La reazione a Razza e storia e le conseguenze culturali del lavoro di Lévi-Strauss.
La pubblicazione, nel 1952, di Razza e storia non passò inosservata. Accanto alle lodi per un testo che affrontava in maniera diretta e ampia lo spinoso problema del rapporto tra “razza”e civiltà, vi fu chi espresse decise riserve che furono però – è bene precisare subito – il segno di una fondamentale incomprensione di gran parte della cultura francese di allora. C’erano stati la Seconda guerra mondiale e l’Olocausto; il colonialismo era morente; i problemi demografici e alimentari ricevevano allora, per la prima volta nella storia, un’attenzione mondiale. Non si trattava più soltanto di studiare sperdute umanità nel cuore delle foreste o dei deserti. Studiare piccole comunità marginali era certamente ciò che lo stesso Lévi-Strauss aveva fatto in Brasile ma a questo studio e a queste ricerche egli dava un respiro e un taglio problematico più ampio di quello che aveva fino ad allora caratterizzato l’antropologia nel suo Paese e altrove.
Il rapporto tra culture, il posto dell’uomo nella natura, il diritto che l’Occidente si era assunto di farsi “tutore” delle altre forme di vita sociale e culturale, erano temi “nuovi” per la discussione intellettuale e la preparavano ad altri dibattiti e confronti. E Lévi-Strauss parlava infatti dell’antropologia come di un argine che poteva opporsi all’inarrestabile avanzata planetaria dell’Occidente; avanzata che minacciava di negare la conoscenza e la comprensione – proprio in Occidente – delle umanità “altre”. Erano in pochi, allora, a capirlo davvero.
Un esempio illustre dell’incomprensione di cui fu oggetto Razza e storia, è dato dalla critiche espresse da Roger Caillois (1913-1978)[1], intellettuale francese di fama. Nel 1954, dalle pagine di una prestigiosa rivista di allora, Caillois si mostrò irritato dalla visione che Lévi-Strauss aveva delle culture come di universi relativi, ognuno dei quali dotato di caratteristiche proprie. Caillois non voleva certo sostenere l’idea della superiorità di una “razza” su un’altra né appoggiare l’idea di un dominio legittimo dell’Occidente sulle culture “arretrate” o “arcaiche”. Egli, piuttosto, provava fastidio per l’atteggiamento di Lévi-Strauss, che “ridimensionava” la superiorità dell’Occidente di fronte alla complessità dei sistemi di parentela australiani o all’eccezionale senso estetico dei melanesiani. In definitiva Caillois accusava Lévi-Strauss di snobismo intellettuale, di voler forzare la tesi della relatività delle culture fino al paradosso di mettere sullo stesso piano le conquiste della scienza occidentale con forme di pensiero e di sensibilità che, per quanto notevoli, non potevano comunque competere con le acquisizioni dell’Occidente.
La risposta di Lévi-Strauss a Caillos arrivò dalle pagine di un’altra rivista allora tra le più importanti, Les temps modernes, fondata e diretta dal filosofo e scrittore Jean-Paul Sartre (1905-1980)[2],
Studiando la propria società l’etnografo deve prima porsi verso di essa con un distacco completo quanto quello che avrebbe nei confronti di una qualsiasi piccola tribù africana o melanesiana […]. Ma, se è vero che non potrà pretendere di esserci riuscito senza avere incorporato la concezione della società e del mondo che ha l’africano o il melanesiano, allora dovrà compiere uno sforzo supplementare nei confronti della propria civiltà: dopo esserne uscito, rientrarvi. Ma non tornerà tale e quale era alla partenza […] Le condizioni di vita e di lavoro dell’etnografo lo hanno in primo luogo estromesso dal suo gruppo per lunghi periodi; a causa dei cambiamenti cui si è sottoposto, egli è vittima di una sorta di sradicamento cronico: non si sentirà mai più a casa propria da nessuna parte. Il viaggio qui presenta un valore di simbolo. Viaggiando, l’etnografo – a differenza del sedicente esploratore e del turista – mette in gioco la propria posizione nel mondo, ne varca i limiti.[3]
I “limiti” a cui Lévi-Strauss qui allude, sono quelli della tradizione culturale in cui si è nati e cresciuti. In altri termini ogni cultura, per quanto progredita, ha dei limiti, per la semplice ragione che le culture sono “tante”. Secondo Lévi-Strauss, Caillois rifiutava la posizione relativista poiché, al pari di tanti altri, mal tollerava l’idea di appartenere a una cultura tra le altre, un’idea che solo chi è uscito dalla propria per farvi poi ritorno (l’antropologo) può accettare con consapevolezza e spirito critico. Successivamente Lévi-Strauss e Caillois ebbero modo di incontrarsi e di discutere ancora. Parecchi anni dopo, tuttavia, sarà proprio Caillois a tenere, in onore di Lévi-Strauss, ormai una celebrità mondiale, il discorso di benvenuto all’Académie française:
“Signore, quando Lei risaliva i fiumi impassibili per addentrarsi nell’umidità di quei tropici di cui ha raccontato la tristezza[4], non si sarebbe aspettato, almeno presumo, di occupare un giorno un seggio tra noi in questo abito non meno carico di ornamenti[5] di quanto lo siano di pitture e tatuaggi i corpi degli indiani che Lei si dedicava a meglio conoscere e dai quali ha avuto l’umiltà di dichiarare che riceveva lezioni.
Quella tra Lévi-Strauss e Caillos non è stata soltanto una disputa intellettuale. Le questioni dibattute riguardavano – e riguardano tuttora – ogni individuo, il significato del vivere all’interno di una determinata società e non di un’altra, e il rapportarsi con culture diverse dalla propria. In questa prospettiva Razza e storia è un testo da cui possiamo ancora imparare molte cose. La prima è proprio quella che rendeva inquieto Roger Caillois: la consapevolezza di far parte di una tradizione – l’Occidente – che, benché sia riuscita a dominare a lungo il mondo con la forza della scienza, delle idee, della tecnica e anche delle armi, è solo una tra le tante che hanno popolato e che popoleranno in futuro il pianeta.
[1] Saggista dai vasti interessi, a Caillois si devono studi importanti, che hanno affrontato temi di interesse antropologico: dal mito al sacro, dal linguaggio alla magia alle invenzioni fantastiche.
[2] Esponente di spicco della corrente filosofica dell’esistenzialismo, fu un autore prolifico e versatile. Avvicinatosi al marxismo, divenne sostenitore di una figura di intellettuale “impegnato”. Tra le sue numerose opere, il romanzo La nausea (1938) e il saggio filosofico L’essere e il nulla (1943)
[3] Ora in R. Caillois e C. Lévi-Strauss, Diogene coricato. Una polemica su civiltà e barbarie, a cura di M. Porro, Medusa, Milano 2004, pp. 102-103.
[4] Il riferimento è a Tristi tropici (1955), che farà conoscere Lévi-Strauss, anche al di fuori della cerchia degli antropologi (vedi p. 64).
[5] Riferimento all’abito da cerimonia dei membri dell’Académie frangaise, ricco di decorazioni.
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