Da Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2013.
In un testo del 1865, Types of Mankind, all’epoca ritenuto scientifico, il medico Nott e l’egittologo Gliddon sostengono, con tanto di illustrazioni, che i neri sono biologicamente intermedi tra i bianchi caucasici e gli scimpanzé. Oggi è sufficiente consultare Wikipedia per sapere che la specie umana non può essere suddivisibile in razze biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive, valoriali o morali.
Da questo errore deriva però la convinzione che è alla base del “razzismo”, ossia che un particolare gruppo di persone possa essere definito superiore o inferiore a un altro.
Si sa che il razzismo è un fenomeno antico quanto il mondo. Al tema, S. J. Gould dedica, nel 1981, un saggio decisivo: The mismeasure of men (Intelligenza e pregiudizio, Il Saggiatore). Ma il fatto che possa essere studiato sul piano neurobiologico è relativamente recente. In collaborazione con gli psicologi sociali, da alcuni anni i neuroscienziati stanno cercando di capire come gli umani percepiscono e categorizzano le alterità etniche, religiose, sessuali, eccetera. Queste ricerche usano tecniche di brain imaging per esaminare come il nostro cervello processa, valuta e incorpora nei processi decisionali, le categorie di razza e etnia. Sembrerebbe che l’amigdala (la porzione cerebrale implicata nella regolazione dei processi emotivi, in particolare quelli connessi alla paura) provochi reazioni “repulsive” verso gli elementi considerati estranei, addirittura anche individui di un’altra etnia o di un altro gruppo (outgroup) con confini culturalmente e socialmente delimitati. La risposta repulsiva sarebbe preceduta da una sensazione di disgusto, un’emozione che in origine ha una funzione adattiva nel processo evoluzionistico, finalizzata all’evitare fattori “contaminanti” (per esempio, il latte andato a male), ma che si è evoluta in una sorta di «sistema immunitario comportamentale». Sul disgusto e le sue funzioni/variazioni evolutive, sociali, psicologiche e culturali, Darwin, Freud, e più recentemente Rozin, hanno scritto pagine straordinarie (una rassegna completa e divertente è The Anatomy of Disgust di W.I.Miller, HUP, 1998).
I cosiddetti Iat (Implicit Association Test, che misurano i tempi di reazione a immagini-stimolo) sono un modo semplice e di antica tradizione per verificare empiricamente la quota inconsapevole dei nostri pregiudizi, reazioni di disgusto e avversione nei confronti di chi ha un colore diverso dal nostro, o un altro orientamento sessuale e così via. Si tratta della nostra parte più viscerale e meno umana, direbbe la filosofa Nussbaum (Disgusto e umanità, il Saggiatore, 2011). Di nuovo la funzione difensiva del disgusto: abbiamo bisogno di altri su cui proiettare la nostra animalità per sentirci più umani. Ma il risultato di questa difesa è proprio quello di rimanere imbrigliati nelle nostre funzioni più elementari, allontanandoci dall’umanità. Paura, paranoia, controllo, aggressione. Lasciarci guidare dalle nostre xenofobie, omofobie, misogine, significa farsi dominare da automatismi primitivi, finendo per odiare “in prima persona plurale” tutto ciò che, incarnando le nostre paure e gli aspetti di noi che rifiutiamo, ci fa sentire insicuri e minacciati.
Molte ricerche ci aiutano a capire questa lettura psicologica. Inbar e coll. (in Emotion, 9, 3; 2009), per esempio, evidenziano come alla base di molti atteggiamenti antiomosessuali vi sia una reazione di disgusto: chi è più propenso al disgusto è anche più propenso a disapprovare un bacio appassionato tra due donne o due uomini. Ed è probabile che la disapprovazione morale funzioni come difesa razionalizzante (e rassicurante) che autorizza a dar voce al proprio disgusto. Quando la disapprovazione morale è meno percorribile, come nel caso del razzismo, allora si può ricorrere ad altre “strategie”:
«non è che odio i cinesi, sono loro che ci rubano il lavoro»; «non è che odio i marocchini, sono loro che violentano le nostre donne», eccetera.
Per una beffarda coincidenza di eventi, l’aggressione alla Ministro Kyenge («Non posso non pensare a un orango») precede di pochi giorni la conferenza Neuroscience of racism che Elizabeth Phelps (New York University) ha tenuto il 19 luglio presso la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste, alla presenza, prevista da mesi, proprio del Ministro Kyenge. Le ricerche di Kubota, Mahzarin e Phelps (Nature Neuroscience, 15, 2012) ci dicono che, a livello implicito (quindi indipendentemente dalle opinioni “esplicite” sul razzismo), la maggior parte dei bianchi (americani) impiega più tempo ad associare (Iat) immagini di persone di colore alla parola “buono” e immagini di persone bianche alla parola “cattivo”. E che, se vediamo immagini che rappresentano gruppi etnici diversi dal nostro, avvengono attivazioni cerebrali a livello di amigdala, area facciale fusiforme (Ffa), corteccia cingolata anteriore (Acc) e corteccia prefrontale dorsolaterale (Dlpfc). Ancor più interessante è quando lo Iat “rivela” il razzismo non tanto di chi ne fa professione politica (qui basta l’occhio nudo), ma di chi, invece, si professa antirazzista (o antiomofobo). «Razzista io?».
Nel loro profondo (cerebrale o inconscio) tutti i bianchi pensano che i neri (o gli ebrei, o i gay) sono scimmie? No. Le “neuroscienze del razzismo” testimoniano una vulnerabilità primitiva al tema «appartenenza vs non appartenenza» a quello che viene considerato il proprio “gruppo”. Si tratta di un cedimento a paure arcaiche e sentimenti d’inferiorità. Gli esperimenti di Phelps mostrano anche che i test condotti usando volti noti (attori e politici afro-americani) riportano una riduzione dell’attività dell’amigdala. E che, col passare del tempo, l’attivazione dell’amigdala diminuisce, lasciando posto a un’elaborazione corticale di “ragionamento”. Insomma, e non sorprende scoprirlo, conoscenza e ragione sono risposte efficaci contro il razzismo.
Altre ricerche ci dicono infine che forme di “razzismo implicito” potrebbero addirittura albergare in alcune persone di colore, una sorta di “reazione autoimmune”. Proprio come l’omofobia può riguardare le stesse persone omosessuali. Dovremmo allora pensare che ciò che per la scienziata Phelps è un processo cerebrale primitivo è invece l’esito infausto di una costruzione culturale? Parlerei piuttosto di un intreccio di amigdala, personalità e cultura. Ovvero la soglia civile e empatica che apre al riconoscimento e alla conoscenza dell’altro. Al dialogo tra umani (post-calderoliani) che ci trasporta evolutivamente dalla politica del disgusto alla politica dell’umanità.
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