Telmo Pievani polemizza per La mela di Newton con i creazionisti, riferendo il caso di selezione naturale, osservato fin dall’Ottocento, della falena delle betulle inglese. L’occasione è un articolo di Nature sul suo meccanismo molecolare di mutazione sottoposta a selezione.
Questa è la storia di un famoso insetto indigesto a tutti gli antievoluzionisti. E’ una storia di maldicenze e di onore ritrovato. La falena punteggiata delle betulle (Biston betularia) è da decenni un caso da manuale di selezione naturale vista all’opera. La sua vicenda nei fumosi dintorni industriali di Manchester è raccontata su tutti i libri scolastici che ancora parlano di evoluzione. Le variazioni di colore di questo lepidottero dipendono da una pressione ambientale precisa (si riposa di giorno mimetizzandosi fra i licheni sui tronchi degli alberi) e da mutazioni genetiche mendeliane note fin dagli anni venti del secolo scorso.
Le forme melaniche (cioè la variante carbonaria, prima sconosciuta) nell’Ottocento aumentarono di frequenza durante la rivoluzione industriale, perché meno riconoscibili sullo sfondo più scuro della corteccia impregnata di fuliggine e dunque soggette a minore predazione da parte degli uccelli rispetto alla variante chiara (cioè la variante comune detta typica). Un fenomeno analogo venne osservato negli stessi anni nei dintorni delle aree industriali inquinate di Pittsburgh.
A riprova del meccanismo selettivo operante sul polimorfismo carbonaria–typica, dagli anni settanta del Novecento in poi la selezione ha invertito il segno, grazie alla diminuzione dell’inquinamento da fumi di carbone nell’aria: si è ridotta la fitness delle forme scure, perché ora meno mimetizzate sui tronchi tornati più chiari. Sembrava proprio di averla vista in atto, la selezione naturale: così il fenomeno, negli anni cinquanta, venne anche simulato in alcuni esperimenti in laboratorio e in natura da parte di Bernard Kettlewell di Oxford.
Come succede però per tutti i classici che si rispettino, a maggior ragione nella scienza, prima o poi qualcuno li contesta. Dagli anni sessanta cominciarono a fioccare articoli che mettevano in dubbio l’efficacia di questo esempio paradigmatico. In particolare, si sospettò che gli uccelli non fossero i reali agenti selettivi. Forse altri fattori erano in gioco: migrazioni, differenze fisiologiche fra i genotipi, fluttuazioni casuali, qualche altra misteriosa causa, chissà. I metodi e la replicabilità degli esperimenti di predazione di Kettlewell furono messi in dubbio, con accuse persino di frode da parte di giornalisti statunitensi filocreazionisti che avevano capito ben poco degli esperimenti ma non vedevano l’ora di soffiare su questo fuoco. A dare una mano ai creazionisti e agli incompetenti si aggiunsero evoluzionisti ultra-darwinisti e tendenziosi come Jerry Coyne – il biologo dell’Università di Chicago che nel suo blog[1] martella quotidianamente quelli che non la pensano esattamente come lui, prendendo non di rado cantonate clamorose – auto-proclamatosi guardiano di un’ortodossia tutta racchiusa nella sua testa, al quale la storia della predazione degli uccelli su Biston non era mai andata giù.
Insomma, una gran confusione attorno alle falene inglesi. Agli infaticabili detrattori della spiegazione selezionista non parve vero di potersi appigliare a questo crescente scetticismo. Se il caso più emblematico di selezione naturale osservata in diretta fosse stato smentito, si sarebbe aperta una crepa nell’edificio del tanto odiato darwinismo. Così creazionisti e antidarwiniani di varia estrazione, facendo leva su miscellanee di citazioni estrapolate e strumentalizzando il dibattito, cominciarono a sostenere che la storia della Biston betularia era addirittura una bufala (loro del resto se ne intendono, di bufale costruite ad arte).
La situazione di incertezza venne sciolta da uno scienziato più meticoloso e più paziente degli altri. Il genetista ed entomologo di Cambridge Michael Majerus – già autore nel 1998 del libro di riferimento sul melanismo come “evoluzione in atto”, simpatetico ma insoddisfatto nei confronti degli esperimenti condotti in precedenza – decide di vederci chiaro e di intraprendere una lunga procedura sperimentale, basata su oculate perturbazioni delle condizioni naturali e su predizioni falsificabili (sì, si può fare, anche in biologia evoluzionistica). In sei anni di caparbio lavoro immette in ambiente 4864 falene e ne monitora uno ad uno i siti di riposo e di posizionamento sugli alberi: si tratta del più vasto esperimento di predazione controllata fino ad allora realizzato. Comincia a osservare e a quantificare, in presa diretta, una forte predazione differenziale da parte degli uccelli sulle falene scure o “carbonarie”. La pressione predatoria da parte di altre specie (pipistrelli) viene controllata ed esclusa. Majerus e il suo team calcolano attentamente i tassi di selezione quotidiani e verificano che sono sufficienti, come magnitudine e direzione, per spiegare il rapido declino delle forme melaniche nell’Inghilterra post-industriale (il ciclo riproduttivo delle falene delle betulle si ripete ogni anno, quindi un anno equivale a una generazione).
Conclusione: la spiegazione delle variazioni di frequenza nel melanismo di Biston betularia risiede, con altissima probabilità o se preferiamo “oltre ogni ragionevole dubbio”, nella relazione fra mimetismo cromatico e predazione visiva da parte di nove specie di uccelli insettivori (monitorati uno ad uno anch’essi). Le critiche di Coyne, che nel 1998 aveva malamente stroncato il libro di Majerus su Nature dando un’immagine del tutto distorta dei suoi contenuti, erano dunque infondate. In sostanza si tratta di un cambiamento fenotipico morfologico dovuto a un processo di sopravvivenza differenziale: previsto, osservato, quantificato. Moltissimi altri esperimenti in natura di questo tipo sono oggi documentati nella letteratura scientifica, in particolare con studi sulle flore e faune delle isole: basti pensare alle ricerche trentennali dei coniugi Peter e Rosemary Grant sui fringuelli delle Galápagos, con monitoraggio costante dei molteplici fattori evolutivi che stanno agendo sulla loro evoluzione (in primis selezione naturale, deriva genetica, migrazione e ibridazione) e con analisi dei corrispettivi molecolari. Ma ovviamente non basterà per chi vuole ardentemente, irrazionalmente, ciecamente credere nel contrario.
Per arrivare a risultati simili occorrono sacrifici, rigore e capacità autocritica. E soprattutto tempo, tanto tempo, per controllare i risultati e ponderare le alternative. La morte, invece, non aspetta i ritmi lenti degli esperimenti evoluzionistici. Un male assai più rapido si è portato via Michael Majerus nel 2009, a 54 anni. L’appassionato esperto di farfalle notturne e coccinelle aveva per fortuna condiviso i suoi ponderosi dati e nell’autunno del 2012, su Biology Letters, quattro colleghi completarono e pubblicarono il suo ultimo esperimento, confermando che la falena delle betulle è uno dei tantissimi esempi probanti un evoluzione darwiniana in atto[2]. Un encomio postumo per lui dunque e una rivincita, gustata fredda, per Biston betularia.
Storia chiusa? Per niente. Negli anni seguenti Biston betularia, ormai archetipo della spiegazione darwiniana per selezione naturale, non ha smesso di attirare l’attenzione sia dei ricercatori sia di coloro che ostinatamente commentano le scoperte evoluzionistiche senza capirle, orgogliosi e tronfi nel negare l’evidenza. Il caso da manuale studiato da un secolo (ripetiamolo: cambiamenti di pressione selettiva causano modificazioni delle frequenze di una certa variante in una data popolazione) continuava ad essere contestato. Eppure sta succedendo sotto i nostri occhi: la diminuzione dei fumi nell’aria sta riducendo costantemente la fitness delle forme scure a tal punto che ormai sono quasi scomparse a causa della predazione.
Non basta, perché qualcuno si inventa e dissemina un’obiezione ancora più stravagante. I detrattori, ovviamente senza proporre alcun meccanismo alternativo plausibile né suggerendo un qualche straccio di esperimento utile pubblicabile, sostengono che anche se il cambiamento nel melanismo industriale di Biston betularia fosse reale non si tratterebbe comunque di vera “evoluzione”, perché nessuna novità effettiva è comparsa in natura durante il processo: tutto era già presente fin dall’inizio. Così mistificando, dimostrano di non cogliere il carattere statistico e popolazionale della spiegazione evoluzionistica e di confondere il concetto di “evoluzione” (che significa cambiamento, e anche una variazione di frequenze in una popolazione è un cambiamento) con quello di “innovazione evoluzionistica” (la comparsa di un nuovo carattere o di una qualche novità di rilievo non presente prima). Associata a questa critica inconsistente ve n’è un’altra non meno risibile: quella secondo cui non vi sarebbe prova empirica del passaggio da cambiamenti microevolutivi (molecolari, genetici) a cambiamenti macroevolutivi (riguardanti cioè popolazioni, specie, gruppi di specie), con i primi come causa dei secondi.
Ma il bello di Biston betularia è che ora ci dà grande soddisfazione per sbugiardare tutte queste pantomime retoriche. Il castello di carte è crollato sul numero di Nature del 2 giugno scorso[3]. Cinque anni fa su Science il melanismo industriale in questi lepidotteri era già stato connesso a una mutazione singola e recente. Ora un gruppo coordinato da Ilik J. Saccheri dell’Università di Liverpool ha scoperto che la mutazione all’origine al melanismo industriale in Inghilterra consiste nell’inserzione di un grosso elemento trasponibile nel primo introne del gene cortex (preposto alla divisione cellulare, ma coinvolto anche nel mimetismo attraverso la sua azione sullo sviluppo delle ali delle falene). Ottenuto analizzando con le tecniche più avanzate e comparando tra loro le sequenze del DNA di molti individui melanici e selvatici, il risultato conferma che i “geni saltatori” possono essere i responsabili di importanti novità fenotipiche adattative, il che non era scontato poiché queste sequenze di DNA che balzano da una regione all’altra dei cromosomi generano scompiglio e si riteneva che producessero soltanto variazioni disordinate, neutrali o svantaggiose (e su questo punto la scoperta permette di rivedere una convinzione precedente: la scienza accumula conoscenze auto-correggendosi).
Non si sta quindi parlando solo di “evoluzione” in senso lato, ma anche della rapida comparsa di “novità” adattative rilevanti: chi pensa di fare fumo dando di “evoluzione” un significato super-restrittivo (cioè come comparsa di reali novità evolutive e non solo trasformazioni di quelle esistenti), per poi asserire che il caso di Biston betularia non è “evoluzione” darwiniana in quel senso, adesso è servito. Smentendo ogni chiacchiera del genere, nella falena punteggiata delle betulle i ricercatori ora hanno visto sia l’evoluzione (la variante melanica compare, ha successo e si diffonde grazie all’inquinamento sui tronchi, poi recede di nuovo fin quasi a scomparire oggi) sia l’origine molecolare dell’innovazione evolutiva (un trasposone che casualmente va a inserirsi nel gene cortex e ne aumenta l’espressione, con effetti collaterali adattativi).
L’evidenza empirica ora non è più soltanto storica, ma anche diretta. Non solo, nel nuovo paper su Nature un’ulteriore indagine statistica indica che il trasposone ha introdotto la variazione melanica nelle falene circa 200 generazioni fa, cioè intorno al 1819, in accordo quindi con i primi rilevamenti di forme carbonarie in natura (risalenti a circa 30 generazioni successive, nei dintorni di Manchester, verso il 1848). Abbiamo quindi non soltanto la mutazione esatta, ma anche la data di comparsa. Ovviamente non sarà sufficiente per far recedere i disinformatori più incalliti, ma è troppo bello rimarcare il risultato: grazie alle tecniche di sequenziamento di nuova generazione sono stati scoperti gli eventi mutazionali che hanno alimentato l’adattamento a cambiamenti ecologici. Gli avanzamenti tecnologici ci fanno vedere meglio fenomeni già noti e ne svelano di totalmente nuovi. In questo caso micro e macro-evoluzione, insieme, la prima causa della seconda: un cambiamento microevolutivo è alla base di un meccanismo di adattamento in risposta alla selezione naturale (cioè in risposta ai livelli di predazione visiva dipendenti dagli effetti dell’inquinamento da carbone sul tronco degli alberi).
Più semplicemente, la selezione naturale viene ora vista con più dimestichezza fin dentro il genoma. Gli scienziati hanno cioè finalmente a disposizione le tecniche necessarie per scoprire l’architettura genetica degli adattamenti (quali mutazioni, in quali punti del genoma, con quali percorsi di sviluppo ed effetti fenotipici, etc.). Possono studiare la genetica dei polimorfismi all’interno delle popolazioni naturali (non più soltanto in laboratorio), mettendola in relazione con la fitness delle differenti varianti. In questo modo viene dunque ricostruita nei suoi dettagli molecolari la connessione causale tra il processo mutazionale e il processo selettivo, perno centrale della spiegazione neodarwiniana.
Il guardiano dell’ortodossia Coyne ora è soddisfatto: il caso rispetta adesso tutti i suoi canoni di darwinismo stereotipato ed è ammesso a corte, ma bastava avere un po’ di flessibilità mentale per capire che li rispettava anche prima. Creazionisti e antidarwiniani invece ignoreranno strenuamente anche questo risultato, faranno finta di non vederlo o lo stravolgeranno nei modi più assurdi, come al solito. Certo, si prova un godimento intellettuale unico nell’assistere al divario impietoso tra il dogmatismo che rimane sempre uguale a se stesso nei decenni e la curiosità paziente della ricerca scientifica che si corregge, migliora le tecniche, accumula evidenze e conoscenze. Dobbiamo essere grati alla benemerita piccola Biston e a gente senza paraocchi come Michael Majerus.
NOTE
[1] Why Evolution Is true whyevolutionistrue.wordpress.com)
[2] L.M. Cook et al., “Selective bird predation on the peppered moth: the last experiment of Michael Majerus”, in Biology Letters, 8(4): 609-612.
[3] A.E. van’t Hof et al., 2016, “The Industrial melanism mutation in British peppered moths is a transposable element”, in Nature, 534: 102-105.
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