Tomaso Montanari, Il Dio di Ratzinger

by gabriella

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Da Le parole e le cose, la spietata analisi di Tomaso Montanari delle dimissioni di Benedetto XVI: agli occhi del cristiano, il gesto di Ratzinger appare il segno di quell’interiorizzazione del relativismo, del dichiarato ateismo e del materialismo affaristico che il papato, in teoria, combatte. Il fedele, insomma, si scandalizza, opponendo alle dimissioni del papa – e al potere temporale della chiesa romana – il sovvertimento divino, mentre il laico Agamben coglie nel gesto di Benedetto XVI l’occasione per una riflessione tutta terrena sulla tensione tra legalità e legittimità.

In quale Dio crede Joseph Ratzinger?

Se da almeno mille e settecento anni l’esercizio del potere da parte della Curia romana tradisce un ateismo pratico, il discorso con il quale, l’11 febbraio scorso, Benedetto XVI ha annunciato l’inaudita decisione di lasciare il pontificato sembra presupporre un ateismo anche teorico:

«Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato».

In altre parole: mi dimetto perché non sono forte, non sono adatto (in latino, ha scelto la parola «aptus»: capace). E per vincere, nel mondo d’oggi («in mundo nostri temporis»), ci vuole la forza: «vigor». Per un cristiano (come me) queste sono affermazioni sconvolgenti perché negano radicalmente l’idea di Dio che la Chiesa stessa mi ha insegnato, seguendo la Scrittura e la Tradizione. Il Dio della Bibbia è il Dio che ribalta sistematicamente la logica, umana, della forza:

«Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Luca, 9, 24).

Un Dio le cui vie, lontane dalle nostre, sono vie paradossali: vie in cui vince chi perde, e in cui trionfano la debolezza e la povertà di spirito.

Il Dio che suscita una discendenza in Abramo e Sara, privi di ogni «vigor». Una promessa così fuori della prospettiva terrena che

«Abramo si prostrò con la faccia a terra, e rise e pensò: “ad uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novant’anni potrà partorire?”… Ma il Signore disse ad Abramo: “C’è forse qualcosa di impossibile per il Signore?”(Gn 17,17; 18, 13-14).

Un Dio che usa David, fanciullo inerme, per sconfiggere un prodigo di «vigor», il gigante Golia. Contro ogni ragionevolezza, e infatti «Saul disse a David:

“Tu non puoi andare contro questo filisteo a batterti con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d’armi fin dalla sua giovinezza”» (Samuele 17, 33).

Un ragazzino, David. Una donna Giuditta, che uccide il potente Oloferne: «

Il Signore onnipotente li ha rintuzzati per mano di donna! Poiché non cadde il loro capo contro giovani forti, né figli di titani lo percossero, né altri giganti l’oppressero, ma Giuditta, figlia di Merari» (Giuditta, 16, 6).

Un Dio che esplicita, e comunica agli uomini, questo continuo ribaltamento di prospettiva:

«Rende vani i pensieri degli scaltri, e le loro mani non ne compiono i disegni; coglie di sorpresa i saggi nella loro astuzia, e manda in rovina il consiglio degli scaltri» (Giobbe, 5, 12-13). E che «fa andare scalzi i sacerdoti e rovescia i potenti, toglie la favella ai più veraci e priva del senno i vegliardi» (ancora Giobbe: 12, 19-20): cosa che forse avrebbe potuto consolare il vecchio sacerdote Ratzinger.

Naturalmente, questo fondamentale filone veterotestamentario si compie nel canto di Maria, il Magnificat:

«L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore: ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Luca, 1, 39-55).

Maria trasmette ai cristiani e alla chiesa l’antico messaggio di Abramo: non contate sulle vostre forze, non pensate secondo la logica del mondo, non spaventatevi della vostra debolezza. E sarà Paolo, come sempre, a codificare tutto questo nel modo più forte e più chiaro:

«Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (Corinzi 1, 27-28).

Come è universalmente noto, da secoli e secoli la maggioranza della Chiesa gerarchica e quasi tutti i papi hanno, nei fatti, negato questa prospettiva. La loro potenza si è manifestata pienamente nella forza, nel potere temporale, nel denaro, nella violenza. Il pontificato di Giovanni Paolo II ha segnato, da questo punto di vista, un’accelerazione notevole: il papa è divenuto il mediatico e muscolare parroco del mondo, distruggendo gli ultimi residui di dignità nell’episcopato (ridotto ad una manica di annuenti camerieri) e sradicando ogni traccia di autonomia delle chiese locali.

Ma il discorso di Ratzinger rappresenta un incredibile salto di qualità: il vecchio teologo arriva ora a dirlo esplicitamente, tutto questo. Anzi, arriva a teorizzarlo. La debolezza, inaccettabile per il papato, ora diventa inaccettabile anche per la persona del papa. Paradossalmente, egli sembra aver completamente introiettato la visione ‘relativistica’ che tanto vorrebbe condannare: il suo sistema di valori è quello relativo al nostro tempo storico in occidente, un «mondo di oggi» ipercompetitivo, basato sulla forza e sulla qualità della prestazione.

Forse non tanto paradossalmente, visto che Ratzinger non si seppellisce nottetempo in un monastero sconosciuto, ma sceglie un finale da kolossal: decollando in elicottero verso Castel Gandolfo. E il tutto a favore di telecamera, e non prima di aver lanciato un ultimo tweet. Una fine spettacolarmente in sintonia con lo spirito dei tempi. E, quasi fosse l’amministratore delegato di una grande multinazionale, l’avveduto Joseph Ratzinger si libera dalle responsabilità ma conserva i benefit: il titolo (grottesco) di ‘papa emerito’, la veste bianca, il diritto di esser chiamato ancora (contro ogni logica) Benedetto XVI e ‘santità’, e infine un’abitazione di 450 mq in Vaticano (con segretario e suore-cameriere) dove presumibilmente passerà le sue giornate scrivendo best-seller per il suo editore (Rizzoli, per l’Italia).

Non per caso l’abdicazione è stata largamente apprezzata da osservatori e commentatori non cristiani. Ha desacralizzato il papato, hanno scritto.

La fine di Wojtyla è stata opposta perché basata sull’incondizionata accettazione della volontà di Dio, ma anche in quel caso l’insopportabile esibizione mediatica del dolore obbediva a logiche del nostro tempo: the show must go on. Logiche normali in una Chiesa che si ritiene ormai una holding (anche) televisiva: in una recentissima intervista il cardinale papabile Gianfranco Ravasi (il ‘grande intellettuale’ che introdusse l’entrata a pagamento alla Biblioteca Ambrosiana) si è lamentato che dovunque vada a dir messa, nel pubblico non si vedano giovani. Ha detto proprio (e ripetuto due volte) «pubblico»: non fedeli, e – per carità – non popolo, o ‘popolo di Dio’.

Ma ciò che davvero ha catturato la simpatia del mondo è stato l’atto di fede nel mondo, e di sfiducia in Dio: come se nell’orizzonte interiore di Benedetto evidentemente non si affacciasse più un Dio capace di contestare e ribaltare la prospettiva di questo mondo. Se Abramo «ebbe fede, sperando contro ogni speranza» (Romani 4, 18), Ratzinger non ha – umanamente – più speranze: e sembra dare per scontato che, oltre questo piano umano, non ce ne sia un altro. A differenza di Abramo, Benedetto XVI crede che per Dio sia impossibile guidare la Chiesa attraverso un pontefice debole: non lo sfiora l’idea che proprio la debolezza del governo centrale e l’abbandono delle pratiche di potere potrebbero essere il disegno di Dio sulla Chiesa. No: la Chiesa va salvata dalla sua debolezza, ci vuole un papa forte. Perché – questo l’inevitabile sottotesto – il cielo è vuoto, e la Chiesa deve cavarsela da sola.

Ma se la fede non è scandalo, se i cristiani sono per il mondo, se il papa perde la speranza in Dio e crede solo nelle proprie forze: ebbene, cosa rimane, oltre alla struttura della ‘Chiesa spa’?

 «Ti basta la mia grazia, la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio della mia infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (Corinzi 2, 12, 9-10).

Ma questo lo ha scritto San Paolo: uno che in Dio ci credeva.

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