Lo spassoso reportage antropologico di un ricercatore dell’Oceania sulle pratiche dei milanesi, in cui il migliore Eco smaschera l’etnocentrismo delle categorie disciplinari dall’apparenza più neutrale. Due dei quattro saggi, tratti da Diario Minimo, [Milano, Bompiani, 1992, pp. 81-92].
La presente inchiesta elegge come campo di indagine l’agglomerato di Milano alla propaggine nord della penisola italiana, un protettorato vaticano del Gruppo delle Mediterranee. Milano si trova circa a 45 gradi di latitudine nord dall’Arcipelago della Melanesia e a circa 35 gradi di latitudine sud dall’Arcipelago di Nansen nel Mar Glaciale Artico. Si trova quindi in una posizione pressoché mediana rispetto alle terre civili e se pure fosse più facilmente raggiungibile dalle popolazioni eschimesi tuttavia è rimasta al di fuori dei vari itinerari etnografici.
Debbo il consiglio di una indagine su Milano al Professor Korao Paliau dell’Anthropological Institute delle Isole dell’Ammiragliato e ho potuto condurre la mia inchiesta grazie al generoso aiuto della Aborigen Foundation of Tasmania che mi ha fornito un grant di ventiquattromila denti di cane per affrontare le spese di viaggio ed equipaggiamento.
Non avrei peraltro potuto stendere queste note con la dovuta tranquillità, riesaminando il materiale raccolto al ritorno dal mio viaggio, se il Signore e la Signora Pokanau dell’Isola di Manus non mi avessero messo a disposizione una palafitta isolata dal consueto clangore dei pescatori di trepang e dei mercanti di copra che purtroppo hanno reso infrequentabili certe zone del nostro dolce arcipelago. Né avrei peraltro potuto correggere le bozze e riunire le note bibliografiche senza l’affettuosa assistenza di mia moglie Aloa che spesso ha saputo interrompere la confezione di collane di fiori del pua per correre all’arrivo del battello postale e trasportarmi alla palafitta [63] le enormi casse di documenti che via via richiedevo all’Anthropological Documentation Center di Samoa e che per me sarebbero state di troppo peso.
Per anni chi si è avvicinato agli usi e ai costumi dei popoli occidentali lo ha fatto muovendo da uno schema teorico a priori che ha bloccato ogni possibilità di comprensione. Il condannare gli occidentali come popoli primitivi, solo perché son dediti al culto della macchina, ancora lontani da un contatto vivo con la natura, ecco un esempio dell’armamentario di false opinioni con cui i nostri antenati hanno giudicato gli uomini incolori e gli europei in particolare.
Una malintesa impostazione storicistica induceva a credere che in tutte le civiltà si attuino dei cicli culturali analoghi, per cui esaminando a esempio il comportamento di una comunità anglosassone si riteneva che essa si trovasse semplicemente a una fase antecedente alla nostra e che un suo successivo sviluppo avrebbe portato un abitante di Glasgow a comportarsi come un melanesiano.
Si deve quindi all’opera illuminata della dottoressa Poa Kilipak se si è andato affermando il concetto di “modello culturale” con le stupefacenti conclusioni che comportava: un abitante di Parigi vive secondo un complesso di norme e di abitudini che si integrano in un tutto organico e formano una determinata cultura, valida come la nostra seppure di modi diversi.
Di qui si aprì la via per una retta indagine antropologica sull’uomo incolore e per una comprensione della civiltà occidentale (poiché – e si potrà anche accusarmi di cinico relativismo – di civiltà si tratta, anche se non segue i modi della nostra civiltà. E non è detto, me lo si permetta, che cogliere noci di cocco salendo a piedi nudi su di una palma costituisca un comportamento superiore a quello del primitivo che viaggia in jet mangiando patatine da un sacchetto di plastica).
Ma anche il metodo della nuova corrente antropologica poteva dar adito a gravi equivoci; come a esempio quando il ricercatore, proprio per l’aver riconosciuto dignità di cultura al “modello” studiato, si rifaceva ai documenti storici direttamente prodotti dagli indigeni soggetti a descrizione, desumendo da quelli le caratteristiche del gruppo stesso [64].
[…]
2. La “Pensée Sauvage” (Saggio di ricerca sul campo)
La giornata dell’indigeno milanese si svolge secondo i ritmi solari elementari. Di buonora esso si sveglia per recarsi alle incombenze tipiche di questa popolazione, raccolta di acciaio nelle piantagioni, coltivazione di profilati metallici, concia di materie plastiche, commercio di concimi chimici con l’interno, semina di transistori, pascolo di lambrette, allevamento di alfaromeo e così via.
L’indigeno tuttavia non ama il suo lavoro e fa il possibile per evitare il momento in cui lo inizierà; quello che è curioso è che i capi del villaggio [67] paiono assecondarlo, eliminando ad esempio le vie consuete di trasporto, divellendo le rotaie dei primitivi tramways, confondendo la circolazione con larghe strisce gialle dipinte lungo le mulattiere (con chiaro significato di tabù) e infine scavando profonde buche nei punti più inopinati, dove molti’indigeni precipitano e vengono probabilmente sacrificati alle divinità locali.
È difficile spiegare psicologicamente l’attitudine dei capi del villaggio, ma questa distruzione rituale delle comunicazioni è legata senza dubbio a riti di risurrezione (si pensa ovviamente che costringendo schiere di abitanti nelle viscere della terra, dalla loro immolazione quale seme, nasceranno altri individui più forti e robusti).
Ma la popolazione ha immediatamente reagito con una chiara sindrome nevrotica a questo atteggiamento dei capi, elaborando un culto nato apparentemente per generazione spontanea, vero e proprio esempio di esaltazione collettiva: il “culto della metropolitana da carico” (tube cult).
Ad epoche determinate si propaga cioè per la città “Il Rumore”, e gli indigeni vengono posseduti dalla fiducia quasi mistica che un giorno enormi veicoli si muoveranno nelle viscere della terra trasportando ogni individuo a velocità miracolosa in qualsiasi punto del villaggio. Il Dr. Muapach, un serio e preparato membro della mia spedizione, si è chiesto anzi a un certo punto se “Il Rumore” traesse origine da qualche fatto reale, ed è sceso in queste caverne: ma non vi ha trovato nulla che potesse sia pure lontanamente giustificare la diceria.
Che i capi della città tengano a mantenere la popolazione in uno stato di incertezza è provato da un rituale mattutino, la lettura di una sorta di messaggio ieratico che i capi fanno pervenire ai loro sudditi sul far dell’alba, il “Corriere della Sera”: la natura ieratica del messaggio è sottolineata dal fatto che le nozioni che comunica sono puramente astratte e prive di alcun riferimento con la realtà; in altri casi il riferimento, come abbiamo potuto verificare, è apparente, così che all’indigeno viene prospettata una sorta di controrealtà o realtà ideale nella quale egli presume di muoversi come in una foresta [68] dalle viventi colonne, vale a dire in un mondo eminentemente simbolico e araldico.
Tenuto costantemente in questo stato di smarrimento, l’indigeno vive in una persistente tensione che i capi gli permettono di scaricare solo nelle festività collettive, quando la popolazione si riversa a frotte in costruzioni immense di forma elissoidale dalle quali proviene senza interruzione un clamore spaventoso.
Inutilmente abbiamo tentato di entrare in una di queste costruzioni; con una diplomazia primitiva ma smaliziatissima gli indigeni ce lo hanno sempre impedito, pretendendo che noi si esibisse per l’accesso dei messaggi simbolici che apparentemente risultavano in vendita, ma per i quali ci è stato chiesto un tale quantitativo di denti di cane che noi non avremmo potuto pagare senza dovere in seguito abbandonare la ricerca.
Costretti dunque a seguire la manifestazione dall’esterno, dapprima si era formulata l’ipotesi, avallata dai rumori fragorosi e isterici, che si trattasse di riti orgiastici; ma in seguito ci si è fatta chiara l’orribile verità. In questi recinti gli indigeni si dedicano, con il consenso dei capi, a riti di cannibalismo, divorando esseri umani acquistati presso altre tribù. La notizia di questi acquisti viene anzi data nei consueti messaggi ieratici mattutini, dove si può assistere giorno per giorno a una vera e propria cronaca delle acquisizioni gastronomiche; dalla qual cronaca emerge che particolarmente pregiati sono gli stranieri di colore, quelli di alcuni ceppi nordici e in gran quantità gli ispano-americani.
A quanto ci è stato dato di ricostruire, le vittime vengono divorate in enormi portate collettive composte da più individui, secondo complicate ricette che vengono pubblicamente esposte per le strade, nelle quali si presenta una sorta di posologia non ignara di reminiscenze alchemiche, del tipo di “3 a 2”, “4 a 0”, “2 a 1.” Che il cannibalismo non rappresenti tuttavia una semplice prescrizione religiosa ma un vizio diffuso, radicato in tutta la popolazione, è dimostrato dalle somme enormi che gli indigeni paiono spendere per l’acquisto dei cibi umani [69].
Pare tuttavia che presso i gruppi più abbienti questi banchetti domenicali suscitino un vero e proprio terrore, in modo che, nel momento in cui la maggior parte della popolazione si avvia ai refettori collettivi, i dissidenti si danno a una fuga disperata lungo tutte le vie di uscita dal villaggio, urtandosi disordinatamente, calpestandosi con i veicoli, perdendo la vita in sanguinosi tafferugli. Sembra che costoro, presi da una sorta di menadismo, intravedano come unica salvezza la via del mare, dato che la parola che ricorre con maggior insistenza in questi esodi sanguinosi è “la barca”.
Il basso livello intellettuale degli indigeni è dimostrato dal fatto che essi evidentemente ignorano che Milano non si trova sul mare; e così scarsa è la loro capacità di memorizzazione che ad ogni domenica mattina si danno alla consueta fuga precipitosa per rientrare nella città in mandrie spaurite la sera stessa, cercando rifugio nelle proprie capanne, pronti a dimenticare la loro cieca avventura il giorno dopo.
D’altra parte sin dai suoi primi anni il giovane nativo viene educato in modo che lo smarrimento e l’incertezza siano posti a fondamento di ogni suo gesto. Tipici a questo proposito sono i “riti di passaggio” che hanno luogo in locali sotterranei, dove i giovani vengono iniziati a una vita sessuale dominata da un tabù inibitivo. Caratteristica è la danza che essi praticano, in cui un giovane e una giovane si pongono l’uno di fronte all’altra dimenando le anche e muovendo avanti e indietro le braccia piegate ad angolo retto, sempre in modo che i corpi non si tocchino.
Già da queste danze traspare il più totale disinteresse da parte di ambo i partecipanti, completamente ignari l’uno dell’altro, tanto che quando uno dei danzatori si piega assumendo la posizione consueta dell’atto sessuale – mimandone le fasi ritmiche – l’altro si ritrae come inorridito e cerca di sfuggire curvandosi talvolta sino a terra; ma nel momento in cui l’altro, ormai pervenuto a raggiungerlo, potrebbe usare di lui, se ne allontana di colpo ristabilendo le distanze.
L’apparente asessualità della danza (un vero è proprio rito iniziatico improntato a ideali di astinenza totale) è tuttavia complicato da alcuni [70] particolari osceni. Infatti il danzatore maschio, anziché ostentare normalmente il membro nudo e farlo roteare tra gli applausi della folla (come farebbe qualsiasi nostro fanciullo partecipando a una festa sull’isola di Manus o altrove), lo tiene accuratamente coperto (lascio immaginare al lettore con quale impressione complessiva di ribrezzo per l’osservatore anche più spregiudicato). Del pari la danzatrice non lascia mai scorgere i seni, e sottraendoli alla vista dei presenti contribuisce ovviamente a creare desideri insoddisfatti che non possono non provocare frustrazioni profonde.
Il principio di frustrazione come costitutivo del rapporto pedagogico appare del resto funzionare anche nelle assemblee degli anziani, ugualmente compiute in sottordine, dove apparentemente si celebra un ritorno ai valori morali-naturali elementari: infatti una danzatrice appare lubricamente coperta di indumenti e gradatamente si spoglia mostrando le proprie membra, in modo che l’osservatore è portato a pensare che si stia qui preparando una risoluzione catartica dell’emozione, che dovrebbe sopravvenire quando la danzatrice si mostrasse pudicamente nuda. In realtà – per ordine espresso dei capi, come ci è stato dato di appurare – la danzatrice all’ultimo conserva alcuni indumenti fondamentali, oppure fìnge di toglierseli per scomparire, nell’istante in cui accenna a farlo, nel buio che improvvisamente invade la caverna. In tal modo gli indigeni escono da questi luoghi ancora in preda alle loro turbe.
Ma la domanda che il ricercatore si pone è la seguente: sono lo smarrimento e la frustrazione veramente effetto di una decisione pedagogica consapevole, oppure concorre a questo stato di cose, influenzando le stesse decisioni dei capi e dei sacerdoti, qualche causa più profonda connessa alla stessa natura dell’habitat milanese? Terribile domanda, perché in questo caso si porrebbe il dito sulle sorgenti profonde della mentalità magica che possiede i nativi, e si discenderebbe alle madri oscure da cui si origina la notte dell’anima di quest’orda primitiva [71].
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