizzare gli stereotipi sulle migrazioni
Tra le molte questioni “socialmente vive” legate al tema Nord/Sud del Mediterraneo, quella delle migrazioni è senza dubbio la più intensa, quella che più di ogni altra è impressa nelle menti, nei cuori e nelle pance degli studenti, attraverso i più diversi canali (dalle immagini televisive sulle “tragedie del mare”, ai commenti captati in famiglia, alle battute tra coetanei). Queste “preconoscenze”, è superfluo aggiungerlo, sono basate in gran parte su luoghi comuni, stereotipi, pregiudizi, presenti negli studenti come nell’insieme della società. Da questo presupposto mi sembrano ricavabili tre conseguenze:
Il Papalagi
Discorsi del capo Tuiavii di Tiavea delle Isole Samoa secondo Eric Scheuermann (presunto traduttore tedesco, 1920). Qui il testo integrale.
Il Papalagi è continuamente preoccupato di coprire ben bene la sua carne. […] Il corpo del Papalagi è ricoperto dalla testa ai piedi di panni, stuoie e pelli, in maniera così fitta e spessa che non un occhio umano vi può giungere, non un raggio di sole, così che il suo corpo diventa smorto, bianco e appassito come i fiori che crescono nel profondo della foresta vergine.
[…] I piedi infine vengono avvolti in una pelle morbida e in una molto rigida. Quella morbida è per lo più elastica e si adatta facilmente al piede, al contrario di quella rigida. Anche questa è fatta con la pelle di un robustissimo animale, la quale viene lasciata a bagno nell’acqua, poi raschiata con un coltello, battuta e stesa al suolo fino a che si è completamente indurita. Con questa il Papalagi si costruisce poi una sorta di canoa dal bordo molto alto, grande giusto quanto basta per farvi entrare il piede. Queste barche da piedi vengono poi legate e allacciate con cordoni e ganci intorno alla caviglia, così che il piede resta chiuso in un rigido guscio, come il corpo di una lumaca di mare. Queste pelli da piedi il Papalagi se le porta addosso dal levar del sole fino al tramonto, con esse fa i suoi viaggi, danza e le porta anche quando fa caldo come dopo la pioggia tropicale. Poiché tutto ciò è assai innaturale, come il bianco del resto ben comprende, e rende i piedi come morti, tanto che cominciano a puzzare, e poiché in effetti la maggiore parte dei piedi europei non sanno più afferrare una cosa o arrampicarsi su una palma, per tali ragioni il Papalagi cerca di nascondere la sua follia ricoprendo la pelle di questo animale, che al naturale sarebbe rossastra, con molto sudiciume, che poi rende lucido a furia di strofinare, così che gli occhi non possono sopportarne il luccichio e si volgono altrove. […]
Il Papalagi vive in un guscio solido come una conchiglia marina. Vive fra le pietre come la scolopendra fra le fessure della lava. Le pietre sono tutt’intorno a lui, accanto e sopra di lui. La sua capanna somiglia a un cassone di pietra messo in piedi. Una cassa che ha molti scomparti ed è tutta bucata. C’è un solo punto in cui si può entrare e uscire da questa cassa di pietra. Questa apertura il Papalagi la chiama ingresso quando entra nella capanna, uscita quando ne esce fuori, sebbene entrambe siano una sola e unica cosa. In questa apertura c’è una grande ala di legno che bisogna spingere con forza per poter entrare nella capanna. Ma anche così si è soltanto al principio e bisogna spingere ancora parecchie ali prima di essere veramente nella capanna. […] Se la famiglia sta in alto, proprio sotto il tetto della capanna, allora bisogna salire molti rami a zigzag o in tondo, fino a che si arriva al punto dove il nome della famiglia sta scritto sul muro. Lì ci si trova davanti un grazioso capezzolo femminile finto sul quale si preme fino a che risuona un grido che chiama la famiglia. La famiglia guarda attraverso un piccolo buco rotondo munito di piccoli ferri, per vedere se si tratta di un nemico. In tal caso non apre. Se invece riconosce l’amico, allora subito slega una grossa ala di legno, accuratamente serrata, e la tira verso di sé, in modo che l’ospite attraverso il passaggio possa entrare nella capanna vera e propria. Questa è a sua volta divisa da molte ripide pareti di pietra, e si passa di ala in ala, da un cassone a un altro cassone sempre più piccolo. Ogni cassone, che il Papalagi chiama stanza, ha un buco (quando è grande anche due o tre) attraverso il quale entra la luce. Questi buchi sono chiusi con un vetro, che si può togliere quando si vuole far entrare aria fresca nei cassoni, cosa quanto mai necessaria. Ci sono però anche molti cassoni senza buchi per l’aria e per la luce. Un samoano morirebbe ben presto soffocato in questi cassoni, perché qui non passa mai un soffio d’aria fresca come in qualsiasi capanna delle Samoa. E anche gli odori della cucina cercano una via d’uscita. Spesso però anche l’aria che viene da fuori non è migliore; e si fatica a capire come una creatura qui non debba morire, come per la nostalgia dell’aria non diventi un uccello, come non gli crescano le ali per potersi levare in volo e andarsene dove c’è aria e sole. […]
Fra questi cassoni il Papalagi trascorre dunque la sua vita. Sta ora in questo, ora in quel cassone, secondo l’ora e il momento. […] In questa maniera vivono in Europa tante creature quante sono le palme che crescono a Samoa, anzi, molte di più.
George Brassens, Quand on est con (le temps ne fait rien à l’affaire)
Quando si è fessi, ironizza Brassens, il tempo non risolve il problema (non si migliora invecchiando).
Il testo della canzone fa del sarcasmo sulla facilità con cui si dà del cretino a chi non fa parte della propria categoria:
“Quando sono appena usciti dal guscio” – nota Brassens – “tutti i galletti prendono gli uomini per dei fessi; quando i capelli si fanno grigi, tutti i vecchi tromboni prendono i giovanotti per fessi”.“Io che sono in bilico tra le due età, mando loro un imparziale messaggio: quando uno è fesso è fesso, quando uno è fesso, che abbia vent’anno o sia nonno, è fesso”.
Quand ils sont tout neufs,
qu’ils sortent de l’oeuf,
du cocon.
Tous les jeunes blancs becs
prennent les mecs
pour des cons.
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Santino Spinelli, Rom, genti libere
L’intervista de La Repubblica a Santino Spinelli in occasione della pubblicazione di Rom, genti libere.
Alzare il velo del pregiudizio è necessario per conoscere realtà di cui spesso non sappiamo nulla se non quel poco che appare, deformato, dagli stereotipi e dalle mezze verità. Utile per svelare tutto quello che è doveroso sapere sui Rom, è appena uscito il libro di Santino Spinelli, in arte Alexian, un italiano Rom, musicista e compositore, poeta, attore e saggista, oltre che docente di Lingue e processi interculturali all’Università di Chieti. Il suo Rom, genti libere, storia arte e cultura di un popolo misconosciuto, (Dalai editore) è il frutto di ben venticinque anni di studi e ricerche ed è un libro illuminante ma non certo facile, anzi per certi versi perfino ruvido, severo nei confronti di chi identifica grossolanamente i Rom con gli zingari e ambizioso nel suo proposito di restituire l’identità “invisibile” alla sua gente.
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