Prima di parlare di lui (se ho capito qualcosa della fonetica cinese il suo nome dovrebbe suonare “Ggiù” Yunpeng), bisogna ascoltare fino in fondo Bambini cinesi 中国孩子. Questa è la più struggente tra le sue interpretazioni (sottotitolata in inglese).
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Zhou Yunpeng, oggi quarantaquattrenne, è nato in una poverissima famiglia dello Shenyang, nella provincia di Liaoning, al confine con la Corea del Nord. A nove anni una malattia lo ha reso cieco. Per un figlio di contadini poveri la cecità avrebbe potuto rappresentare la fine di ogni cosa. Per lui invece è stato l’inizio di tutto. Si è messo in viaggio con una chitarra e in cambio di lezioni di musica si è fatto leggere migliaia di libri, fino a laurearsi in lettere. A 17 anni ha raggiunto Pechino. «Allora ho capito – dice – che nessuno ci racconta cosa succede e che saperne di più è essenziale. La Cina non è il rassicurante successo economico di un pugno di dirigenti».
Il video sottostante è un bellissimo montaggio sulle note di Settembre 九月 (Jiǔ yuè) ispirata ad una poesia di Haizi. Di seguito Bambini cinesi 中国孩子 in versione live (qui il testo italiano).
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Le sue canzoni sono il manifesto di una nuova dissidenza giovanile, meno politica e più attenta ai problemi sociali, e di migliaia di attivisti in esilio. In modo semplice e profondo raccontano il disastro ambientale, la tragedia dei lavoratori migranti, la schiavitù e la morte nelle miniere e nelle fabbriche, la spietatezza della fame che sconvolge chi la soffre, l’ingiustizia del potere risolto nei privilegi. Sono le storie quotidiane del Paese, lontano dai riflettori dei centri direzionali di Pechino e di Shanghai, ignorate dai giornali e bandite dalla televisione.
Una sua poesia in musica è diventata il cartello di chi non è ossessionato solo dagli indici della Borsa. Si intitola Meglio non essere bambini cinesi e ricorda alcuni fatti che stanno segnando l’anima della gente. La tragedia di Kelamayi, ad esempio: 288 bambini morti bruciati in un teatro per dare la precedenza, nella fuga, ai funzionari di partito. O la fine di Song Yan, tre anni di Chengdu, morta di fame in casa dopo l’arresto della madre: la polizia le negò una telefonata e i vicini trovarono lo scheletro della figlia 17 giorni dopo. Oppure il crollo della scuola di Shalan, spazzata via da una prevista alluvione: 88 morti perché le autorità erano in vacanza e la polizia bloccò le auto dei soccorsi, prive di permesso. Un verso dice. «Meglio non essere figli di cinesi, tuo padre e tua madre sono entrambi vigliacchi che per dimostrare la loro fedeltà, quando la morte è a portata di mano, fanno accomodare prima i leader».
Zhou Yunpeng non canta però solo la gestione disumana delle calamità. Denuncia i cantieri-cimitero privi di qualsiasi misura di sicurezza, lo scandalo del sangue infetto nello Henan, il silenzio complice sul latte alla melamina, i veleni chimici che sterminano villaggi per arricchire le multinazionali, la corruzione di funzionari che «vendono figli, terra e anima». Tre anni fa la sua ironia sulle Olimpiadi è diventata un cult. Sulle note di Fra Martino campanaro paragonò i Giochi al potere e al «culo della tigre, guai a toccarlo». Un musicista-poeta cieco sta rivelando il prezzo dell’ascesa di Pechino sulla scena del mondo: la Cina lo ascolta, ci pensa e comincia a vedere «al di là di una nuvola».
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