Vladimiro Giacché, La crisi spiegata da Karl Marx

by gabriella

Un mondo spiegato a partire dalla centralità del capitale finanziario che stringe nella sua morsa l’economia. È questa la lettura dominante della crisi, relegata a incidente di percorso del capitalismo. Spiegazione che può essere smontata a partire dagli scritti di Marx dedicati al tema e che sono stati raccolti in un volume da oggi in libreria di cui pubblichiamo brani dell’introduzione.

La spiegazione della crisi attuale come una crisi finanziaria che ha contagiato l’economia reale è oggi largamente prevalente. Si tratta della versione contemporanea della concezione, ben nota a Marx, secondo cui la crisi sarebbe dovuta «all’eccesso di speculazioni e all’abuso del credito». Precisamente questa spiegazione della crisi era stata sostenuta dalla commissione incaricata dalla Camera dei Comuni inglese di redigere un rapporto sulla crisi del 1857. Marx contestava questo punto di vista: «la speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi».

Oltre ogni limite

Per Marx i motivi per cui le crisi si presentano come crisi creditizie e monetarie sono senz’altro radicati in alcune caratteristiche di fondo del funzionamento dell’economia capitalistica. Ma le crisi non sono in primo luogo creditizie e monetarie: alla loro base si trova la sovrapproduzione di capitale e di merci. Il fatto è che per Marx il credito è uno dei principali strumenti attraverso cui il capitale tenta di superare i propri limiti. Infatti, grazie al credito i «limiti del consumo vengono allargati dalla intensificazione del processo di riproduzione, che da un lato accresce il consumo di reddito da parte degli operai e dei capitalisti, d’altro lato si identifica con l’intensificazione del consumo produttivo». Inoltre il credito «spinge la produzione capitalistica al di là dei suoi limiti» anche nel senso di porre a disposizione della produzione «tutto il capitale disponibile e anche potenziale della società, nella misura in cui esso non è stato già attivamente investito».

È precisamente per questi motivi, osserva Marx nel manoscritto del terzo libro del Capitale, che il credito appare come la causa della sovrapproduzione: «se il credito appare come la leva principale della sovrapproduzione e degli eccessi e della sovraspeculazione nel commercio, ciò accade soltanto perché il processo di riproduzione, che per sua natura è elastico, viene qui forzato sino al suo estremo limite, e vi viene forzato proprio perché una gran parte del capitale sociale viene impiegata da coloro che non ne sono proprietari, che quindi rischiano in misura ben diversa dal proprietario il quale, sinché agisce in prima persona, considera con preoccupazione i limiti del proprio capitale privato».

A questo riguardo è interessante notare come un aspetto contro cui puntano il dito alcuni critici odierni della finanza, ossia il fatto che essa utilizza il denaro di altri, per Marx non è una patologia ma una caratteristica di fondo del sistema creditizio. Ancora più interessante è notare che credito e finanza negli ultimi decenni hanno avuto proprio la funzione di forzare i limiti di consumo dei lavoratori (contrastando le conseguenze della compressione dei redditi da lavoro) e di allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione nell’industria (grazie sia al credito al consumo che a tassi molto bassi tali da consentire alle imprese di rinegoziare il proprio debito a tassi favorevoli), oltre a fornire al capitale in crisi di valorizzazione nel settore industriale alternative d’investimento ad elevata redditività (la finanza ha consentito di drogare i profitti di molte imprese manifatturiere).

Purtroppo, grazie al credito si può ben spingere la produzione oltre i limiti del consumo (ossia dell’effettiva domanda pagante), ma alla fine il processo si inceppa e la crisi si incarica di dimostrarci che quel limite è invalicabile. Le merci restano invendute, cominciano i ritardi nei pagamenti, la circolazione si arresta in più punti, e infine tutto il meccanismo entra in stallo.
A questo punto il credito si contrae: la restrizione del credito e la richiesta di pagamenti in contanti contribuiscono a conferire alla crisi la sua apparenza di crisi creditizia e monetaria. Ma la realtà secondo Marx è un’altra. Emergono «transazioni truffaldine, che ora sono scoppiate e vengono alla luce del sole; esse rappresentano speculazioni andate male e fatte con il denaro altrui». Ma emerge soprattutto il fatto che le merci restano invendute e perdono il loro valore e che i profitti attesi non possono più essere realizzati.

I sintomi nascosti dalla bolla

Dietro la crisi «creditizia e monetaria», oltre al fallimento di speculazioni nate nel momento di massima espansione del credito, c’è insomma una crisi di sovrapproduzione e di realizzazione del capitale. Questo è vero in generale, ed è vero anche per quanto riguarda la crisi scoppiata nel 2007. Lo dimostra una ricerca pubblicata dall’Ocse nel maggio del 2009 – e completamente ignorata da gran parte degli economisti e dei commentatori – che evidenzia come la produttività del lavoro fosse in rallentamento già molto prima dello scoppio della crisi finanziaria. Ora, siccome la produttività è calcolata in termini di quantità di merci prodotte per lavoratore, un suo calo (soprattutto se marcato e improvviso) indica una diminuzione della produzione a seguito di sovrapproduzione, o – come oggi si preferisce dire – «eccesso di offerta» (excess supply): in tal caso infatti le merci invendute inducono a diminuire la produzione e a non utilizzare appieno la capacità produttiva.

Nel settore delle costruzioni Usa il calo inizia tra i due e i quattro anni prima della crisi; sino a quando, nel 2007, la produttività del lavoro in tale settore segna un -12%. Alla base c’è quindi, affermano quindi D. Brackfield e J. Oliveira Martins, gli autori della ricerca, «un problema di eccesso di offerta». Per un certo periodo è sembrato che «una forte spinta alla domanda attraverso un’estensione delle facilitazioni creditizie avrebbe potuto compensare i problemi dal lato dell’offerta. Ma alla fine si è dovuto pagare pegno all’economia reale». Va notato che non soltanto negli Usa, ma anche in Europa e in Giappone, tra il 2006 e il 2007 vi è un stato chiaro rallentamento della produttività. La conclusione della ricerca è espressa in termini diplomatici, ma è chiara lo stesso: «rispetto all’assunto che il deterioramento dell’economia reale sia stato semplicemente causato dalla crisi finanziaria, i dati danno sostegno ad una relazione più complessa». Insomma: la crisi, una classica crisi da sovrapproduzione, è precedente lo scoppio della bolla creditizia. La bolla creditizia l’ha prima mascherata e poi, esplodendo, ha creato l’illusione di esserne la causa.

La carestia di denaro

A questo punto, proprio per il fatto che l’eccesso del credito nel settore immobiliare statunitense era solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più generale, si è prodotta una drammatica accelerazione della crisi, con massicce svalutazioni di titoli finanziari dovute a vendite a qualsiasi prezzo pur di onorare i propri debiti (infatti molti investimenti in titoli erano stati effettuati per mezzo di debito, che si contava di ripagare – come era sempre avvenuto in precedenza – grazie alla crescita di prezzo di quegli stessi titoli).
Si è inoltre prodotta quella caratteristica «carestia di denaro» che trasforma il denaro stesso, da semplice mezzo di circolazione del capitale, in «merce assoluta», in «forma autonoma del valore» superiore e contrapposta alle singole merci: in parallelo all’assottigliarsi dei flussi finanziari è aumentata la richiesta di mezzi di pagamento, quali le banconote, e si sono verificati rilevanti fenomeni di tesaurizzazione. Dopo il fallimento di Lehman Brothers, nel settembre 2008, la circolazione del capitale è sembrata interrompersi e gli stessi prestiti interbancari si sono per qualche tempo letteralmente paralizzati su scala mondiale.

La crisi scoppiata nel 2007 ha assunto col passare dei mesi le caratteristiche di una vera e propria crisi generale. Attraverso di essa si è verificata una enorme distruzione di capitale su scala mondiale. Questa fase è tuttora in corso, a dispetto del fiume di denaro impiegato dagli Stati per tamponare la crisi e del mantra secondo cui «il peggio è alle nostre spalle». Anche molti di coloro che ripetono queste parole rassicuranti in realtà si chiedono di quale entità debba essere la distruzione di capitale per ripristinare condizioni più elevate di redditività del capitale investito e quindi a far ripartire l’accumulazione. Non è facile rispondere: l’unica certezza è che lo scenario è senz’altro assai peggiore delle recessioni dei primi anni Settanta, e trova confronti soltanto con le crisi del 1873 e del 1929.
Tutto questo dovrebbe però sollecitare alcuni interrogativi più di fondo: circa la sensatezza e sostenibilità sociale di un sistema che ha bisogno di crisi ricorrenti e di distruzione di capitale su così larga scala per andare avanti.

Per Marx, proprio «nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora» e la necessità di «far posto a un livello superiore di produzione sociale». Come sappiamo, negli ultimi decenni l’idea stessa di un «livello superiore di produzione sociale» è stata accantonata come un’utopia totalitaria. Da allora, la nostra vita non sembra migliorata.

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