In questo articolo, Negri illustra le ragioni per le quali la dislessia diventa nei manager l’arma vincente per misurarsi con l’ingestibile velocità del capitalismo contemporaneo.
Il potere alienato dalla folla
Sono stati scritti in un decennio, questi saggi di Christian Marazzi raccolti nel volume Il comunismo del capitale (Ombre corte, pp. 160, euro 23). Hanno il buon sapore che si sentiva nel bel volume che ha reso questo economista di origine svizzere abbastanza noto in Europa e negli Usa: Il posto dei calzini (pubblicato dalla casa editrice Casagrande nella Svizzera italiana e ripreso poi da Bollati Boringhieri). Lì, per la prima volta, il postindustriale era coniugato con la sovversione femminista ed il postmoderno trovava non una voce debole o molle per dichiararsi (come ci avevano abituato i suoi fondatori) ma mostrava i muscoli della rivoluzione sociale.
Leggo qui con voi le prime due parti di questo libro: la prima, «Biocapitalismo e finanziarizzazione» e la seconda, «Il lavoro nel linguaggio». Parto da una questione posta da Marazzi che sembra, a prima vista, bizzarra e mi chiedo con lui: perché i manager sono spesso dislessici? Perché – risponde Christian – se la difficoltà di focalizzare e decodificare i fonemi sviluppa nei dislessici, in generale, la capacità di vedere o percepire molto rapidamente il quadro d’assieme, il contesto nel quale si trovano ad operare i manager trasforma la condizione dislettica nella facoltà di alterare e creare percezioni, organizza un’estrema consapevolezza dell’ambiente nel quale sono immersi. Pensiero ed intuito si applicano insieme su scene multi-dimensionali e qui esprimono potenza e creatività.
Quando Marazzi ci racconta queste avventure che capita ai manager di vivere, non lo fa proprio per riconoscere loro qualche dono sublime, per definirli come geni romantici – lo fa piuttosto per scavare, attraverso quella specifica competenza imprenditoriale, le caratteristiche della produzione postindustriale e la dinamica linguistica della nuova economia. Economia digitale e sociale, economia immateriale e cooperativa. La tesi è precisa: la nuova economia non conosce più quella delega tecnologica che costituiva il perno della divisione del lavoro nell’economia industriale (attraverso le macchine gli operai erano massicciamente delegati alla produzione); neppure conosce una struttura lineare, liscia e continua. Al contrario: in un ambiente arredato da tecnologie multimediali, dove è mobilitata l’attività vitale di tutti gli organi del corpo umano, ivi predomina una divisione cognitiva del lavoro e tecnologie discrete tendono a sostituire le vecchie tecnologie accumulative dell’industria fordista.
La potenza del dislessico
Il dislessico non può che trovarsi bene in questo ambiente. Non solo manager ma anche semplice operatore linguistico. La discontinuità dislessica diviene inventiva. Il processo industriale non procede più attraverso innovazione (quantitativa, dialettica, schumpeteriana) ma attraverso convenzioni sociali nutrite da connessioni di conoscenze e di affetti, da invenzioni vere e proprie, che interiorizzano l’intero insieme delle condizioni sociali al processo produttivo.
Ciò dipende più dall’immaginazione che dalla logica, più dalla poesia e dall’umore che dalla matematica.
(Non sarà dislessico anche Marazzi? Ed anche noi non vorremmo esserlo? È chiaro che sì.). Tuttavia quel capitalismo che imprigiona il linguaggio e fa di questo la sua materia prima, trova in questo anche il suo limite.
Nel capitalismo dislessico la potenza creativa dell’agire umano si affranca dalle condizioni poste dalla logica lineare dell’economia di mercato. La crisi rivela questo suo interno divenire, l’alternarsi “delirante” tra creatività multi-sensoriale e ordine economico disciplinare.
È così che avanziamo nella conoscenza del capitalismo contemporaneo. Capitalismo di crisi -è evidente: perché esso regola una materia vivente, perché pretende di eccitare all’invenzione produttiva dispositivi di soggettività che deve, al tempo stesso, controllare. Conseguentemente
l’impresa irresponsabile è la forma del comando capitalistico su una cooperazione sociale che, per manifestarsi come attività tesa all’innovazione e allo sviluppo economico, tanto dev’essere libera, ma altrettanto dev’essere piegata nel rapporto sociale di produzione.
Ma il capitale non è solo mascalzone (e neppure lo sono semplicemente gli imprenditori). È chiaro che nel postindustriale e nei regimi economici dove la valorizzazione è estorta alla forza lavoro intellettuale, sociale e cooperante, la legge del valore non funziona più nella stessa maniera di prima -poiché la misura della produttività sociale (cioè la funzione di controllo dello sviluppo ed eventualmente della crisi) deve esser comunque determinata. La finanziarizzazione dei processi economici risponde a questo scopo. Non deve dunque esser vista come una perversione speculativa e neppure come una semplice prolungazione delle forme classiche del capitale finanziario (alla Hilferding) – questa finanziarizzazione non sta fuori ma dentro la produzione sociale.
La fusione tra salario e reddito
In conseguenza di questa interiorità, il capitale finanziario rappresenta la fusione dell’insieme delle funzioni della moneta: la tradizionale distinzione tra salario diretto e salario socializzato, fra salario e reddito è in via di estinzione. Smettiamola di piagnucolare sulla distanza dell’economia finanziaria da quella reale! Se la comunicazione, il linguaggio e la cooperazione intersoggettiva stanno al centro dei processi di valorizzazione del capitale, questa interiorità è divenuta la forza del capitale. Ma è divenuta anche la sorgente di ogni sua crisi – è lì, nella contradizione fra linguaggio come bene comune e la sua appropriazione privata.
La new economy rivela la crisi di commensurabilità che è stata la chiave del suo stesso successo. (…) I mercati finanziari hanno assunto un ruolo che in passato aspettava allo Stato keynesiano, quello della creazione della domanda effettiva indispensabile per assicurare la continuità della crescita. Lo spostamento del risparmio dal debito pubblico ai mercati borsistici (…) ha dato origine alla prima quotazione del general intellect.
Quando il dominio capitalistico investe la vita e quando la finanziarizzazione si rivela come un vero e proprio campo di esercizio del biopotere, quando il capitale si appropria non più solamente dei mezzi di produzione ma di una forza lavoro disgregata e delle sue forme di vita, che cosa avviene allora? Quale sarà, in queste condizioni, il nuovo comune dei lavoratori? Una riappropriazione comune di tutto ciò che è privato? Una democrazia come forma di vita -sociale ed economica, linguistica e politica?
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