Vale la pena di soffermarsi su questo articolo di Bucci che, dopo aver esaminato la crisi dell’intellettuale contemporaneo, studia lo strano potere del falso, dell’inautentico e dell’errore con i quali la filosofia si misura fin da Platone. Perché l’apparenza, tanto più oggi, prevale sulla verità? Perché la menzogna e la credenza persuadono più dell‘epistéme?
Pensa di vedere degli uomini che vi siano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo,
sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo.
Platone, La repubblica
Il disagio della cultura è uno dei tratti paradossali della società contemporanea. Il degrado delle istituzioni culturali e le politiche di tagli di bilancio a scuola, università, ricerca, musei, archivi, teatri, cinema ed editoria, è solo un lato del problema. Prima ancora di essere erosa dalle logiche di contabilità dei governi, la cultura è oggi messa a rischio dal venir meno della legittimazione di cui godeva in passato e dal discredito del suo ruolo nella comunità. Tramontata la stagione dell’engagement, da un lato, e dell’universalismo dei valori, dall’altro, il segno più evidente della decadenza culturale è proprio la trasformazione del ruolo degli intellettuali – ammesso che in un tempo di profonda rivoluzione delle professioni cognitive si possa ancora parlare degli intellettuali come di un ceto sociale.
Secondo un’efficace formula di Zygmunt Bauman, l’intellettuale contemporaneo sarebbe passato dalla funzione di legislatore a quella di interprete. Quella figura di intellettuale che in passato, a torto o a ragione, poteva accreditarsi agli occhi della società come portavoce di istanze universali, capace di indicare ideali e modelli per l’avvenire, ha oggi abbandonato il campo a vantaggio di una nuova schiera di professionisti della comunicazione.
L’intellettuale dei nostri giorni non ha verità alle quali legare il proprio destino, ma solo opinioni candidate, di volta in volta, a incarnare le mode dei tempi e destinate a essere accantonate non appena sorgano opinioni concorrenti più in sintonia con lo spirito dominante. Alla cultura che ambiva ad esprimere l’universalità del genere umano si sostituisce oggi una sorta di marketing delle idee da utilizzare disinvoltamente a seconda delle opportunità e delle convenienze. Ai nuovi intellettuali – ma forse sarebbe meglio parlare di intellettualoidi, sulle orme della definizione di Corinne Maier1 – si addice il ruolo non più di legislatori, ma di interpreti, di traduttori a uso e consumo del grande pubblico delle idee dominanti e funzionali al potere e ai gruppi sociali più influenti: traduttori che prediligono perlopiù il linguaggio orale e delle immagini, quello più congeniale agli studi televisivi.
Dai philosophes dei Lumi e dall’intellettuale impegnato siamo passati al tuttologo televisivo che buca lo schermo e pronuncia discorsi a effetto su qualsiasi argomento senza dire nulla. Proprio la società della comunicazione, di internet e della rivoluzione tecnologica (dove tutto è informazione e tutti sono connessi con tutti in qualsiasi momento) sta paradossalmente producendo al proprio interno fenomeni inediti di volgarizzazione della cultura di massa, di degrado delle istituzioni culturali, di plebeismo della politica, di ritorno dell’analfabetismo, di espansione di populismi e razzismi. Dall’altra parte, alla cultura e alla filosofia si profilano due strade: o rifugiarsi nell’accademia e negli specialismi, al riparo dal trash imperante o adattarsi a fare da scenografia al potere.
Alle forme di degrado che agiscono dentro e fuori il mondo professioni intellettuali si accompagna
un risentimento diffuso nella società contro la cultura in generale, percepita sommariamente come un’arma distintiva di ceti privilegiati e di poteri elitari. È quello che il poeta e critico letterario Giancarlo Majorino ha definito il
«regime invisibile» dei nostri tempi, una vera e propria «dittatura dell’ignoranza» che
agirebbe attraverso le «comunicazioni di massa», la pubblicità, l’«istituzione permanente della spettacolarità», la «progressiva sostituzione del linguaggio con le immagini», la «sottovalutazione del pensare o ragionare», il «dominio del Denaro e del Potere»2. Meno evidente è come in
questo disprezzo nei riguardi della cultura che pure potrebbe incarnare un revanchismo plebeo verso le élites professorali e saccenti, si nasconda in realtà un meccanismo funzionale alle strategie del potere (vedi il
post dedicato all’antiintellettualismo fascista, NDR). Le analisi sul berlusconismo hanno portato allo scoperto un sistema egemonico nella società italiana incentrato proprio sull’
uso dell’ignoranza come tecnica di governo3.
Non v’è dubbio che la narrazione berlusconiana del successo individuale e del profitto a discapito di qualsiasi regola abbia fatto da pendant al disprezzo per la cultura e per ogni forma di sapere critico. Il dileggio e il sarcasmo spesso ostentati dal ceto politico nei confronti degli intellettuali non asserviti allo spirito dominante, sono state le armi con le quali il berlusconismo ha rivendicato un legame diretto con l’anima plebea del paese, con i sentimenti e le pulsioni della “gente”, anche di quelli più inconfessabili, di quelli che fino a qualche decennio fa sarebbero stati considerati tabù inaccettabili in un discorso pubblico. Da questo punto di vista l’epoca berlusconiana ha rappresentato la manifestazione storica o fenomenologica di un potere fondato sull’uso dell’ignoranza: uso per l’appunto e non a caso, dal momento che l’ignoranza non va confusa con uno stato di semplice passività, di tacitazione di qualsiasi forma di sapere.
C’è nell’ignoranza molta più forza attiva e molta più capacità di costruire modelli di narrazione del mondo di quanto non si sia disposti a concedere. Del resto, se l’ignoranza fosse totalmente non-sapere, vuoto assoluto di determinazioni concettuali, si dovrebbe ipotizzare la possibilità di una coscienza totalmente priva di punti di vista sul mondo, sprovvista di un qualsiasi orientamento ideale e teoretico. Ma una tale condizione intellettuale di tabula rasa è assurda, altrettanto quanto l’idea di una coscienza priva di coscienza, sprovvista di quella struttura intenzionale che la fenomenologia novecentesca ha indagato efficacemente. La formula dell’ignoranza deve quindi essere più complicata se si vuole risalire ai meccanismi che ne rendono possibile gli usi politici descritti più sopra: una formula in grado di distinguere l’ignoranza dalla cultura e, al tempo stesso, di riconoscerne la capacità di produrre (falsi) saperi e punti di vista sul mondo.
C’è di più: i confini dell’ignoranza non possono essere definiti una volta per tutte, ma possono allargarsi e restringersi in funzione del suo termine antagonista, vale a dire di ciò che in ogni epoca e società viene universalmente considerato “cultura”. Non avrebbe alcun senso lanciarsi in improbabili discussioni se un individuo poco istruito del nostro tempo sia da considerarsi più o meno ignorante di un contadino analfabeta vissuto nell’Italia di fine ottocento o nella Germania del XVI secolo. Quel che importa è che ogni società, in ogni epoca, produce oltre alla propria cultura anche dei criteri standard condivisi in base ai quali un individuo possa essere giudicato colto o ignorante. Il ragionevole dubbio è che nella nostra epoca questi criteri siano collassati. Il progresso della tecnologia e dei saperi è andato così avanti nell’accumulazione delle conoscenze da non poter più essere padroneggiato da un singolo individuo. Se nelle epoche passate era possibile per un intellettuale elevarsi alla cultura del proprio tempo seguendo un percorso di letture e di studi in qualche modo codificati, oggi si è dissolta l’idea di un’unica via d’accesso alla cultura e tanto più a tutta la cultura nel suo complesso.
Il paradosso è che, da un lato, è in atto una vera e propria rivoluzione cognitiva, accompagnata dalla proliferazione di paradigmi e di saperi specialistici (combinati con le potenzialità tecniche della Rete), mentre dall’altro lato assistiamo a un degrado culturale, all’impoverimento del linguaggio corrente e delle capacità logico-argomentative, a fenomeni di analfabetismo di ritorno, al diffondersi di rozzi stereotipi nel senso comune. L’accesso al sapere oggi è reso più difficile che in passato anche a causa di ragioni profonde e oggettive. Non si tratta soltanto della crisi dei sistemi formativi (scuola, università, editoria) o dell’effetto deleterio dei mezzi di comunicazione di massa o, ancora, dall’assenza di agenzie culturali in grado di svolgere una pedagogia popolare di massa. L’accesso al sapere è ostacolato in primo luogo dalle caratteristiche strutturali della rivoluzione cognitiva in atto, la quale è andata così avanti e così oltre nell’estensione quantitativa delle conoscenze, nella specializzazione delle discipline e dei discorsi da eccedere la capacità della mente individuale di potersi impadronire, soggettivamente, di tutto il sapere prodotto. Da questo punto di vista siamo tutti ignoranti.
Una barriera si è interposta tra il sapere che ciascuno di noi contribuisce a produrre attraverso lo sviluppo delle professioni intellettuali e le nostre stesse capacità di apprendimento. Per questo stesso motivo l’antitesi tra ignoranza e cultura deve essere relativizzata e non trattata come la contrapposizione, l’una di fronte all’altra, di due “immediatezze non mediate”: come non può esistere un’ignoranza assoluta, un non-sapere, un vuoto epistemico, così non si può immaginare una cultura onnicomprensiva (se non come ideale irraggiungibile). E se invece di una rappresentazione parossistica si provasse a definire ignoranza e cultura come due possibilità interne al sapere, come due diversi esiti possibili a seconda di come si struttura la nostra narrazione del mondo?
Non interessa qui imboccare un’indagine di tipo sociologico sulle condizioni che oggi rendono possibile la produzione di sapere: le caratteristiche di ceto degli intellettuali, l’organizzazione sociale del lavoro intellettuale, la comparsa di nuove professioni cognitive, il mutamento dei consumi culturali, il passaggio da una cultura prevalentemente scritta a una cultura prevalentemente audiovisiva, il rapporto tra cultura e comunicazione di massa, solo per citarne alcune. L’analisi si restringe al tentativo di capire come sia possibile, dal punto di vista filosofico, la divaricazione all’interno del sapere tra cultura e ignoranza o, se si vuole, nella più classica antitesi tra falso sapere e sapere autentico. Per quanto fallace e in contrasto con la cultura, l’ignoranza ha una sua consistenza epistemologica che le permette di costruire una qualche forma di sapere sul mondo, utilizzando a propria volta e con strategie funzionali i materiali che le provengono dalla cultura. L’ignoranza è un modo di organizzare – o deformare, se si vuole – conoscenze frammentarie e decontestualizzate all’interno di un diverso contesto, dove ogni cosa perde il suo valore originario e viene a significare il suo contrario. In questo senso, la distinzione tra cultura e ignoranza si gioca non tanto sullo specialismo e sul possesso di questa o quell’altra conoscenza, quanto piuttosto sullo sfondo e sul modo di organizzare le singole conoscenze. La frontiera che le separa non è una questione di quantità.
Il mondo invertito
La classificazione delle modalità del sapere, da quelle più inautentiche e fallaci a quelle dotate di sufficienti requisiti di verità, è una costante nella storia della filosofia occidentale. Senza dubbio il primo tentativo sistematico di inventariare le forme dell’episteme è quello operato da Platone. Nella Repubblica il progetto platonico di governo della società è legato proprio alla distinzione tra ignoranza e cultura, tra errore e verità, tra dóxa e epistéme. E la legittimazione del potere politico coincide con la capacità di percorrere sino in fondo il cammino ascendente dai primi due gradi della conoscenza, l’immaginazione e la credenza (eikasía, pístis), agli ultimi due, la ragione discorsiva e l’intelletto (diánoia, noûs).
La verità si libera dall’errore attraverso una progressiva purificazione dalle immagini sensibili e dalle opinioni solidificate sotto forma di credenze. Ma appena affermata la distinzione tra l’opinione e la scienza, sorge subito il problema non irrilevante di dare conto dell’errore e di come sia possibile l’esistenza di un sapere falso che disconosca la verità. Come è possibile mai che nell’esperienza ordinaria le opinioni erronee si presentino come le più ovvie e scontate e che la verità, invece, risulti spesso in antitesi con il senso comune? Perché gli oggetti che popolano il mondo della falsa conoscenza hanno l‘apparenza di fatti naturali mentre, all’opposto, gli oggetti della scienza risultano paradossali alla coscienza comune? Nulla provoca più stupore nei filosofi del mondo ordinario dove ogni cosa appare il contrario di come realmente è. Se, come sosteneva Aristotele, gli uomini iniziano a filosofare «a causa della meraviglia», allora non esiste fattore di instabilità più potente dell’ignoranza. Ciò che spiazza è la forza con la quale, nel senso comune, l’ignoranza confonde l’opinione con la scienza, il paradosso con l’ovvio, in una parola, l’apparenza con la realtà, attribuendo al falso le proprietà del vero e viceversa. «Se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica»4. Ma come è possibile che il falso possa presentarsi agli occhi della coscienza comune con le caratteristiche del vero?
A ben vedere il problema principale di Platone non è l’esistenza delle idee, bensì l’esistenza del mondo ordinario, il dover rendere conto dell’apparenza ingannevole e del rapporto degli oggetti fisici con le idee. Come è possibile che il falso possa esistere e persino accreditarsi nelle opinioni degli uomini con un carattere di evidenza superiore a quello della scienza? Tanto più il filosofo inasprisce l’antitesi tra mondo fisico e mondo ideale, quanto più egli è paradossalmente costretto a dar conto della vis existendi delle cose ingannevoli. Allo stesso modo, all’ignoranza deve essere pur riconosciuta una qualche consistenza epistemologica dal momento che essa non è una pura invenzione. È perché esiste una separazione/distinzione ontologica della realtà in un sopra e in un sotto, in un esterno e in un interno, che può esistere di conseguenza anche un falso sapere. Anche la doxa platonica è, alla sua maniera, una produzione di sapere, sia pure distinto dalla vera scienza, in quanto fondato sulle immagini degli oggetti fisici. D’altro lato, il darsi di un sapere apparente costringe la filosofia ad affrontare il compito di una comprensione scientifica delle forme dell’opinione e di come quest’ultima possa scambiare i propri oggetti per fatti naturali. Hegelianamente «questa necessità fa sì che tale cammino verso la scienza sia a sua volta già scienza, e perciò, secondo il suo contenuto [non secondo il metro di giudizio della coscienza ordinaria, nda], scienza dell’esperienza della coscienza»5. Fino a che le cause reali dell’ignoranza non vengono comprese scientificamente, la rimozione del falso sapere è condannata a svolgersi solo nel cielo della rappresentazione filosofica: un rituale che non impedirebbe all’apparenza di continuare a produrre effetti di realtà sulla coscienza comune e sulle sue opinioni. Tutto ciò che accade nel mondo ordinario si svolge su un piano di simulazione e dissimulazione, ma non per questo i vincoli che legano l’immaginazione e l’intelletto degli uomini all’apparenza ingannevole delle cose risultano meno potenti. Il mito platonico della caverna descrive il potere delle false immagini sull’uomo alla stregua di catene. «Pensa di vedere degli uomini che vi siano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo»6. Quei saperi e quelle professioni – come l’arte, la retorica, la poesia – che a giudizio di Platone vivono nel (e del) mondo empirico e rinunciano all’esercizio della critica nei suoi riguardi (a proposito della crisi dell’intellettuale contemporaneo!) subiscono, senza avvedersene, la forza della vita ordinaria che appare loro come fosse un ordine naturale. La common life è una parvenza, tuttavia implica «certe forze coattive (simboleggiate dalle catene) da cui occorre liberare gli uomini. Il mondo quotidiano, con le sue sensazioni, aspirazioni, allettamenti, è al contempo inconsistente e potente; simile in questo a quello che epoche posteriori avrebbero chiamato magico»7.
Dotato di analoga potenza magica è, non a caso, quel mondo quotidiano delle merci che il giovane Marx evocava nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 – un mondo dove accanto al disincantamento prodotto dalla distruzione di ogni morale a opera del mercato, coesiste una forza misteriosa che strega la quotidianità della vita delle persone8. La merce trasforma il mondo ordinario in un teatro di potenze estranee, prodotte dal lavoro sociale degli individui, ma a questi oramai imperscrutabili nel proprio essere divenute autonome: un mondo dove ogni cosa è ridotta all’astratta misura della quantità e del denaro. «Per trovare un’analogia – dirà Marx molto più tardi nella sua opera matura, Das Kapital, nel famoso paragrafo sul Carattere di feticcio della merce e il suo arcano – dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Qui i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che si attacca ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione di merci»9. E ancora, nel terzo libro dell’opera, Marx stabilirà un legame tra il feticismo delle merci e la corrispondente forma di sapere, vale a dire l’economia “volgare”. «Il mondo dell’apparenza» è quello nel quale tutto è «mistificazione»: le merci, anziché presentarsi per quel che sono, vale a dire forme mediate, appaiono come cose nelle quali non v’è più traccia dei rapporti sociali. In questo «mondo stregato, deformato e capovolto» l’economia volgare non vede altro che oggetti dotati di vita propria, toccando l’apice di una «religione della vita quotidiana» che oggi chiameremmo pensiero unico10.Questa cultura rozza che si arresta sulla soglia dell’apparenza e crede alla «personificazione delle cose» sarebbe però misteriosa a spiegarsi se non fosse che essa trova una conferma alle proprie credenze nella struttura stessa della realtà, organizzata in una superficie e in un’essenza dei fenomeni. Sarebbe riduttivo, in altri termini, pensare che l’ignoranza sia soltanto un “errore epistemologico” o una deformazione della nostra percezione del mondo a opera di una sorta demone cartesiano che faccia apparire per vero ciò che non lo è. Il sospetto è che il falso sapere sia molto di più di una semplice illusione proiettata sulle cose esterne e che esso, in ultima istanza, derivi da una distorsione insita nelle cose stesse, cioè dal modo in cui la stessa realtà si presenta alla coscienza. Più che una piega intimistica il “populismo volgare” sarebbe un atteggiamento teorico disposto a credere agli effetti di realtà del mondo dell’apparenza, a concedere che le cose siano davvero così come appaiano (naturalismo gnoseologico, NDR).
Ma se è così, occorre qualcosa in più di una robusta operazione pedagogica per colmare il divario tra ignoranza e cultura o, se si vuole, tra senso comune e scienza. Bisognerà forse riprendere, oltre all’epistemologia, la cara vecchia questione ontologica. Più che con un demone cartesiano, l’antagonista di questa partita sarà il diavoletto di Maxwell, un astuto meccanismo che agisce direttamente nelle pieghe molecolari della materia. Lo stesso Marx era dell’avviso che una trappola del genere si annidasse nell’esperienza, facendo apparire in superficie un mondo invertito rispetto alla sua essenza più profonda. Le «verità scientifiche» sono «sempre paradossali quando vengono misurate alla stregua dell’esperienza quotidiana, la quale afferra solo l’apparenza ingannevole delle cose»11. Quel che nel mondo ordinario si presenta come realtà, nel discorso scientifico si scopre essere apparenza. Nella vita quotidiana, ad esempio, sembrerebbe che le merci vengano vendute a un prezzo notevolmente superiore ai loro valori reali e che, a seguito di tale maggiorazione di prezzo, si formi il profitto. Ma non appena viene considerato dal punto di vista scientifico l’effetto di realtà della merce si sgonfia e si rivela il contrario di quel che appare nella quotidianità. L’opinione comune che, al contrario delle «paradossali» verità scientifiche, sembrava avere a proprio sostegno l’evidenza dei fatti, si scopre essere un effetto della «apparenza ingannevole delle cose». Non un semplice errore, ma un travisamento in qualche modo necessario al riprodursi della struttura della realtà. La sfasatura tra opinione e scienza corrisponderebbe all’antitesi tra l’apparenza dei fenomeni e la loro essenza12. Il fatto che Marx ricorra all’analogia con il moto di rotazione della terra attorno al sole è illuminante riguardo alla struttura di realtà che presiede alla divaricazione tra senso comune e sapere scientifico. «Fin da principio è evidente che un’analisi scientifica della concorrenza è possibile soltanto quando si sia capita la natura intima del capitale, proprio come il moto apparente dei corpi celesti è intelligibile soltanto a chi ne conosca il movimento reale, ma non percepibile con i sensi»13. Ciò che si manifesta alla superficie è soltanto «il movimento di questo mondo invertito»14. Il compito della scienza sarebbe quindi quello di risalire al rapporto essenziale [wesentliches Verhältnis] o all’intima connessione [innerer Zusammenhang] che lega i due mondi separati, il mondo della ingannevole apparenza e il mondo dell’essenza che a quella si contrappone. Altrimenti ogni pedagogia sarà destinata a tramutarsi in un vano sforzo edificante. Altrimenti cultura e ignoranza continueranno a vivere in universi paralleli, l’una condannata allo specialismo, l’altra a essere incorporata nelle strategie del potere. Hic Rhodus, hic salta._____________________________________________
Note
1 Corinne Maier è l’autrice di un fortunato pamphlet, Intellettualoidi di tutto il mondo unitevi!, Bompiani, Milano 2007
2 Giancarlo Majorino, La dittatura dell’ignoranza. Il regime invisibile, Milano 2010.
3 La letteratura sull’argomento è sterminata. Tra gli altri si possono consultare gli studi di Michele Ciliberto, La democrazia dispotica, Laterza, Roma-Bari 2011; Filosofia di Berlusconi, a cura di Carlo Chiurco, ombre corte, Verona 2010; Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere, a cura di Paul Ginsborg e Enrica Asquer, Laterza, Roma-Bari 2011; Carlo Donolo, Italia sperduta, Donzelli, Roma 2011; Luigi Ferrajoli, Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana, Laterza, Roma-Bari 2011; Lorella Cedroni, Menzogna e potere nella filosofia politica occidentale, Le Lettere, Firenze 2010; Paolo Ceri, Gli italiani spiegati da Berlusconi, Laterza, Roma-Bari 2011.
4 Aristotele, Metafisica, 982b-983a, trad. di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2004.
5 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, La fenomenologia dello spirito, 21, trad. di Gianluca Garelli, Einaudi, Torino 2008.
6 Platone, Repubblica, 514a.
7 Bernard Williams, Platone: l’invenzione della filosofia, in Il senso del passato. Scritti di storia della filosofia, Feltrinelli, Milano 2009.
8 «Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei ai quali l’uomo è soggiogato, e ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni». E «il bisogno di denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità di denaro diventa sempre più il suo [dell’uomo, nda] unico attributo di potenza: come il denaro ha ridotto ogni essere alla propria astrazione, così esso si riduce nel suo proprio movimento a mera quantità» (Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, 1968).
9 Karl Marx, Il capitale, Libro primo, Roma, 1964.
10 Karl Marx, Il capitale, Libro terzo, Roma, 1965.
11 «… per spiegare la natura generale dei profitti, dovete partire dal principio che le merci in media sono vendute ai loro valori reali, e che i profitti provengono dal fatto che le merci si vendono ai loro valori, cioè proporzionalmente alla quantità di lavoro che in esse è incorporata. Se non potete spiegarvi il profitto su questa base, non potete spiegarlo affatto. Ciò sembra un paradosso e in contraddizione con l’esperienza quotidiana. È anche un paradosso che la terra giri intorno al sole e che l’acqua sia costituita da due gas molto infiammabili. Le verità scientifiche sono sempre paradossali quando vengono misurate alla stregua dell’esperienza quotidiana, la quale afferra solo l’apparenza ingannevole delle cose» (Karl Marx, Salario, prezzo e profitto).
12 L’antitesi tra senso comune e scienza sulla quale Marx insiste, non è un’osservazione passeggera, ma si tratta di un principio metodologico senza il quale non si capirebbe la struttura del Capitale. È una tesi sostenuta da Massimo Mugnai ne Il mondo rovesciato (il Mulino, Bologna 1984). «Al livello della realtà sociale, la sfasatura tra apparenza ed essenza si configura come distinzione tra una sfera di forme fenomeniche che si impongono alla coscienza nella vita ordinaria con la forza di forme naturali, e un meccanismo nascosto che dà ragione dei movimenti apparenti e spiega come sorgano e si articolino le forme fenomeniche».
13 Karl Marx, Il capitale, Libro primo, Roma, 1964.
14 Karl Marx, Teorie sul plusvalore, III, 1956. L’accenno alla verkehrte Welt nasconde un riferimento al «mondo invertito» di Hegel, che esprime proprio «l’autonomizzarsi del mondo dell’apparenza di fronte a un mondo reale dell’in sé concepito come verità del primo» (Massimo Mugnai, Il mondo rovesciato, op. cit.).
Tratto da: http://www.kainos-portale.com/index.php/saggi-portale/235-il-disagio-della-cultura
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