Traggo da Le parole e le cose questa interessante intervista a Luigi Zoja sull’identità maschile di cui lo psicanalista afferma con forza la natura costruita, in opposizione a quella femminile che vorrebbe “naturale”, perché sviluppatasi filogeneticamente durante l’evoluzione della specie (va detto che lo studioso cita qui Margaret Mead che sostenne però la tesi contraria). La tesi, quasi etologica, dello studioso è dunque che l’identità maschile è un prezioso portato culturale della civiltà umana (ammesso che ne esista una) attualmente in declino, mentre quella femminile sarebbe più salda, perché legata a forme di istintualità corporea che la renderebbero meno volatile.
Per iniziare questa nostra conversazione sulle forme ambivalenti dell’identità maschile, le chiederei di descrivere anzitutto la qualità peculiare che la differenzia dalla sua identità opposta, quella femminile.
Premetto che la tesi che sosterrò deriva dalla lettura delle opere di grandi scienziate, su tutte l’antropologa americana Margaret Mead e poi Helen Fischer, nota antropologa contemporanea. In poche parole la mia tesi è questa: se cerchiamo di ricostruire a tutti i livelli zoologici dell’evoluzione cosa possa essere definito ereditato e istintivo, vale a dire appartenente a noi in quanto corporeità animale, e cosa sia invece elaborato culturalmente, risulta chiaro che esiste una continuità del naturale nel femminile – anche solo per la simbiosi tra la madre e il piccolo. L’elemento materno è istintuale prima che culturale; e si tratta di un elemento molto profondo, se pensiamo che comincia a svilupparsi con i mammiferi, che compaiono sulla Terra circa 250 milioni di anni fa. (Questa generalizzazione non vale, però, se osserviamo i volatili, dove è molto frequente un nucleo familiare monogamo che per molti aspetti anticipa il nostro).
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