Dall‘inflazione al debito pubblico al debito privato. Wolfgang Streeck, direttore dell’Istituto Max-Planck per lo studio delle società di Colonia, spiega in un testo chiarissimo le tre tappe della storia del fallimento delle politiche di mercato nel secondo dopoguerra: la Grande Recessione.
Il testo che segue è una versione abbreviata di un’analisi pubblicata sulla New Left Review, n° 71, Londra, settembre-ottobre 2011 (traduzione dal francese di José F. Padova).
Giorno dopo giorno, gli avvenimenti che segnano la crisi ci insegnano che ormai i mercati dettano la loro legge agli Stati. Falsamente democratici e sovrani, questi ultimi si vedono prescrivere i limiti di ciò che possono fare per i loro cittadini e suggerire quali concessioni devono esigere da questi. Per quanto riguarda le popolazioni s’impone una constatazione: i dirigenti politici non servirebbero gli interessi dei loro concittadini ma quelli di altri Stati o di organizzazioni internazionali – quali il Fondo monetario internazionale (FMI) o l’Unione Europea (UER) – al riparo dalle costrizioni del gioco democratico. Il più sovente questa situazione è descritta come la conseguenza di un inconveniente sullo sfondo della generale stabilità: una crisi. Ma è veramente questo il caso?
In ogni modo si può leggere la «Grande Recessione» (1) e il quasi-crollo delle finanze pubbliche che ne è risultato come la manifestazione di uno squilibrio fondamentale delle società capitaliste avanzate, strattonate fra le esigenze del mercato e quelle della democrazia. Una tensione che fa delle perturbazioni e dell’instabilità la regola piuttosto che l’eccezione. Allora non si comprenderebbe l’attuale crisi se non alla luce della trasformazione, intrinsecamente conflittuale, di ciò che viene chiamato il «capitalismo democratico».
Dalla fine degli anni ’60 in poi, tre soluzioni sono state successivamente messe in atto per superare la contraddizione fra democrazia politica e capitalismo di mercato. La prima è stata l’inflazione; la seconda il debito pubblico; la terza il debito privato. A ognuno di questi tentativi corrisponde una particolare configurazione dei rapporti fra i poteri economici, il mondo politico e le forze sociali. Ma questi accomodamenti entrarono in crisi uno dopo l’altro, rendendo precipitoso il passaggio al ciclo seguente. La tempesta finanziaria del 2008 segnerebbe quindi la fine della terza epoca e il probabile avvento di un nuovo assetto, la cui natura resta incerta.
Conflitto di ripartizione
Il capitalismo democratico del dopoguerra ha visto la sua prima crisi a partire dalla fine degli anni ’60, quando l’inflazione cominciava a impennarsi nell’insieme del mondo occidentale. L’affanno di cui soffriva la crescita economica minacciava improvvisamente la perennità di un modo di pacificazione dei rapporti sociali che aveva messo termine alle lotte del dopoguerra. Nell’essenziale la ricetta adottata fino ad allora era la seguente: la classe operaia accettava l’economia di mercato e la proprietà privata in cambio della democrazia politica, la quale garantiva protezione sociale e miglioramento costante del livello di vita. Più di due decenni di crescita ininterrotta contribuirono a fissare la convinzione che il progresso socio-economico costituisse un diritto inerente alla cittadinanza democratica. Questa visione del mondo si traduceva in rivendicazioni che i dirigenti si sentivano costretti a onorare: allargamento dello Stato-provvidenza, diritto dei lavoratori a negoziati collettivi liberi, pieno impiego. Altrettante misure sostenute da governi che utilizzavano abbondantemente gli strumenti economici keynesiani.
Ma quando, all’inizio degli anni ’70, la crescita cominciò a flettere, questo compromesso si mise a vacillare – un’instabilità che si manifestò con un’ondata mondiale di protesta sociale. I lavoratori, che ancora la paura della disoccupazione non paralizzava, non intendevano rinunciare a ciò che consideravano come il loro diritto al progresso.
Nel corso degli anni seguenti tutti i governi del mondo occidentale si trovarono di fronte al medesimo problema: come condurre i sindacati a moderare le richieste di aumento dei salari senza dover rimettere in discussione la promessa keynesiana del pieno impiego? Effettivamente, se in alcuni Paesi la struttura istituzionale del sistema di negoziati collettivi facilitava la firma di «patti sociali» tripartiti, negli altri gli anni ’70 furono segnati dalla convinzione (condivisa nelle più alte sfere dello Stato) che lasciare crescere la disoccupazione per contenere l’aumento dei salari avrebbe significato un suicidio politico, perfino la morte della stessa democrazia capitalista. Per uscire da questo vicolo cieco e conservare allo stesso tempo il pieno impiego e i negoziati collettivi liberi, si profilò una via d’uscita: l’ammorbidimento delle politiche monetarie, fino a lasciare correre l’inflazione.
All’inizio l’aumento dei prezzi non costituiva affatto un problema per i lavoratori: erano rappresentati da sindacati abbastanza potenti per imporre un’indicizzazione di fatto dei salari basata sull’aumento dei prezzi. Al contrario, erodendo i loro patrimoni, l’inflazione arrecava danno ai creditori e ai detentori di attività finanziarie, vale a dire a gruppi che contavano relativamente pochi lavoratori nelle loro file. In queste condizioni si può descrivere l’inflazione come il riflesso monetario di un conflitto di ripartizione (distributivo): da un lato una classe operaia che reclamava la sicurezza dell’impiego e una parte più importante del reddito nazionale; dall’altra una classe capitalista che si sforzava di massimizzare i redditi da investimenti. Poiché le due parti si fondano su idee reciprocamente incompatibili circa quello che spetta loro, poiché l’una mette davanti a tutto i diritti dei cittadini e l’altra quelli della proprietà e del mercato, l’inflazione esprime qui l’anomia di una società i cui membri non arrivano a mettersi d’accordo su criteri comuni di giustizia sociale.
Se nell’immediato dopoguerra la crescita economica aveva permesso ai governi di disinnescare gli antagonismi di classe, l’inflazione ormai permetteva loro di preservare il livello dei consumi e la ripartizione dei redditi, attingendo a risorse che l’economia reale non aveva ancora prodotto.
Efficiente, questa strategia di pacificazione dei conflitti non avrebbe tuttavia potuto durare indefinitamente. Essa finì con il suscitare una reazione da parte dei detentori dei capitali, ansiosi di proteggere il loro patrimonio. In definitiva l’inflazione avrebbe condotto alla disoccupazione, punendo i lavoratori dei quali all’origine aveva servito gli interessi. Pungolati dai mercati, i governi abbandonarono gli accordi salariali ridistributivi per ritornare alla disciplina di bilancio.
L’inflazione fu vinta dopo il 1979, quando Paul Volcker, nominato da poco direttore della Riserva Federale americana (FED) dal presidente James Carter, decise un aumento senza precedenti dei tassi d’interesse, che fece salire la disoccupazione a livelli mai visti dopo la Grande Depressione degli anni ’30. Questo «putsch» fu convalidato dalle urne: il presidente Ronald Reagan, che si dice avesse dapprima temuto le ricadute politiche delle misure deflazioniste prese da Volcker, fu rieletto nel 1984.
Garantire la pace sociale
Nel Regno Unito la signora Margaret Thatcher, che aveva seguito le politiche americane, fu anch’ella riportata al suo posto di Primo ministro nel 1983, malgrado l’aumento del numero di disoccupati e la rapida deindustrializzazione causata, fra l’altro, dalla sua politica di austerità monetaria. Nei due Paesi la deflazione fu accompagnata da un attacco in piena regola contro i sindacati.
Nel corso degli anni seguenti l’inflazione rimase circoscritta all’insieme del mondo capitalista, mentre la disoccupazione continuava con un aumento più o meno costante: dal 5% al 9% fra il 1980 e il 1988, in particolare in Francia. Allo stesso tempo il tasso di sindacalizzazione precipitava e gli scioperi divennero tanto rari che alcuni Paesi finirono col non più elencarli.
L’era neoliberista si aprì nel momento in cui gli Stati anglosassoni abbandonarono quello che era stato uno dei pilastri del capitalismo democratico del dopoguerra: l’idea che la disoccupazione avrebbe distrutto il sostegno politico del quale godevano non soltanto i governi in carica, ma anche il sistema di organizzazione sociale stesso. In tutto il mondo i dirigenti politici seguirono con grande attenzione le esperienze portate avanti da Reagan e dalla Thatcher. Tuttavia coloro che avevano sperato che la fine dell’inflazione avrebbe posto un termine ai disordini economici furono smentiti dai fatti. L’inflazione non retrocedette se non per cedere il posto al debito pubblico, che gli anni ’80 videro prendere il volo. E ciò per diverse ragioni.
La stagnazione della crescita aveva reso i contribuenti – in particolare i più prosperi e influenti – molto ostili al prelievo fiscale. E l’arginamento del rialzo dei prezzi mise fine agli aumenti d’imposta automatici (a mano a mano che i redditi crescevano). Questo fu anche la fine della svalutazione continua del debito pubblico tramite l’indebolimento delle monete nazionali, che in un primo tempo aveva completato la crescita economica, per poi sostituirvisi progressivamente, come strumento privilegiato per ridurre l’indebitamento. L’aumento della disoccupazione provocato dalla stabilizzazione monetaria obbligò gli Stati ad accrescere le spese in aiuti sociali. Inoltre l’istituzione dei diritti sociali creati nel corso degli anni ’70 in cambio dell’accettazione da parte dei sindacati della moderazione salariale (una forma di salari differiti) cominciava a sfaldarsi e a pesare sempre più pesantemente sulle finanze pubbliche.
Poiché non era più possibile puntare sull’inflazione per ridurre lo scarto fra le esigenze dei cittadini e quelle dei mercati, spettò allo Stato finanziare la pace sociale. Durante un certo tempo il debito pubblico costituì un comodo equivalente funzionale dell’inflazione. Effettivamente, proprio come quest’ultima, esso permetteva ai governi di utilizzare risorse che non erano ancora state prodotte, per calmare i conflitti di ripartizione. O, per dirlo altrimenti: di attingere alle risorse future per completare quelle attuali. A mano a mano che la lotta fra le esigenze dei mercati e quelle della società si spostava dal luogo della produzione all’arena politica, le pressioni elettorali si sostituirono alle lotte sindacali. Invece di stampare carta moneta i governi si misero a prendere in prestito a ritmi sempre più elevati. Un processo reso facile dal debole livello dell’inflazione, che rassicurava i creditori sul valore a lungo termine dei titoli di Stato.
Eppure l’accumulazione di debito pubblico non avrebbe potuto, neppure essa, durare in eterno. Da molto tempo gli economisti davano l’allarme alle autorità sul fatto che i deficit pubblici drenavano le risorse disponibili e soffocavano gli investimenti privati, provocando un rialzo dei tassi d’interesse e un rallentamento della crescita. Tuttavia essi non erano in grado di identificarne una soglia critica. In pratica si è rivelato possibile, almeno durante un certo periodo, mantenere i tassi d’interesse relativamente bassi con la deregolamentazione dei mercati finanziari e contenere l’inflazione indebolendo ancor più i sindacati.
Dal debito pubblico al debito privato
Tuttavia gli Stati Uniti, Paese nel quale il livello del risparmio risulta essere eccezionalmente basso, si misero presto a vendere i loro buoni del Tesoro non solamente ai loro propri cittadini, ma anche a investitori esteri, compresi i fondi sovrani. Inoltre, a mano a mano che il peso del debito aumentava, una parte crescente delle spese pubbliche serviva a pagarne gli interessi. E soprattutto doveva ben succedere che a un dato momento, impossibile da determinare in anticipo, i creditori stranieri e nazionali esigessero di recuperare il loro denaro. I «mercati» avrebbero allora messo in moto tutto [il loro peso] per imporre agli Stati la disciplina di bilancio e l’austerità necessarie alla salvaguardia dei loro interessi.
Nel 1992 l’elezione presidenziale americana fu dominata dal problema del doppio deficit: deficit del Governo federale e deficit commerciale dell’intero Paese. La vittoria di William Clinton, che ne aveva fatto l’asse principale della sua campagna elettorale, segnò l’inizio di una serie di sforzi per consolidare il bilancio (2). Su scala mondiale i consolidamenti di bilancio furono promossi aggressivamente, sotto la guida degli Stati Uniti, da istanze come l’OCSE (Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico) e il FMI (Fondo Monetario Internazionale). In un primo tempo l’amministrazione democratica progettò di ridurre il deficit rilanciando la crescita economica mediante importanti riforme sociali e aumentando le imposte. Nel 1994, tuttavia, i democratici persero la maggioranza al Congresso con le elezioni di metà mandato. Clinton fece voltafaccia e adottò allora una politica di austerità, marcata da importanti riduzioni delle spese pubbliche e da un capovolgimento politico che avrebbe dovuto, secondo le sue parole, mettere termine alla «protezione sociale come noi la conosciamo». Tra il 1998 e il 2000, per la prima volta da decenni, il governo federale americano registrò una eccedenza di bilancio.
L’amministrazione Clinton non era per questo riuscita a pacificare l’economia politica del capitalismo democratico in modo perenne. La sua strategia di gestione dei conflitti sociali consistette in gran parte nell’amplificare la deregolamentazione del settore finanziario, già avviata sotto Reagan. La rapida accentuazione delle ineguaglianze dei redditi, causata dal continuo declino della sindacalizzazione e le forti riduzioni delle spese sociali, come l’abbassamento della domanda aggregata (3) generata dalle politiche di adeguamento del bilancio, furono controbilanciate dalla possibilità per i cittadini e delle imprese d’indebitarsi a livelli senza precedenti. La felice espressione di «keynesianesimo privatizzato» fece allora la sua apparizione per designare la sostituzione del debito privato con il suo gemello pubblico. Il governo non prendeva più a prestito per finanziare l’eguaglianza all’accesso ad abitazioni decenti o la formazione dei lavoratori: erano ormai gli individui stessi a essere invitati (il più sovente senza averne veramente la possibilità di scelta) a contrattare prestiti a loro rischio e pericolo, per pagare i loro studi o per trasferirsi in quartieri meno poveri (4).
La politica messa in atto sotto l’amministrazione Clinton rese felice molti. I ricchi pagavano meno imposte e quelli di essi che erano stati abbastanza accorti da investire nel settore finanziario ne ricavarono profitti enormi. Ma i poveri non ebbero tutti da lamentarsi – almeno, non in un primo tempo. I crediti subprime e l’illusoria ricchezza sulla quale essi si basavano si sostituirono alle allocazioni sociali (che venivano soppresse) e agli aumenti di salario (allora inesistenti al livello più basso della scala di un mercato del lavoro già reso flessibile). Per gli afroamericani in particolare l’acquisto di un alloggio non rappresentava unicamente la realizzazione del «sogno americano»: si trattava di un sostituto essenziale alle pensioni che il posto di lavoro, quando ne avevano uno, non assicurava loro e che non avevano alcuna ragione di sperare da parte di un governo votato all’austerità permanente.
Così, a differenza del periodo dominato dal debito pubblico – in cui il prestito di Stato permetteva di utilizzare oggi le risorse di domani – erano ormai gli individui che potevano acquistare immediatamente tutto ciò di cui avevano bisogno, monetizzando il loro impegno a versare una parte significativa dei loro redditi futuri sui mercati.
La liberalizzazione permise dunque di compensare il consolidamento del bilancio e l’austerità pubblica. Il debito privato si aggiunse al debito pubblico e la domanda individuale – formata con grandi iniezioni di dollari dalla fiorente industria del casinò finanziario – prese il posto della domanda collettiva pilotata dallo Stato. Fu quindi essa che sostenne i posti di lavoro e i profitti, specialmente nel settore immobiliare. Questa dinamica ebbe un’accelerazione a partire dal 2001, quando la FED, presieduta da Alan Greenspan, adottò tassi d’interesse molto bassi allo scopo di prevenire una recessione e un ritorno a livelli elevati di disoccupazione. Ma il «keynesianismo privatizzato» non soltanto permise al settore finanziario di liberare profitti senza precedenti: fu anche il pilastro di un boom economico che faceva impallidire di gelosia i sindacati europei. Questi ultimi presero a modello la politica del denaro facile messa in atto da Greenspan, che provocava il rapido indebitamento della società americana. Essi osservavano con entusiasmo che, a differenza della Banca Centrale Europea, la FED americana aveva l’obbligo giuridico non soltanto di assicurare la stabilità monetaria, ma anche di mantenere un alto livello d’occupazione. Tutto questo ebbe sicuramente fine nel 2008, con il crollo improvviso della piramide di crediti internazionali sulla quale si era fondata la prosperità della fine degli anni ’90 e dell’inizio degli anni 2000.
Dopo i periodi successivi dell’inflazione, dei deficit pubblici e dell’indebitamento privato, il capitalismo democratico del dopoguerra è quindi entrato nel suo quarto stadio. Mentre l’insieme del sistema finanziario mondiale minacciava d’implodere, gli Stati-nazione tentarono di restaurare la fiducia economica socializzando i prestiti tossici che prima avevano autorizzato, allo scopo di controbilanciare le loro politiche di consolidamento di bilancio. Combinata al rilancio necessario per prevenire un crollo dell’«economia reale», questa misura causò un’accentuazione spettacolare dei debiti pubblici. Si noterà per inciso che questo sviluppo non derivava dalla natura spendereccia di dirigenti opportunisti o da istituzioni pubbliche mal concepite, come pretendevano alcune teorie concepite nel corso degli anni ’90, sotto gli auspici, specialmente, della Banca Mondiale e del FMI.
Il seguito è noto: dopo il 2008, il conflitto di ripartizione inerente al capitalismo democratico si è trasformato in una lotta accanita fra investitori finanziari mondiali e Stati-nazione sovrani. Mentre per il passato i lavoratori lottavano contro i padroni, i cittadini contro i ministri delle Finanze e i debitori privati contro le banche private, oggi le istituzioni finanziarie incrociano i ferri con gli Stati… che esse hanno tuttavia recentemente sottoposto a un ricatto per ottenere da questi di essere salvate. Rimane da determinare la natura del rapporto di forza sul quale posa questa situazione.
A partire dall’inizio della crisi, per esempio, i mercati finanziari esigono tassi d’interesse molto variabili a seconda degli Stati. Quindi esercitano pressioni differenti sui governi per obbligare i loro cittadini ad accettare tagli di bilancio senza precedenti. Poiché oggi un debito colossale grava sulle spalle degli Stati Uniti, qualsiasi aumento dei tassi d’interesse, fosse anche minimo, è suscettibile di provocare un disastro di bilancio (5). Allo stesso tempo i mercati devono guardarsi bene dal mettere gli Stati sotto una pressione troppo forte, perché questi ultimi potrebbero pur sempre scegliere di fare fallire il loro debito [ndt.: vedi Islanda]. Occorre perciò che alcuni Stati siano disposti a salvarne altri, più minacciati, in modo da premunirsi contro il rialzo generale dei tassi d’interesse sui debiti sovrani.
Inoltre i mercati non attendono solamente un consolidamento del bilancio: esigono ugualmente prospettive ragionevoli di crescita economica. Ma come combinare le due cose? Il premio di rischio sul debito irlandese, nonostante fosse diminuito quando il Paese si è impegnato a prendere misure drastiche di riduzione del suo deficit, è risalito qualche settimana più tardi: il piano di risanamento era tanto rigido da impedire qualsiasi ripresa economica (6).
Lo scacco della regolamentazione
Da qualche anno l’amministrazione politica del capitalismo democratico si rivela sempre più delicata. D’altronde è probabile che, dopo la Grande Depressione, i dirigenti politici non si siano mai confrontati con un’incertezza tanto grande.
È del tutto inimmaginabile, d’altro canto, che una nuova bolla [speculativa] già si gonfi, pregna del denaro a buon mercato che continua a colare a fiotti. Se non è più possibile investire nei subprime, almeno per il momento, il mercato delle materie prime o la nuova economia di Internet offrono ad alcuni prospettive allettanti.
Nulla impedisce alle società finanziarie d’investire le liquidità, con cui le Banche centrali le abbeverano, in quello che esse giudicano essere il «nuovo settore di crescita» – a nome dei loro clienti privilegiati e, perché no, per il loro proprio profitto. Dopo tutto, poiché le riforme che avrebbero dovuto regolare il settore finanziario sono quasi totalmente fallite, il capitale può mostrarsi oggi un po’ più esigente di prima. E le banche, già descritte nel 2008 come troppo grandi per fallire («too big to fail»), possono sperare di esserlo ancora nel 2012 o nel 2013. Potranno quindi mettere in atto il ricatto che seppero giocarsi tanto abilmente tre anni fa. Ma questa volta il salvataggio pubblico del capitalismo privato potrebbe rivelarsi impossibile, anche soltanto per il fatto che le finanze pubbliche hanno raggiunto il limite delle loro capacità.
Nella crisi attuale il rischio per la democrazia si rivela tanto grande quanto quello che pesa sull’economia, se non maggiore. Non soltanto l’«integrazione sistemica» delle società contemporanee – vale a dire il funzionamento efficiente dell’economia capitalista – trema sulle sue basi, ma accade lo stesso alla loro «integrazione sociale» (7).
L’avvento di una nuova era d’austerità ha gravemente afflitto la capacità degli Stati di trovare un equilibrio fra i diritti dei cittadini e le esigenze di accumulo dei capitali inoltre, la ristrettezza dei rapporti d’interdipendenza che i Paesi mantengono fra loro rende illusoria la soluzione delle tensioni fra economia e società (o capitalismo e democrazia). Nessun governo può più permettersi d’ignorare le costrizioni e gli obblighi internazionali, in particolare quelli dei mercati finanziari. Le crisi e le contraddizioni del capitalismo democratico si sono a poco a poco internazionalizzate e si svolgono non soltanto in seno agli Stati, ma fra loro, secondo combinazioni e permutazioni che restano da esplorare.
Quando si osserva lo svolgersi della crisi dopo gli anni ’70 sembra verosimile che il capitalismo democratico trovi uno strumento nuovo – benché temporaneo, anch’esso – per risolvere i conflitti sociali. Ma stavolta con modalità che dovrebbero andare interamente a vantaggio delle classi possidenti, trincerate in una piazzaforte politicamente imprendibile: l’industria della finanza internazionale. Dopotutto si può escludere che queste [classi benestanti] immaginino con fiducia il risultato del combattimento estremo, che potrebbero decidere di provocare contro il potere politico, senza imporre prima la loro legge, una volta per tutte?
(1) Per l’espressione «Grande Récession», cf. Carmen M. Reinhart et Kenneth S. Rogoff, This Time Is Different : Eight Centuries of Financial Folly, Princeton University Press, 2009.
(2) Insieme delle misure di risanamento del bilancio, destinate a migliorare l’avanzo primario (introiti dell’anno meno spese, al netto degli interessi sul debito)
(3) Domanda totale di beni e servizi in una economia.
(4) Vedi Gérard Duménil et Dominique Lévy, «Une trajectoire financière insoutenable», Le Monde diplomatique, août 2008.
(5) Per uno Stato il cui debito si eleva al 100% del PIL, un aumento del 2% del tasso d’interesse che paga ai suoi creditori aumenterebbe il suo deficit annuale dello stesso importo. Di conseguenza un deficit di bilancio del 4% del PIL aumenterebbe di metà.
(6) Vedi Frédéric Lordon, «Sur le toboggan de la crise européenne», Le Monde diplomatique, décembre 2011.
(7) David Lockwood ha definito questi concetti in «Social integration and system integration», dans George Zollschan et Walter Hirsch (sous la dir. de), Explorations in Social Change, Routledge & Kegan Paul, Londres, 1964.
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