Guido Viale illustra uno dei principi cardine dell’economia neoclassica e delle politiche neoliberali, in relazione alla Carta di Milano e alla lotta alla denutrizione in chiave Expo.
Trickle-down (in italiano, sgocciolamento) è il nome di una teoria economica, ma anche di una filosofia, che molti hanno conosciuto attraverso la parabola di Lazzaro che si nutriva delle briciole che il ricco Epulone lasciava cadere dalla sua mensa (Luca, 16, 19-31). Dopo la loro morte le parti si sono invertite perché Lazzaro è stato ammesso al banchetto di Dio, in Paradiso, mentre Epulone è finito all’inferno a soffrire fame e sete. La teoria e la filosofia del Trickle–down in realtà si fermano alla prima parte della parabola. La seconda parte è compito nostro realizzarla; e non in Paradiso, dopo la morte, ma su questa Terra, qui e ora.
In ogni caso, secondo la teoria, più i ricchi diventano ricchi, più qualche cosa della loro ricchezza “sgocciolerà” sulle classi che stanno sotto di loro, per cui che i ricchi siano sempre più ricchi conviene a tutti. Discende da questa teoria la progressiva riduzione delle tasse sui redditi maggiori (fino alla flat tax, l’aliquota uguale per tutti, predicata negli USA dal partito repubblicano e, in Italia, da Matteo Salvini) che, a partire dagli anni settanta, ha inaugurato la crescita incontrollata delle diseguaglianze. In Italia la progressiva riduzione delle aliquote marginali dell’imposta sui redditi più elevati (al momento dell’introduzione dell’Irpef era di oltre il 70 per cento; oggi supera di poco il 40) è stata giustificata sostenendo che aliquote troppo elevate incentivano l’evasione fiscale, mentre aliquote più “ragionevoli” l’avrebbero eliminata. I risultati si vedono.
L’altro cavallo di battaglia della Trickle-down economics è che le misure di incentivazione economica dovrebbero essere destinate esclusivamente alle imprese, perché sono solo le imprese a creare buona occupazione e, quindi, reddito e benessere anche per i lavoratori. Tutte le altre spese, specie se di carattere sociale, sono, in termini economici, “sprechi”. Ma l’evoluzione tecnologica rende sempre di più job-less, cioè senza occupazione aggiuntiva, la crescita sia della singola impresa che del sistema nel suo complesso. Anzi, molto spesso la riduzione dell’occupazione in una impresa viene salutata con un drastico aumento del suo valore in borsa. Trasposta sul piano sociale, la filosofia del Trickle-down ha assunto i connotati del “capitalismo compassionevole”, che negli Stati Uniti costituisce la dottrina ufficiale dell’ala più reazionaria del partito repubblicano, e non solo di quella. In base ad essa il welfare, come insieme di misure tese a garantire in forma universalistica i diritti fondamentali del cittadino – pensione, cure sanitarie, istruzione, sostegno al reddito – va eliminato perché induce chi ne beneficia all’ozio; e va sostituito con la beneficienza gestita dalla generosità dei ricchi, nelle forme da loro prescelte e indirizzandola, ovviamente, solo a chi, a loro esclusivo giudizio, “se la merita”.
Non c’è negazione più radicale della dignità dell’essere umano (e del vivente in genere) di una teoria come questa. Eppure è una concezione che sta progressivamente prendendo piede in tutti gli ambiti della cultura ufficiale, anche là dove gli istituti del Welfare State (che letteralmente significa Stato del benessere, e che da tempo viene tradotto sempre più spesso con l’espressione “Stato assistenziale”) sono, bene o male, ancora in funzione. Non deve stupire quindi di ritrovare i capisaldi di questa concezione violentemente antidemocratica in quello che viene fin da ora ufficialmente indicato come “il lascito immateriale” della peggiore manifestazione della teoria e della prassi del capitalismo finanziario, o “finanzcapitalismo”: la cosiddetta “carta di Milano” dell’Expo. Lascito immateriale, perché quello materiale, come è ormai noto, non è che devastazione del territorio, asfalto e cemento, corruzione, nuovi debiti di Comune, Regione e Stato, violazione dei diritti, della dignità e della sicurezza del lavoro (l’Expo è stato il laboratorio del Job-act), propaganda per un’alimentazione, un’agricoltura e un’industria alimentare tossiche e, dulcis in fundo, un meccanismo di perpetuazione delle Grandi Opere inutili: perché, a Expo concluso, ci sarà da decidere che cosa fare, con nuovo cemento, nuovi debiti e nuova corruzione di quell’area ormai devastata.
Uno dei punti o propositi qualificanti della Carta di Milano è infatti la lotta contro lo spreco alimentare attraverso il recupero del cibo che oggi viene buttato via, destinandolo ai poveri. Nella carta i riferimenti a questo proposito sono tre:
“[assicurarsi] che il cibo sia consumato prima che deperisca, donato qualora in eccesso e conservato in modo tale che non si deteriori”; “individuare e denunciare le principali criticità nelle varie legislazioni che disciplinano la donazione degli alimenti invenduti per poi impegnarci attivamente al fine di recuperare e ridistribuire le eccedenze”; “creare strumenti di sostegno in favore delle fasce più deboli della popolazione, anche attraverso il coordinamento tra gli attori che operano nel settore del recupero e della distribuzione gratuita delle eccedenze alimentari”.
Apparentemente si tratta di raccomandazioni di buon senso: dare a chi non può permetterselo il cibo che altrimenti butteremmo via. E’ quello che si cerca di fare con istituzioni e programmi benemeriti, come la legge detta del “Buon Samaritano” o il Last-minute market promosso dal prof. Andrea Segrè. Il fatto è che sono misure messe a punto nell’ambito della gestione dei rifiuti e tese alla loro minimizzazione (in vista del loro azzeramento, previsto dal programma Rifiuti zero, che le renderebbe superflue). Trasposte nell’ambito di un programma planetario per “nutrire il pianeta” hanno l’effetto di retrocedere all’ambito della gestione dei rifiuti il tema della sottoalimentazione di una parte decisiva dell’umanità, la cui condizione è invece il prodotto delle grandi e crescenti diseguaglianze mondiali nella distribuzione dei redditi, del lavoro e delle risorse. Per cogliere meglio questo punto è necessario risalire a quella che è la matrice della Carta di Milano, cioè il “Protocollo di Milano”: un documento elaborato dalla fondazione Barilla – emanazione dell’omonima multinazionale alimentare – a cui l’Expo ha affidato il compito di individuare i capisaldi del programma “nutrire il pianeta”, che sono poi stati tradotti “in pillole” nella Carta di Milano; e che ha la pretesa di definire un programma di azione dei prossimi decenni per tutti i soggetti del mondo – Governi, imprese, associazioni, cittadini – impegnati nella filiera agroalimentare come produttori, distributori o consumatori.
Nel Protocollo di Milano il tema dello spreco di alimenti occupa il primo posto: “Primo paradosso – SPRECO DI ALIMENTI: 1,3 miliardi di tonnellate di cibo commestibile sono sprecati ogni anno, ovvero un terzo della produzione globale di alimenti e quattro volte la quantità necessaria a nutrire gli 805 milioni di persone denutrite nel mondo”. Nell’ambito dei programmi per sradicare la fame, tra cui “le disposizioni pertinenti nel quadro delle legislazioni internazionali, regionali e nazionali per la protezione e conservazione delle risorse e l’adozione di azioni finalizzate allo sviluppo sostenibile nella Direttiva quadro europea sulle acque, il Piano d’azione per un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio per sradicare la povertà estrema e la fame”, il Protocollo di Milano arriva a trattare questa prima emergenza planetaria con le stesse modalità con cui, in un qualsiasi Comune d’Italia, si affronta il problema della gestione dei rifiuti: “Le iniziative per la riduzione degli sprechi devono rispettare la seguente gerarchia:1. Prevenzione; 2. Riutilizzo per l’alimentazione umana; 3. Alimentazione animale; 4. Produzione di energia e compostaggio”.
Se la guerra alla fame nel mondo è in primo luogo una lotta contro la trasformazione degli alimenti in rifiuti (e non per una più equa distribuzione delle risorse), è ovvio che ai poveri e agli affamati del pianeta non spetti altro che il compito di smaltire ciò di cui i ricchi si vogliono sbarazzare. Cioè sedersi, come Lazzaro, ai piedi della tavola del ricco Epulone. Con il che la Trickle-down economics fa il suo ingresso trionfale nel “lascito” dell’Expo.
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