Ugo Mattei, Cina, tra riti e legge

by gabriella

Cina

Che la Cina stia diventando potenza di primissimo piano in corsa per l’accaparramento di risorse globali per un futuro che promette ben poco di buono non è in discussione. Basta girare l’Africa e l’America Latina per cogliere l’impressionante portata della sua presenza, ma soprattutto la rispettosa accoglienza in generale riservatale dalle popolazioni locali. I cinesi, infatti, non presentano il volto arrogante dell’Occidente. Non impongono riforme strutturali o l’introduzione di una retorica dei diritti e della democrazia. La Cina condivide col Sud del mondo una lunga storia di vittimizzazione da parte dell’Occidente e una tale condivisione crea legami profondi. Che l’Occidente abbia imparato a considerare la Cina come un proprio pari, dimostrando il dovuto rispetto per un così importante «condomino globale» è assai più dubbio.

Il diritto offre un’eccellente finestra per osservare la dialettica CinaOccidente, indagando quell’assurdo atteggiamento di superiorità globale che abbiamo sviluppato auto-promuovendoci campioni della «legalità» e infliggendo la nostra retorica a tutte le periferie. L’ingresso sella Cina al Wto, avvenuta nel 2002, è stata preparata da parte cinese attraverso un incredibile numero di riforme del proprio sistema giuridico, non soltanto riforme legislative di tipo formale (abrogate centinaia di leggi contrarie allo spirito del libero commercio internazionale, sostituite con liberalizzazioni in diversi settori dell’economia; introdotte leggi che definiscono strutture proprietarie private, inclusa la proprietà intellettuale) ma anche riforme strutturali, come quelle relative alla formazione dei giudici e all’insegnamento accademico del diritto.

Eppure il trattato di adesione al Wto, contiene clausole che mantengono la Cina in serie B. Infatti, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) è un’istituzione fondata sulla formale, quanto ipocrita, uguaglianza giuridica di tutti i suoi membri. Tutti formalmente uguali tranne la Cina, il solo paese obbligato a tradurre le sue leggi in lingua occidentale, probabilmente al fine di facilitare il controllo circa i suoi progressi sulla luminosa strada della legalità da noi tracciatale.Non è la prima volta che ciò succede nella storia. Dopo la Guerra dell’Oppio (1853) sono state imposte alla Cina capitolazioni particolarmente umilianti che, aprendo il mercato, garantivano giurisdizione consolare per gli occidentali. Istituita nel 1906, una Corte Federale Americana ha mantenuto la giurisdizione per i rapporti fra occidentali a Shanghai fino al 1943. A fine diciannovesimo secolo e per tutta la prima fase del ventesimo, al fine di mostrarsi paese degno di essere ammesso nel consesso internazionale, la Cina pre-rivoluzionaria ha rinnegato il suo glorioso passato giuridico iniziando un processo di cosmesi etero-diretto dell’ordinamento che ha portato all’introduzione di codici frettolosamente copiati dalle più prestigiose esperienze di inizio novecento, in particolare quella tedesca.

L’orientalismo, che sulla Cina fu proprio anche di Hegel e di Marx, è talmente profondo che il fatto che alla Cina manchi il diritto (o che essa sia «in transizione» verso il diritto) viene non di rado ripetuto perfino dagli studenti e dai professori cinesi in visita presso università occidentali. Una vera egemonia culturale sulla mente colonizzata. Eppure la Cina ha centralizzato il potere nel terzo secolo prima di Cristo e per governare una tale estensione continentale ha organizzato una struttura giuridico-istituzionale infinitamente superiore per portata e complessità al coevo diritto romano, sviluppatosi per dirimere conflitti fra pochi notabili in un, relativamente, piccolo villaggio. La scuola dei così detti «legisti», già presente nel quarto secolo, ha assistito l’imperatore producendo innumerevoli documenti giuridico-amministrativi volti a garantire la sua assoluta sovranità in ogni angolo del regno. Contemporaneamente Confucio (V secolo a.C.) ha sottoposto a critica la possibilità di governare tramite le leggi, proponendo invece una forma di governo basata sull’esempio, sulla virtù e sul riconoscimento spontaneo del ruolo di ciascuno nel Tao.

Su questi temi il dibattito giuridico-politico nell’antica Cina è stato sofisticatissimo. L’Occidentale conosce la dialetticaconflitto che oppone il Fa (concezione giuridica dei legisti) al Li (concezione confuciana) e nega oggi la natura giuridica ad entrambe: il Fa è mera repressione penale non vero diritto; il Li è mero rituale e costume sociale non vero diritto. Gli studiosi occidentali non riflettono su come questa dialettica abbia prodotto un equilibrio strutturale estremamente duraturo ed efficace nell’assunzione dell’insegnamento di Confucio quale dottrina ufficiale dell’Impero. Nelle parole di un avvocato di Hong Kong pronunciate nei tardi anni Sessanta:

«Voi Occidentali non riuscite a superare quello stadio primitivo che chiamate regime della legalità (rule of law). Siete tutti preoccupati per questa legalità. La Cina ha sempre saputo che la Legge non è sufficiente per governare una società. Lo sapeva 2500 anni fa e lo sa oggi».

Questo equilibrio ovviamente è stato assai variabile nei secoli e ha dato al diritto cinese una fortissima connotazione pubblicistico-amministrativa, con l’interesse pubblico assolutamente sovraordinato a quello dei privati, i quali più che portatori di diritti erano visti come elementi di un tessuto sociale e di un ordine cosmico armonico in cui ciascuno interpretando il proprio dovere sociale (la locuzione diritto soggettivo in cinese è stata creata con apposito neologismo ) contribuiva all’interesse fondamentale dello Stato. In questa concezione fin dall’origine profondamente pubblicistica, il potere politico non si cura del diritto dei privati in conflitto fra loro per ragioni commerciali, familiari o di natura individualistica. In Cina da secoli la stragrande maggioranza dei conflitti interindividuali sono mediati da reti locali non legate al potere sovrano. Mao provò ad interrompere quell’equilibrio sostituendolo con uno rivoluzionario. Egli condivideva con Confucio (e con Marx e Pashukanis) l’idea che la società ideale non ha bisogno del diritto o della coercizione. Condivideva inoltre l’idea che gli interessi egoistici degli individui, se promossi a diritti su cui «insistere», finiscono per rafforzare le strutture ed i privilegi proprietari e feudali, legittimandoli attraverso una retorica favorevole.

Il nichilismo giuridico della Rivoluzione Culturale, in cui il diritto fu consegnato all’arbitrio delle guardie rosse, è stato un episodio estremo, circoscritto rispetto allo sforzo «alto» di costruire un nuovo equilibrio nella legalità socialista. L’Occidente ha enfatizzato il nichilismo della rivoluzione culturale, un episodio non comprensibile senza tener conto della rottura sino-sovietica. Quando è caduto il Muro di Berlino, l’ Occidente ha celebrato la fine della storia. Il fatto che oltre un miliardo e mezzo di persone continuino a vivere in strutture giuridico-politiche «socialiste», che cercano equilibri altri rispetto al privatismo proprietario è stato rimosso. Infatti, a differenza della Russia, solo molto tardi la Cina aveva avuto contatti con l’Occidente giuridico. Per l’Occidente solo l’Unione Sovietica era un vero sistema giuridico socialista: sparito quello, spariti tutti.

Oggi ci illudiamo di capire (e quindi controllare) il sistema giuridico cinese solo perchè nelle loro Gazzette Ufficiali ci sono leggi scritte in inglese che, violentando la tradizione confuciana (ma anche socialista), puniscono il furto della proprietà intellettuale. Siamo convinti che alla Cina manchi tutto quello che ci illudiamo di avere (la legalità) e presenti invece tutto ciò che siamo convinti di aver superato (l’arbitrio del potere). Ne siamo sicuri? Con questo atteggiamento orientalista perdiamo l’occasione tanto di capire noi stessi quanto di costruire insieme alla Cina un modello che pone la cosa pubblica globale al centro (con l’individuo e la corporation strutturalmente e obbligatoriamente al suo servizio). Celebriamo come unica versione della legalità la nostra tradizione, che pone al centro la proprietà privata, illudendoci che essa ponga al centro la persona.

Oggi abbiamo bisogno di contemplare con rispetto tutte le alternative, se vogliamo costruire un modello che ci consenta la sopravvivenza di lungo periodo. La Cina è il nostro orrendo ritratto ben nascosto in soffitta.

Il Manifesto, 29 settembre 2009

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