La reazione a Razza e storia e le conseguenze culturali del lavoro di Lévi-Strauss.
La pubblicazione, nel 1952, di Razza e storia non passò inosservata. Accanto alle lodi per un testo che affrontava in maniera diretta e ampia lo spinoso problema del rapporto tra “razza”e civiltà, vi fu chi espresse decise riserve che furono però – è bene precisare subito – il segno di una fondamentale incomprensione di gran parte della cultura francese di allora. C’erano stati la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto; il colonialismo era morente; i problemi demografici e alimentari ricevevano allora, per la prima volta nella storia, un’attenzione mondiale. Non si trattava più soltanto di studiare sperdute umanità nel cuore delle foreste o dei deserti. Studiare piccole comunità marginali era certamente ciò che lo stesso Lévi-Strauss aveva fatto in Brasile ma a questo studio e a queste ricerche egli dava un respiro e un taglio problematico più ampio di quello che aveva fino ad allora caratterizzato l’antropologia nel suo Paese e altrove.
Il rapporto tra culture, il posto dell’uomo nella natura, il diritto che l’Occidente si era assunto di farsi “tutore” delle altre forme di vita sociale e culturale, erano temi “nuovi” per la discussione intellettuale e la preparavano ad altri dibattiti e confronti. E Lévi-Strauss parlava infatti dell’antropologia come di un argine che poteva opporsi all’inarrestabile avanzata planetaria dell’Occidente; avanzata che minacciava di negare la conoscenza e la comprensione – proprio in Occidente – delle umanità “altre”. Erano in pochi, allora, a capirlo davvero.
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