Ultima lettera di Luigi Rasario, da “Tra un’ora la nostra sorte”

by gabriella

Traggo da Le parole e le cose un paragrafo di Tra un’ora la nostra sorte. Le lettere dei condannati a morte e dei deportati della Resistenza (Roma, Carocci, 2013) di Sergio Bozzola, una rilettura formale e tematica delle lettere autografe pubblicate in Ultime lettere dell’INSMLI, Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Il testo della lettera di Luigi Rasario, partigiano ventenne attivo sulle montagne del novarese, è riprodotto secondo l’ortografia, la sintassi e l’impaginato del manoscritto, che si può cercare nel sito INSMLI.

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Luigi Rasario

Luigi Rasario (1924 – 1944)

Novara 26-4-1944

Cari genitori vi do i miei
ultimi saluti vostro
figlio Luigi che moio
innocente bè non
importa niente tanti
saluti al mio povero Renato
ed il povero Carlo venite a
prendere la roba che cio qui
a Novara, cari genitori
non preoccuparti di me

[viva l’Italia]

che io muoio innocente
e tranquillo voletegli
bene il Carlo e il
Renato almeno loro
che sono salvi, e ora
termino coi saluti a
tutti in famiglia
lo zio i zii e le zie e tutti
i nonni ciau tutti che
io moio tranquillo

ma non importa
salutatemi anche
gli amici fate dire
una messa per me
vostro figlio Luigi

questa lettera tenetela
per mio ricordo un ultimo mio
bacio a voi amici cari
che non vi vedo più
-ma non importa

voglio morire con
l’onore che io sono
innocente e fatelo sapere
a tutti gli amici i parenti
tutti vi ringrazio di
quello che avete fatto per me
che è stato inutile vostro
indimenticabile figlio
Luigi

vendicatemi
che sono innocente
viva l’Italia [Elmo Scolari]

[ciau ciau ciau tutti]

Le poche informazioni biografiche recuperate dall’insmli su Luigi Rasario presentano un profilo di partigiano operativo, membro della 82a Brigata Garibaldi attiva nel novarese. Il motivo politico e ideale affiora qui infatti diffusamente ed è come impastato con i temi affettivi. La prendo per questa ragione come campione esemplare. E vorrei appunto procedere ora prima da questa prospettiva tematica.

I contenuti sono riconducibili a pochi nuclei semantici attinenti prevalentemente alla sfera affettiva: il saluto a genitori e congiunti, preceduto dall’annuncio della prossimità della morte («ultimi saluti»), l’espressione degli affetti (sollecitudine per i propri cari: «voletegli / bene il Carlo e il / Renato»; gratitudine: «vi ringrazio di / quello che avete fatto per me»), l’affermazione della propria innocenza e dell’irrilevanza della propria morte.

Ma una coloritura politica viene progressivamente a stendersi sopra questo fondo affettivo e finisce in un certo senso per mescolarvisi. Viene intercalata a margine e ripetuta nella conclusione della lettera l’esclamazione patriottica (margine destro del primo foglietto e «viva l’Italia»), implicitamente contrapposta all’occupazione nazista e alla RSI. Essa accompagna l’intero sviluppo del testo, costituendone non il controcanto ma l’accompagnamento e l’accordo conclusivo, dal quale viene determinata una sorta di rimodulazione politica delle parole del cuore. Vi si presta anche l’affermazione della propria innocenza. L’innocenza non consiste qui – come accade in altri condannati – nella rivendicazione di estraneità rispetto ai capi di imputazione. L’intera lotta armata e la scelta partigiana ne sarebbero rinnegate. La rivendicazione dell’innocenza riacquista coerenza se traguardata dalla ricusazione del giudice e del capo di accusa: la colpa non è una colpa, poiché il codice che la commina non è riconosciuto.

In tal modo Rasario non si tira fuori dal conflitto, vi si immerge definitivamente per restarci senza più oscillazioni emotive. Si valuti la progressione che muove da «moio / innocente», a «innocente / e tranquillo», «io moio tranquillo» e finalmente: «voglio morire con / l’onore che io sono / innocente». La tranquillità di quel morire è possibile in virtù dell’onore, rivendicato qui come sentimento partigiano, espressione di una scelta attiva e giusta, di fedeltà a se stesso e alla patria. Tale rivendicazione è mescolata nel testo con le altre espressioni affettive, indirizzate ai propri cari e non ai compagni di lotta. Il sentimento politico dello scrivente è parte del suo universo affettivo.

La progressione che ho indicato va insieme con altre analoghe dinamiche. Ad esempio i saluti: prima indirizzati ai «cari genitori», poi allargati a Renato e Carlo, poi ulteriormente «a tutti in famiglia» compresi gli zii, infine rivolti anche agli amici. Il riferimento agli amici doveva rappresentare un momento affettivamente intenso, se può piegare la deissi verso di loro in violazione dello statuto della lettera (indirizzata nella formula allocutiva ai genitori): i protocollari saluti a terzi sono convertiti nella seconda persona: «bacio a voi amici cari / che non vi vedo più». Si osserva inoltre che solo qui viene spezzata la formularità dell’allocutivo, con la posposizione dell’agg. («amici cari») e dunque la sua risemantizzazione. La rosa degli interlocutori, così allargata, viene ripresa collettivamente a «e fatelo sapere / a tutti gli amici i parenti / tutti». Una forma analoga ma più sottile di progressione riguarda anche lo stesso scrivente: che si firma una prima volta «vostro / figlio Luigi», una seconda volta nello stesso modo, ma una terza e ultima volta «vostro / indimenticabile Luigi». L’aggettivo (come non aveva compreso Spitzer, commentando questo fatto nelle lettere dei prigionieri italiani della prima guerra mondiale) esprime il desiderio, e non già la presunzione, di essere ricordato ed è insieme l’effetto di uno spostamento: come spera di non essere dimenticato, così lo scrivente dichiara di non aver dimenticato fino a che gli è stato possibile i propri cari. La ripetizione del nome di chi scrive finisce così per scandire la lettera in tre parti, ponendosi rispetto ad esse come una vera e propria firma di chiusura.

E in effetti, rileggendo le prime righe, si ha l’impressione che la lettera potesse finire con la prima occorrenza del nome, che cioè fosse per qualche istante sentita come conclusa, breve biglietto di congedo come non pochi altri in questo stesso corpus. Ma a ridosso di quella conclusione Rasario sente la necessità di riaprire e appunto dilatare, allargare il nucleo semantico primitivo per sopraggiunta memoria delle altre persone, Carlo, Renato, e poi gli altri parenti, gli amici. Ciascuna delle seguenti due parti non è che l’inopinata riapertura come a ondate di un testo che si stava chiudendo, un suo prolungamento non preventivato che asseconda il flusso dei pensieri. Ne viene una sorta di congedo prolungato, di lettera-congedo, che si arricchisce in itinere di altri motivi che vengono portati nel testo per vischiosità e dilatano pateticamente l’addìo. Che di conseguenza tracima fuori dallo spazio testuale canonico, prolungandosi nel margine destro del verso del quarto foglietto, verticalmente: «ciau ciau ciau tutti». La parola dialettale rende quel saluto famigliare, domestico, parte di una consuetudine linguistica che viene qui spezzata.

La ripetizione (della firma, dei saluti) sembra dunque presentarsi alla nostra lettura come una chiave di accesso significativa. Nelle due modalità che ho commentato essa convoglia una progressione semantica e psicologica; nel seguito di questo libro se ne valuteranno altri aspetti. In questa lettera essa pone inoltre in grande rilievo l’espressione con cui Rasario minimizza la propria morte: «bè non importa niente», «ma non importa» ripetuto. È difficile stabilire se questo ripetere voglia rassicurare o consolare i congiunti, o intenda collocare il sacrificio del condannato entro la grande tragedia collettiva (lo scrive esplicitamente, ad es., Giuseppe Robusti: «sarò una delle centinaia di migliaia di vittime che con sommaria giustizia in un campo e nell’altro sono state mietute»), o rappresenti la necessità per lo scrivente di non soffermare il pensiero sull’impensabile della propria morte, la necessità della distrazione, dello spostamento. L’immagine che ci viene consegnata è, come che sia, la relativizzazione di sé nel quadro di un disegno complessivo di liberazione: il soggetto che scrive «di fronte all’ipotesi della propria morte», con le parole di Fortini, «deve tener presente il primato della collettività e della sua durata […]. Si tratta di un sostanziale rifiuto dell’eroismo […] e quindi della tragicità […]. La sua categoria è l’epica, non la tragedia». La lettera si chiude infatti con un’esclamazione di speranza collettiva e non solo personale e famigliare. E proprio perché consegnate alla scrittura, quelle parole si caricano di spessore politico e civile.

Dal punto di vista sintattico, anziché raccogliere i tratti dell’italiano popolare di Luigi Rasario, bisognerà osservare come quell’incertezza sia il varco di un’espressività che sarebbe negata allo scrivente linguisticamente vincolato alla norma e alle consuetudini retoriche trasmesse dalla scuola. Così è già nell’uso non censurato della ripetizione, lo si è visto. La sintassi, a sua volta, scivolando da una struttura all’altra e prolungandosi per giustapposizioni e nessi generici può duttilmente adattarsi alla testualità aperta e fluida che ho descritto (e che sarà oggetto di osservazioni più sistematiche). Si osservino le prime righe: all’allocutivo segue la frase principale quindi la firma, senza marcatura interpuntiva; alla firma si aggancia immediatamente una frase subordinata che introduce uno dei concetti chiave (perché ripetuti) della lettera: «che moio innocente». L’originaria intenzione sintattica (una frase relativa introdotta da che, da cui avrebbe dovuto originarsi una terza persona: «che muore…») viene all’istante abbandonata a favore di un nesso polivalente e generico, che permette di mantenere la prima persona con il verbo morire: moio. Non è poco, evidentemente: àncora al soggetto il processo del morire, lo soggettivizza. E va aggiunto l’effetto del tempo verbale, che non per caso è mantenuto nell’altra occorrenza non già del verbo ma del suo senso: «bacio a voi amici cari / che non vi vedo più / ma non importa». Rasario già non li vede, gli amici, ha già incominciato a morire.

Dal punto di vista materiale, va notato l’uso di foglietti volanti, di piccolo formato, scritti fronte e retro ed utilizzati in parte (lo si è visto) anche negli spazi marginali. La grafia tradisce una mano poco incline alla scrittura, è rotondeggiante ed elementare. Ma Rasario, di più, nonostante queste condizioni di precarietà e di difficoltà, si preoccupa di datare la propria lettera e di riservare all’ultima firma un’intera riga. Recupera cioè come può, assecondando appannati ricordi scolastici, alcuni aspetti protocollari della lettera e dà così al proprio scritto una forma. In questo rudimentale tentativo si palesa la coscienza della diversità di statuto della scrittura rispetto al discorso orale, cioè fondamentalmente della possibilità che essa offre di una parola non effimera ma in qualche modo duratura perché scritta: sarà affidata ai propri cari e forse testimoniata ad altri. Il che conferisce robustezza e durata a tutte le parole che sono consegnate a questa lettera, ne mette allo scoperto lo spessore politico e civile e la speranza.

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